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Autore: paffywolf    13/06/2012    4 recensioni
Rachel, Quinn e Santana avevano sempre desiderato andare via da Lima. Ma sarà davvero New York il posto giusto per loro?
New York è il perfetto modello di una città, non il modello di una città perfetta.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Quinn Fabray, Rachel Berry, Santana Lopez
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A place for us
 

Salve a tutti! Ho deciso di inizare questo progetto a causa della voglia di leggere qualche FF sul futuro di Rachel, Quinn e Santana a New York. Il finale di stagione ha lasciato aperte fin troppe pagine e così ho deciso di provare io stessa a riordinare un po' le idee che mi frullavano in testa e riassumerle in una storia.
New York è l'emblema del sogno americano, eppure è una città tutt'altro che perfetta. Saranno proprio le 3 protagoniste di questa FF a svelare i lati nascosti di una delle città più famose al mondo. E forse dovranno fare i conti con i fantasmi del loro passato.
La storia tratterà tematiche forti, ma cercherò comunque di non rendere il tutto troppo pesante visto che Glee nasce come comedy.
Ma non voglio anticiparvi nient'altro, buona lettura! :)




Capitolo I: Rachel - L'arrivo

Rachel Berry


Un formicaio.
Quella fu la prima impressione che ebbi del teatro della NYADA. Non notai le lussuose poltrone di velluto rosso, né le luci accecanti che inondavano il legno scuro dell’immenso palcoscenico, né l’enorme tendaggio del sipario.

No, la prima cosa che mi colpì fu l’assoluta e precisa organizzazione di ogni singola cosa in quel luogo. Proprio come tante piccole formiche, ogni studente trascinava la propria valigia con sé, osservava il proprio biglietto e ordinatamente arrivava al proprio posto. Persino chi non era mai stato in quel luogo, come me d’altronde, riusciva immediatamente a trovare la propria poltrona e vi si sedeva in attesa dell’assemblea d’inizio anno.

Quella mattina i miei genitori, in ansia come mai prima di allora, mi avevano salutato con un sorriso dalla porta del loro appartamento nuovo di zecca nel pieno centro di New York. I risparmi di una vita avevano permesso loro di comprare un bilocale nel costosissimo Upper East Side, il quartiere della socialite, la gente che a New York contava davvero. E poco importava se per comprare quel piccolo appartamento avessero dovuto vendere la nostra vecchia casa a Lima, in Ohio. Era un patto da sempre sancito, un tacito accordo tra noi tre: dove va uno, vanno tutti gli altri.
L’autista del mio taxi – giallo come tutti quelli di New York – mi chiese con un sorriso dove desiderassi essere portata. E fu con immenso orgoglio che gli risposi: “Alla NYADA, l’accademia di arti drammatiche”.

NYADA, New York, Broadway. Tutti i miei sogni erano diventati realtà: una realtà in cui mi trovai a mio agio fin dal mio primo giorno nella Grande Mela, quasi come fossi nata per appartenere a quella magica città.
Le lacrime versate durante quel lungo viaggio in treno non furono l’ultima cosa che portai con me dalla mia vita passata: vi furono anche dozzine di sms dei miei vecchi compagni di scuola, amici straordinari che mi avevano accompagnato nel corso di quegli anni e ai quali sarei rimasta per sempre legata.

Appena arriverò a Yale ci vedremo, te lo prometto. Ti voglio bene - Quinn

Ciao piccola stella. Domani mattina DEVI andare da Tiffany e fare colazione con quei deliziosi bagel, come quando eravamo insieme. A presto – Kurt

Ogni giorno controllerò i giornali, per essere sicura che il tuo nome non appaia sui tabloid prima del mio. :)  - Mercedes

Avrai sempre un posto speciale nel mio cuore. Quando avrai un’enorme piscina nella tua villa da riccona, ricordati del tuo fratellone. ;) - Puck

Lessi e rilessi i messaggi di tutti loro più e più volte durante il viaggio, in attesa dell’unico messaggio che davvero desideravo. 

Finn però non si fece sentire né quel giorno, né durante i mesi successivi: gli scrissi tre volte e non ebbi mai risposta. Probabilmente avevo frainteso il significato delle sue parole: credevo ci saremmo impegnati in quella che solitamente viene definita “relazione a distanza”, ma evidentemente lui non era dello stesso avviso quando aveva pronunciato le parole che ci avevano separato per sempre.
Quella sera, sdraiata nel mio letto nel nuovo appartamento, mi addormentai con l’anello regalatomi da Finn al dito. Il suo lieve bagliore fu l’ultima cosa su cui posai lo sguardo, prima di chiudere gli occhi.
L’indomani quell’anello era sparito. A nulla erano valsi i tentativi dei miei papà di convincermi che l’avevo perso: ricordavo distintamente il modo in cui le luci di New York si specchiavano in quel piccolo brillante mentre poggiavo la mano sul cuscino. Lo cercai ovunque nell’appartamento: svitai addirittura il sifone del lavandino, ma dell’anello non vi era più alcuna traccia.

Persino in quel momento perfetto e che aspettavo da tutta una vita, seduta sulla mia poltrona e in attesa dell’assemblea di inizio anno, il pollice della mano sinistra sfiorò l’anulare, alla ricerca di quell’anello andato perduto. Era un gesto meccanico, un’abitudine consolidata che faticavo a perdere. Sospirai affranta.
La voce di una ragazza mi risvegliò all’improvviso.

“Tu devi essere Rachel, giusto?”
Alzai lo sguardo e mi ritrovai di fronte a una ragazza della mia età, la cui pelle color dell’ebano riluceva delicatamente. Il suo viso mi era familiare, grazie al fascicolo che la NYADA forniva a ogni studente il primo giorno: il mio recitava stanza 302, terzo piano, corridoio A, letto 2. A lei apparteneva il letto 1: era la mia coinquilina.
I suoi lunghi capelli erano raccolti in tante piccole trecce che le ricadevano sulle spalle, ciascuna fermata da un minuscolo fermaglio colorato. Sorrise appena e le sue labbra piene rivelarono una schiera di denti perfetti e bianchissimi. Un piccolo bagliore catturò la mia attenzione sul suo naso affilato: un brillantino sulla narice sinistra.
“E tu sei... Violet?”le risposi, allungando una mano con un sorriso. Lei la strinse tra le sue e sussurrò qualcosa in una lingua a me sconosciuta. Non feci in tempo però a chiederle cosa significasse, perché la direttrice dell’accademia salì sul palco e le luci intorno a noi si spensero per fare spazio a un unico accecante faro che puntava verso di lei. La riconobbi all’istante.
“Buongiorno e un bentornato a voi, piccole star in erba. E un caloroso benvenuto a tutti i nuovi studenti del corso di arti sceniche. Come penso tutti sappiate, io sono Carmen Tibideaux e sono qui per presentarvi il programma di questo nuovo anno accademico. Prima di fare qualsiasi cosa, però, come d’abitudine lascio il palcoscenico ai nostri studenti dell’ultimo anno.”
“Abitudine?”chiesi, allungandomi verso Violet.
“Sì, ogni anno allestiscono un piccolo spettacolo di una decina di minuti circa. Sono canzoni classiche, ma a volte vengono arrangiate in modi diversi dagli studenti.”mi sussurrò lei, mentre il sipario si alzava e mostrava una sagoma nera che riproduceva i grattacieli di New York. Riconobbi chiaramente l’Empire State Building al centro della scena, prima che la mia attenzione venisse catturata da un ragazzo biondo che indossava un impermeabile color ghiaccio.

Start spreading the news,
I'm leaving today.
I want to be a part of it,
New York, New York.

La sua voce era indescrivibile e all’istante mi sentii una stupida nell’essere stata tanto presuntuosa gli anni precedenti. Capii subito cosa chiedeva da me quella scuola, cosa sarebbe riuscita a garantirmi in caso di successo: perfezione assoluta nel canto e nella danza.
I ragazzi sul palco che eseguivano la coreografia erano tutti perfettamente a tempo, ugualmente aggraziati e precisi mentre intonavano la melodia che accompagnava quel misterioso ragazzo biondo mentre cantava uno dei più grandi classici della storia della musica.
I minuti trascorsero velocemente mentre altri ragazzi e ragazze si unirono a lui per altre battute di quella stessa canzone, rincorrendosi l’un l’altro alla ricerca di note sempre più alte. 

Quando la magia di quello spettacolo finì, rimasi impietrita al mio posto, incapace persino di battere le mani per applaudire. Continuavo a scrutare i volti di quei ragazzi sorridenti mentre camminavano ordinatamente verso il pubblico per dare il loro saluto.
Mi voltai verso Violet, sul cui viso era stampato un sorriso entusiasta. Mi ritrovai anch’io a sorridere insieme a lei, quasi senza nemmeno accorgermi della preside che saliva sul palco e iniziava a elencare i nomi di quei ragazzi, che facevano un passo avanti e si inchinavano.
Al nome del ragazzo biondo – tal Andrew Cohen – il teatro sembrò tremare tanto era il caos di applausi e fischi di approvazione.
Carmen Tibideaux concluse l’assemblea leggendo gli orari dei corsi e presentando uno a uno i nostri insegnanti, tutti professionisti di prim’ordine nel campo. Già solo osservandoli fu facile capire chi di loro insegnasse danza, chi canto, chi recitazione. Fra tutti si distinse un’eccentrica ragazza di qualche anno più grande di noi, che al sentir pronunciare il suo nome intonò qualche nota, quasi a sottolineare il fatto che fosse la professoressa di canto lirico.
“Sì professoressa Connelly, la ringraziamo tutti per i suoi vocalizzi. Comunque, l’assemblea è conclusa. Chiunque non sia iscritto al primo anno può andare, gli altri restino qui.” 

Le luci principali si accesero e il teatro si svuotò ordinatamente: a rimanere in quella sala fummo solo noi del primo anno, che sussurravamo intimiditi tra di noi. Madame Tibideaux scese dal palco ridendo.
“Ragazzi, calmatevi. Sembra vi abbia punto qualcuno con uno spillo! Rilassatevi.”disse con un sorriso incoraggiante, frugando in una cartelletta. Ne estrasse un foglio e chiamò i nostri nomi uno a uno in ordine alfabetico, consegnandoci le chiavi delle stanze e un orario delle lezioni. Quando fu il mio turno, un lieve sussurro si alzò dai miei compagni.
“Ah, Rachel... Quante grane mi hai dato lo scorso anno.”borbottò con fare seccato, ma con gli angoli della bocca che trattenevano a stento un sorrisino.
“Guardate bene questa ragazza e statele alla larga.” continuò ridendo, rivolgendosi ai miei compagni. “Mai nella mia carriera ho conosciuto un tale concentrato di bravura, testardaggine e petulanza.”
Mi diede un lieve buffetto sulla mano, mentre mi allungava una scheda e un mazzo di chiavi. Concluse rapidamente la procedura, rivolgendo sorrisi a ciascuno studente. Ma quando chiamò l’ultimo nome della lista – Jessica Zenit – e si rivolse di nuovo a tutti noi, non vi era alcuna traccia di sorrisi sul suo volto.
“Le regole qui alla NYADA sono poche, ma semplici. Vi è concessa una sera libera alla settimana, ma dovrete venire personalmente in ufficio da me per richiedere un permesso per uscire dalla struttura. Se si tratta di appuntamenti che ripetete settimanalmente, come andare a trovare i vostri parenti oppure assistere a funzioni religiose, vi compilerò un permesso speciale che varrà per tutto l’anno. E’ categoricamente proibito fumare all’interno dei locali, così come abusare nel consumo di alcolici. Qualsiasi comportamento scorretto o dannoso per voi o i vostri compagni, verrà severamente punito e a seconda della gravità potrebbe anche garantirvi l’espulsione. Ma confido nel vostro buon senso. Vi auguro buona serata ragazzi, ci vediamo domani mattina per la prima lezione.”

*-*-*-*-*-*

Terzo piano, stanza 302. Lanciai uno sguardo d’intesa a Violet e insieme poggiammo la mano sul pomello della porta, spingendo appena. 

La prima impressione che ebbi fu di luce. La parete di fronte alla porta era interamente composta di pannelli di vetro, lasciando intravedere l’intera città sotto di noi. Il panorama era mozzafiato. La stanza era piccola, ma comunque accogliente. Una porta laccata d’oro conduceva al bagno. Due letti gemelli con i rispettivi comodini davano le spalle alla parete di vetro e un enorme armadio bianco occupava gran parte della parete destra. 
“Rachel, è bellissimo!”esclamò Violet, sfilandosi le scarpe e lanciandosi sul letto. Io mi fiondai nel bagno e quasi gridai dalla felicità.
“Violet, abbiamo una vasca! Una vasca con le zampe di leone!” esclamai ridendo, contagiata dal suo entusiasmo. Temevo di ritrovarmi una doccia angusta, invece avevo a mia disposizione un’enorme vasca da bagno. Con l’idromassaggio!
Appoggiai compiaciuta il mio beauty case sul ripiano del lavandino, uscendo poi dal bagno. Presi la mia valigia e la aprii davanti all’armadio. Appesi ordinatamente i vestiti e le gonne, poi passai ai pantaloni e alle t-shirt, che ripiegai con cura e infilai nei cassetti. Violet, accanto a me, faceva lo stesso. Era un incarico esclusivamente meccanico, così decisi di iniziare a conoscere meglio la mia compagna di stanza. 

“Da dove vieni, Violet? Prima in teatro mi era sembrato di sentirti sussurrare qualcosa, ma non ho capito bene cosa di preciso.” La ragazza sospirò, d’improvviso ogni traccia di ilarità sembrò sparire dal suo viso.
“Sì, hai ragione. La frase che ho pronunciato si usa dire quando ci si presenta a qualcuno. Comunque no, non sono americana, i miei erano originari del Rwanda.”
“Erano?”
“Sono morti quando ero piccola. Io sono stata cresciuta da mia nonna.”
Capii che l’argomento era difficile da affrontare per lei e mi scusai per la mia invadenza. Lei rispose con un sorriso appena accennato, mentre ripiegava un paio di pantaloni.
“Tu invece? Vieni dall’Ohio, giusto?” chiese dopo un po’.
“Affermativo. Ma i miei papà si sono trasferiti qui a New York con me, così potremo vederci senza spendere milioni.
“I tuoi... papà?”
“I miei genitori sono gay. Ancora oggi non sappiamo chi dei due sia il mio padre biologico, ma va bene così.”dissi, tirando fuori dalla valigia le mie lenzuola preferite, di un bel rosa confetto. Presi il cuscino e iniziai a infilare la federa, canticchiando distrattamente. 

“E come mai la Tibideaux ti conosce così bene?”
“La mia prima audizione fu un disastro completo. Decisi di cantare 'Don’t rain on my parade' e dimenticai le parole.” Violet si portò le mani alla bocca con un gemito, quasi come se avessi appena bestemmiato.
“Come hai fatto a essere qui?” Mi squadrò con aria critica, probabilmente convinta che io avessi corrotto la preside con chissà quanti milioni di dollari per garantirmi l’ammissione.
“E’ stata la mia... petulanza.”dissi con una smorfia. ”La tartassai di telefonate e andai personalmente a trovarla in un teatro vicino Lima. Tutto pur di convincerla a venire ad assistere alle Nazionali del mio Glee Club a Chicago.”
“Oh, capisco. Scusami se ho insistito.”
“Figurati, non c’è problema. Piuttosto, avevi anche tu un Glee Club a scuola?”
“Sì, ma lo scorso anno non ci classificammo per le Nazionali. Ebbi una brutta laringite pochi giorni prima delle nostre Regionali e fui costretta al mutismo più totale, oltre a dover subire una lunga serie di riti sciamanici per scacciare il malocchio. Hai presente, no? Teschi di topo...”disse ridacchiando.
“Sacrifici di animali?”proseguii io, reggendole il gioco.
“Sì, milioni di antilopi.” ridacchiò lei.
“Assassina! Io rifiutai di dissezionare la mia rana al laboratorio di scienze. Però quando successe a me, mi presentai a scuola in pigiama, mangiando cereali.”
“Oh, io ti batto di sicuro. Pensa che una volta...”

Violet, nel giro di poche ore, era diventata come un’amica di vecchia data. Ci scambiammo aneddoti divertenti sui nostri rispettivi Glee Club, i primi approcci al canto, gli insuccessi e le vittorie che avevamo ottenuto. Ma quando si trattava di indagare più a fondo nel passato, entrambe glissavamo rapidamente e cercavamo di distogliere l’attenzione dell’altra dai nostri veri problemi.
Quando fu l’ora di cena, scegliemmo di indossare la divisa estiva dell’accademia. Non era obbligatorio indossarla, ma sia io che Violet eravamo entusiaste di provarla. Era composta da un gilet di cotone blu, sotto il quale andava indossata una camicia bianca a nostra scelta. A completare l’uniforme, una gonna azzurra a pieghe, che terminava appena sopra il ginocchio.
“Sai dov’è il refettorio?” mi chiese lei, premendo il pulsante dell’ascensore.
“Non di preciso, ma ho visto una piantina dell’accademia accanto al bancone della reception. Magari è indicato lì.” Uno scampanellio risuonò nell’aria e le lucide porte di metallo si aprirono lentamente. L’ascensore era già occupato da una coppia di ragazzi che chiacchieravano fra loro, entrambi appoggiati alla parete di acciaio.
“Secondo me è al piano terra. A meno che non ci sia una sala da pranzo in terrazza.” replicò Violet, premendo il pulsante del primo piano. Una voce alle nostre spalle interruppe le nostre chiacchiere.
“La sala pranzo è all’ultimo piano, ragazze. Al piano terra c’è solo l’entrata.” Mi voltai e riconobbi all’istante quel ragazzo biondo che poche ore prima mi aveva tanto fatto emozionare con la sua voce. Dal palco non si notava, ma era incredibilmente alto. I suoi occhi grigi incrociarono i miei per un istante e sorrise con fare affabile, costringendomi ad abbassare lo sguardo. Violet, più spigliata di me, ricambiò il sorriso.
“Dodicesimo piano, signor?” Oh sì, Violet. Come se non sapessimo alla perfezione chi fosse. O forse ero soltanto io quella tra le due ad aver impresso nella mente il suo nome. 
“Andrew. E lui è Martin.”disse, indicando il suo amico. Erano molto simili fisicamente, entrambi magri e altissimi, ma i capelli color paglia di Andrew erano l’opposto di quelli di Martin, neri e leggermente ricci.
“Io sono Violet.” Disse, stringendo loro la mano. “E lei è la mia compagna di stanza, Rachel.”
Prima di poter dire qualsiasi cosa, quell’imbarazzante corsa in ascensore ebbe termine.
“Settimo piano, noi scendiamo qui.”disse Andrew, superandoci.
“Ci vediamo in giro!” salutò Martin, uscendo dall’ascensore e agitando appena la mano. 

Appena prima che le porte si chiudessero, li intravidi incamminarsi lungo il corridoio, mano nella mano.
“Cavoli, Andrew è uno schianto.”esclamò Violet. Rimasi in silenzio, meditando su ciò che avevo appena visto.
“Ehi, sto parlando con te?”ridacchiò lei, dandomi un colpetto sull’avambraccio.
“I maschi etero non camminano nei corridoi tenendosi per mano. Giusto?”
“Diamine, non dirmi che loro due...”Sul suo volto si dipinse un’espressione sconsolata.
“Già, credo proprio stiano insieme.”continuai io, ridendo.
“Cavoli, è proprio vero. I bei ragazzi sono tutti impegnati.”
Eppure c’era qualcosa nell’espressione di Andrew che non mi convinceva.
Affatto.

 

   
 
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