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Autore: Glenda    14/06/2012    4 recensioni
Questa è una storia scritta molto tempo fa, e l'affetto che ho per questo sito fa si che voglia condividerla con tutti voi. Nella Firenze degli anni novanta, Mattia, studente fuori sede, affronta il primo anno all'università di lettere. E' solo in una città che non conosce, impacciato, timoroso, ma soprattutto confuso su se stesso e sulla sua capacità di vivere la propria giovinezza pienamente, di saper veramente gioire, soffrire, buttarsi nella vita, amare. Gli serviranno incontri importanti per iniziare a capire, incontri con amici speciali: amici "della razza che non rimane a terra". Storia d'adolescenza, di formazione, d'amore e amicizia che tenta di rispondere ad un vecchio quesito: ma la vita, davvero, come diceva Pirandello, "o si vive o si scrive"?
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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ti guardiamo noi della razza

di chi rimane a terra

 

(E.Montale)

 

 

C'era una sola persona che desideravo davvero conoscere, ed era Filippo Scizio.

Abitava di fronte a casa mia, sul lato opposto della strada, ed era il direttore di "Cambio Rotta", una rivistina di scarsa tiratura, ma piuttosto popolare presso i vari gruppi di impegnati pseudo-politici che svolazzavano a sciami per la facoltà di lettere.

Io ne avevo sentito parlare proprio da loro, benché si trattasse di persone con cui avevo a che vedere ben poco. Anche lui, tuttavia, non apparteneva a quella cerchia: anzi, ci teneva a chiamarsi fuori dall'ambiente studentesco, nonostante ne fosse uscito da così poco.

Era giovane, Filippo: aveva appena ventiquattro anni, si era laureato in fretta, e già era riuscito a far sì che il proprio nome non rimanesse del tutto ignoto nell'ambito della pubblicistica d'avanguardia fiorentina. Chi aveva avuto l'occasione di parlarci di persona gli attribuiva una cultura straordinaria, che però non disdegnava di esibire in troppe occasioni. Era superbo, volitivo, sicuro di sé; prendeva sempre posizioni nette, si alterava facilmente e non scendeva mai a compromessi: non solo...era talmente testardo che portava con orgoglio alle estreme conseguenze le proprie prese di posizione anche quando era chiaramente in torto. Parlava di tutto e bene: grazie alla sua conversazione appassionante, piena di sfide e sarcasmi, non c'era modo di annoiarsi con lui.

La sua rivista intratteneva contatti con un circuito culturale molto più vasto; il giovane direttore e il suo piccolo nucleo di collaboratori erano riusciti a stabilire legami con grandi giornali, locali e non, a cui Filippo inviava articoli regolarmente.

Era un essere infaticabile: sempre in agitazione, sempre attivo, non si fermava mai.

Io lo avevo eretto a modello di tutto ciò che non sarei mai riuscito a diventare: per me il mondo si era fermato all'ultima pagina del libro di storia, e, fino solo a pochi mesi prima, avrebbe pure potuto rimanerci, se non fosse subentrata all'improvviso nella mia vita quella scomoda coscienza di ritardo e insoddisfazione che mi aveva portato lì, a Firenze, sullo strascico dell'estate.

Davvero non sapevo niente della gente della “razza degli Scizio“, eppure quel vicino di casa d'eccezione, forse per la stessa carica carismatica con cui si era fatto strada negli ambienti intellettuali della propria città, forse solo per l'abbaglio della sua giovinezza intensamente vissuta, esercitava su di me un fascino irresistibile.

Il nostro primo incontro fu, tuttavia, soprattutto uno scontro.

 

Mi ero trasferito a Firenze a fine settembre, per seguire i corsi della facoltà di lettere e filosofia. Avevo poca dimestichezza con la città, poco orientamento, pochi soldi, niente casa, nessun mezzo di trasporto. Ma amavo molto gli autobus: tutti, quelli urbani e quelli non, quelli nuovi e quelli vecchi, quelli vuoti e quelli pieni, e proprio là, sul 17 C, linea Cascine-Campo Marte, conobbi Camilla, la mia "ancora di salvezza". Affabile per indole, disinibita per partito preso, fu lei ad "attaccar bottone" per prima e a proporre quasi subito di subaffittarmi una stanza del suo appartamento: "cucina e salotto comuni, telefono a scatti, le altre spese divise...Va bene ?". Bene. Benone, benissimo: accettai senza troppo pensarci, col tiepido entusiasmo di chi non spera gli si offrano opportunità migliori che quella di sacrificare, suo malgrado, la riservatezza alla convenienza. Solo col passare dei giorni ebbi modo di riconoscere quanto l'incontro con Camilla fosse stato provvidenziale, anzi - non fosse per la mia reticenza alle parole "assolutizzanti" - meglio direi "decisivo" (...Ma esistono forse scelte che non sono decisive? E, frasario a parte, "decisivo" che vuol dire?...).

Quando misi piede per la prima volta nel nostro appartamentino al terzo piano, anche lei vi abitava da pochi mesi. Abitava, come me, a Firenze da poco, e poiché - cosa che notai subito - le piaceva non far mistero delle proprie avventure amorose (e con più gusto se non propriamente di avventure ma di disavventure si trattava), mi raccontò seduta stante di esser capitata lì "sedotta e abbandonata" da un bel toscano. Però la città le piaceva - oh, lei era nata in un paese di montagna “tra i lupi con la sciarpa“! - e ci rimaneva volentieri anche sola, nonostante le "finanze" scarseggiassero sempre e trovare un lavoro redditizio fosse un’impresa veramente titanica.

Le sue misere entrate provenivano dalle serate in discoteca: faceva la cubista, ma era un impiego limitato ai fine settimana, tutt’al più a qualche giovedì, e non certo fruttuoso. Più tardi sarebbe stata assunta dal proprietario del dancing che aprirono in autunno vicino casa, per cantare dal vivo e animare le serate. Aveva una splendida voce, anche se, probabilmente, dovette quel lavoro al proprio aspetto. Era davvero molto bella, nonostante manifestasse apertamente di rinunciare a fatica e controvoglia, per lavoro - o per amore (sic!) -, a quel non so ché di trascuratezza (vestitoni immensi, frangia a spiovente sugli occhi e affettate occhiatine infantili) a cui era affezionata e che, vivendo con lei, finirono con l'essere, non senza orgoglio, quasi un mio appannaggio privato, come, del resto, a causa della sua già menzionata trasparenza sentimentale, accadde coi suoi chiodi fissi, le sue contraddizioni, le sue insicurezze continue.

Insicurezze, ho detto: ma in realtà troppo spesso si trattava solo di un desiderio un po' maniacale di conferme, perché, di fatto, nel sottile equilibrio che si era creato tra noi il polo forte fu, fin dal principio, lei. Anzi, dal giorno in cui mi trasferii nel suo appartamento, smisi definitivamente di occuparmi di tutto ciò che riguardava la vita pratica, compresi i versamenti per le mie tasse universitarie; ci volle poco perché da coinquilini divenissimo amici: un'amicizia strana che era in parte tenerezza, in parte tensione protettiva, in parte (e specie da parte sua) spudorata confidenza. Per me era anche una sorta di comodità, una scappatoia alla vigliaccheria di non affrontare di petto il mondo, neppure adesso che ero solo. Tanto che qualche volta me ne sentivo in colpa.

 

Filippo Scizio era il proprietario del nostro appartamento. Io non lo sapevo, e probabilmente neppure Milly, altrimenti saremmo stati più attenti a non farci scoprire.

Venne da noi un mattino, mentre io mi trovavo in facoltà, ed ebbe con la sua affittuaria un colloquio tutt'altro che amichevole.

Che subaffittare non fosse legale, in teoria lo sapevo, ma per quello strano effetto di cui parlavo, mi riusciva facilissimo nascondermi all'ombra di Camilla e scaricare su di lei le infrazioni comuni come le responsabilità individuali.

Quando rientrai era furente: detestava la superbia, e trascorse mezzo pomeriggio a deprecare il modo in cui il "signor Scizio" l'aveva trattata. Conoscendolo, in seguito, mi figurai alla perfezione la scena: Filippo era irruente e spesso non gli mancava una punta di sadismo nell'umiliare le persone che riteneva inferiori. Era un sistema per rafforzare il proprio possesso di sé: si comportava con la gente come coi bersagli dei suoi articoli polemici. Di solito si trattava di atteggiamento, altre volte credo non lo facesse di proposito, ma solo a causa della forza dell'abitudine. Poi si accorgeva di aver ecceduto, ma gli mancava l'umiltà sufficiente per rimediare. Presto imparai a leggere le buone intenzioni, sotto quelle goffe dimostrazioni di pentimento, ma nei nostri primi colloqui mi parevano esclusivamente riaffermazioni della sua arroganza.

Filippo aveva posto un termine alla mia permanenza lì: due settimane per trovarmi un nuovo alloggio, se non volevamo incorrere entrambi in una denuncia per abuso di domicilio. - Io, con quel presuntuoso, non ci parlo! - sentenziò Milly - Stavolta spetta a te!...Magari hai più sangue freddo...E poi sei tu il diretto interessato, no? -.

Questo fu il primo incarico oneroso devoluto a me dall'inizio della nostra fortunosa convivenza, e non potei sottrarmi. Ma di cosa discutere e perché, se eravamo bellamente in torto? Ci pensai a lungo, la sera, prima di addormentarmi, e continuai a rifletterci anche il mattino dopo, mentre mi incamminavo verso l'ufficio di redazione di "Cambio Rotta".

Ricordo che era una giornata meravigliosa: eravamo in pieno autunno, faceva freddo, ma il cielo era limpidissimo, senza l'ombra di una nube, e d'un celeste intenso. L'aria frizzante, e il profumo di sottobosco bagnato che saliva dai mucchi di foglie secche ammassate lungo il marciapiede infondevano vitalità e mi stimolavano a camminare in fretta, col coraggio di un entusiasmo insperato. Ero solo: le vie larghe erano deserte, l'orologio segnava le dieci, e la gente era già tutta a lavoro. Ero più tranquillo della sera precedente, la trasparenza di quel mattino di novembre mi inebriava, e valutavo la situazione con maggiore distacco, quasi dall'esterno. Questo non era però sufficiente a eliminare del tutto la tachicardia, da sempre legata alla mia timidezza cronica.

La redazione era istallata al primo piano di un palazzo antico: gli ingressi erano ampi e luminosi, a pian terreno il sole irradiava il pavimento da una grande porta-finestra, ma la sensazione di umido che passava dalle spesse mura a quel soffitto di un'altezza innaturale tradiva il bell'effetto di tepore creato dal filtrare della luce attraverso i vetri.

Lo staff del "Cambio Rotta" disponeva di sei stanze. Filippo possedeva un ufficio personale, segnalato da una targhetta rotonda d'ottone affissa sulla porta. - Si fanno le cose sul serio! - pensai.

Il direttore sedeva dietro una scrivania, su di una poltroncina girevole, e stava leggermente voltato verso la grande finestra che aveva alle spalle e che offriva una piacevole veduta sul cortiletto interno. Sembrava assorto, teneva tra le dita una penna, e ne mordicchiava l'estremità. Appena gli fui di fronte mi squadrò dall'alto in basso, sfilò elegantemente gli occhiali, e mi invitò ad accomodarmi. Lo conoscevo già, di vista, ma non l'avevo mai guardato direttamente in faccia. Aveva due occhi scuri intensissimi e un profilo lineare tagliente, addolcito appena da un mezzo sorriso di cortesia che era buona educazione regalare ad un ospite.

- Buongiorno - mi disse - in che posso servirla? -

All'improvviso mi sentii svuotare d'ogni spirito d'inventiva: tutti i discorsi progettati la sera, nel dormiveglia, erano sfuggiti dalla testa nel giro di pochi istanti. - Buongiorno - ripetei, meccanicamente - io mi chiamo Mattia Loira. Lei ieri pomeriggio è venuto a casa mia, cioè, sua... - - Ah - m'interruppe - Il subaffittuario della signorina DeGaddi-Ciuffino... - Annuii, stringendomi nelle spalle. Mi aspettavo una sfuriata del tipo di quella descritta da Camilla, invece rimase zitto e attese che parlassi. Credo che fu quest'apparenza di disponibilità (insieme al pensiero di come Milly avrebbe reagito di fronte ad una resa senz'armi) che mi spinse a chiedere uno strappo alla regola, ma credo anche che farfugliai tante di quelle sciocchezze, che Filippo a stento comprese dove volevo arrivare. Inutile dire che la risposta fu un secco no, anzi, il tono che assunse per illustrare i motivi del suo rifiuto eliminò in un attimo quel fragile alone di affabilità che si era appena costruito intorno alla sua figura. - Mi spiace - mormorai io, puntando come meglio potevo sulla carta della cortesia - Non pensavo si trattasse di una trasgressione tanto grave. Vorrà dire che mi troverò al più presto un nuovo alloggio; ma, per piacere, sono costretto a chiederle un po' più di tempo...: mi sono trasferito qui da poco, e sono economicamente in serie difficoltà... - - le difficoltà le abbiamo tutti, signor Loira, - sentenziò lui - ma non autorizzano l'abuso della legge. Dura lex, sed lex.- E detto fatto mi sviscerò una ad una tutte le violazioni che avevo commesso (puntualmente corredate di tutte le conseguenze cui avrei potuto andare incontro) con un fare professorale e tracotante, tale da far perdere la pazienza anche ad uno come me.

- Lei ha ragione - lo interruppi - le difficoltà le abbiamo tutti, ma dovrebbe quantomeno riconoscere che si affrontano più a cuor leggero quando ci si può permettere di dare appartamenti in affitto e collocare la redazione della propria rivista in un magnifico locale che basterebbe da solo a togliere dalla strada una buona parte dei senza tetto di cui parla così bene nella sua inchiesta. - E, non soddisfatto della citazione - Anno due, numero dieci - precisai - ottobre scorso. E se risaliamo al precedente non si contano le sue appassionate parole in difesa dell'uguaglianza sociale, della parità di cultura, e i tanti bei progetti in proposito! Scrive proprio dei begli articoli, signor Scizio: peccato che non sappia nemmeno che la sua affittuaria è costretta a lavorare in una squallida discoteca per pagarle l'appartamento...e le danno pure fastidio il fumo e il volume alto! Evviva la coerenza! -

Mi accorsi di avere esagerato, e mi vergognai, ma forse colsi nel segno, perché Filippo non reagì, e permise che, con più quiete, aggiungessi dell'altro a sostegno della mia "accusa", senza risparmiare in ulteriori prestiti dai suoi articoli. Poi, ad un tratto, mi fermò con un lieve gesto del braccio

- Lei studia, signor Loira? - appoggiò la testa tra le mani e mi guardò fisso.

Annuii.

- Cosa studia? -

- Lettere -

- Un "letterato"- soggiunse - un idealista! -

Il suo tono, adesso, era canzonatorio, ma non ostile. Io, però, stavo ancora sulla difensiva.

-Anche lei non scherza. - ribattei.

S'alzò, e mi accompagnò all'uscita

- Ci penserò, signor Loira - disse, congedandomi - e le farò sapere -.

 

Il colloquio con Filippo Scizio mi scombussolò la giornata: l'intero pomeriggio se ne andò in fumo a rimuginare su ciò che avevo detto e non detto, e sulle risposte che avevo ricevuto. Mi pareva di aver fatto una pessima figura e provavo un avvilente senso di vergogna, e con esso, una gran rabbia verso me stesso, perché mi preoccupavo dell'impressione suscitata su quel presuntuoso, che si era probabilmente divertito un mondo a mettere in risalto le mie difficoltà. In fondo, non avrei potuto reagire diversamente: i cavilli giuridici che mi aveva rovesciato addosso li ignoravo del tutto e non avevo nemmeno la minima parte della facilità di parola con cui Filippo era riuscito tanto bene a mettermi in soggezione. Per quel giorno dimenticai anche la cosa più importante, ossia cercare un nuovo alloggio. Lo stato di sospensione in cui Scizio mi aveva lasciato, infatti, non prometteva niente di buono.

Ero stanco. Stanco di agitarmi perché nella mia vita tutto filasse sempre alla perfezione, stanco di soffrire per cose di poca importanza, una sofferenza che non era mai vero dolore, ma era sempre disagio, fastidio, inerzia.

La vitalità che credevo, nonostante tutto, di possedere, era meno grande dei limiti che mi impedivano di esprimerla. Quali limiti, non lo sapevo...ma li sentivo, e questo bastava.

C'era poco da difendersi: i problemi volevano esistere per forza, e per farlo rubavano le mie energie, ed io rimanevo solo come quella sera, al tavolino vicino la finestra, in un gorgo di emozioni sempre in contrasto.

Con la mia assonnata voglia di fare...

...il timore di me stesso....

...la paura della gente...

Adesso so che conobbi Filippo Scizio proprio nel momento in cui avevo bisogno di lui...

 

La seconda volta che lo incontrai fu in modo più casuale. Ci trovammo per strada, vicino casa, in una traversa della via dove abitavamo. Non mi era mai capitato di imbattermi in lui da quelle parti. Dal giorno della mia visita ai locali della redazione non era passata una settimana.

Anche quel mattino il sole splendeva in un cielo terso, l'aria era gelida e immobile, e luce tutt'intorno: il trionfo della limpidezza.

In quelle giornate cristalline, Firenze era più bella del solito. Di tutto il tempo che vi ho trascorso, ricordo specialmente le giornate così. Per me era la città solare.

Filippo percorreva la strada larga a passo veloce: anche il suo modo di camminare sembrava emanare vivacità e brio. Teneva la fronte alta e il sole gli brillava sulla faccia guarnendo d'un tremante luccichio il ciuffo di capelli nerissimi che portava ben aggiustato sul lato destro del viso. Sorrideva, guardando davanti a sé, per la via dritta, con negli occhi la serietà dell'uomo adulto e l'entusiasmo dei suoi ventiquattro anni.

Io finsi di non accorgermi di lui, ma fu inutile.

- Salve! - esclamò venendomi incontro - Mi rammento di lei, signor Loira. Il letterato! -

Doveva essere allegro, quel mattino: teneva sotto braccio il giornale, e con la mano che aveva libera afferrò energicamente la mia. Poi scosse la testa, e finse uno sguardo di disapprovazione

- Non ci siamo, signor Loira - commentò - un minimo di partecipazione quando mi dà la mano! Una bella stretta, così... - E ripeté il gesto, scoppiando in una fragorosa risata.

Anch'io cercai di ridere, ma mi sentivo molto in imbarazzo.

- Lo sa - insistette - che stringere la mano con debolezza è indice di scarsa personalità? -

- Perché? - protestai - Potrebbe solo essere indice di timidezza! -

Filippo abbozzò quel sorrisetto pericoloso che accompagnava sempre la sua ironia - E dunque lei sarebbe un timido! -Esclamò - Possibile che siano tutti timidi i letterati che conosco? - Questa volta la risposta mi venne istantanea - Perché la timidezza è spesso un attributo della profondità, signor Scizio! - dichiarai, e finalmente in silenzio ci rimase lui. Ma per poco, per fortuna: altrimenti avrei finito col sentirmi ancor più a disagio!

Cambiò discorso, però. Mi chiese se tornavo dall'università, che lezioni avevo seguito, cosa pensavo dell'ambiente accademico, e via dicendo. Camminava a mio fianco, rallentando un po' la sua andatura per stare al passo con me: aveva voglia di chiacchierare. Eppure non osai domandargli cosa avesse deciso per la questione dell'appartamento.

Seguì la mia stessa strada quasi fino a casa, non so se per necessità, o solo per non interrompere la discussione che s'era fatta animata. Parlammo del ruolo della letteratura nella società: lui, da bravo intellettuale impegnato, non si mostrò del mio parere, ma non riuscii a capire se fosse solo un espediente per polemizzare, cosa che - e questo sì, lo afferrai all'istante - gli piaceva molto.

Io, invece, avevo, in proposito, idee fin troppo chiare, e fui felice di costatare un fatto: se non ero capace di destreggiarmi nella civil conversazione, almeno nel campo a me proprio sapevo esprimere il mio pensiero. Lo notò anche Filippo, con piacevole sorpresa, tanto che mi disse che avrei dovuto partecipare ai dibattiti che si svolgevano durante le riunioni della redazione, perché c'era un tal suo amico letterato che si sentiva in imbarazzante minoranza.

Pensai ancora che volesse prendermi in giro, e lo precedetti, sforzando una risata. Lui, però, sorrise soltanto, cortesemente - Lei è un timido davvero, Loira - fece - ma impari a stringere la mano lo stesso. -

Ci separammo a pochi passi dal mio portone. Lui attraversò la strada di corsa, e mi salutò ancora, agitando il braccio. La sua ombra sottile si allungò sull'asfalto, sotto il sole infreddolito di novembre. Ho ben fissa nella memoria quest'immagine, perché avevo abbassato di nuovo gli occhi, timoroso di guardarlo in viso.

E mi venne in mente un pensiero: anche Filippo era una "creatura solare", e sprizzava luce ed energia come la sua città.

 

Pochi giorni dopo lo rividi all'università, ma non mi aspettavo che fosse lì per cercare me. Mi attendeva fuori dell'aula, alla fine della lezione. Era pomeriggio, verso le cinque, e fuori stava già rabbuiando.

Stavolta evitai la cattiva figura di sfuggire il suo sguardo, e in fondo, dopo l'ultima conversazione, mi sentivo meno inibito.

- Buona sera, signor Scizio - dissi - ci incontriamo spesso, ultimamente! -

- Pare di si - rispose lui - Usque tenebo. Persequar! - (niente da fare - pensai - proprio non perdeva occasione per dar sfoggio della propria sapienza!) - Ero venuto qui - continuò, frugandosi caoticamente nelle tasche - Per darle una cosa...Ah, ecco - esultò, estraendo finalmente un foglietto sgualcito da uno degli scomparti del suo porta documenti e porgendomelo - L'ho trovato! -

Istintivamente lo spiegai, e, sul momento, nella luce un po' fioca del corridoio, mi parve di distinguervi solamente una serie di allegri scarabocchi tracciati da mani fantasiose.

- E che sarebbe? - Sbottai, incuriosito, ma sempre nel sospetto che ci si facesse beffa di me.

- Il mio biglietto d'invito alla riunione di giovedì sera. - fece Filippo, con naturalezza, sfoderando un sorriso - Me la riporti in redazione commentata, e poi ne discutiamo. -

Guardai con più attenzione il foglietto, e mi accorsi che, in realtà, i due scarabocchi erano niente meno che parole, scritte a mano in una pessima calligrafia, e che, a giudicare dalla disposizione sulla pagina, avevano la pretesa d'esser versi.

- Che vuol dire "discutiamo"? - Domandai, allarmato, temendo che Filippo mi stesse sottoponendo il compito a casa per poi divertirsi a distruggermi davanti ai suoi colleghi

- Scherzo, signor Loira! - si avvide subito delle mie perplessità, lui - Era solo un pretesto per averla come ospite giovedì. Le prometto - mi assicurò - che non avrò nulla da ridire su qualsiasi cosa lei scriverà. -

Io mi lasciai sfuggire un sorriso

- Ride, eh? Lo so che non è da me accogliere pareri in silenzio. Ma quando prometto, prometto. Chiaramente, non posso obbligarla, ma mi farebbe piacere. -

Annuii, rassicurato.

- Allora siamo intesi - concluse - l'aspetto alle nove, e, se verrà, le garantisco che sarò muto come una tomba! -

Volle stringermi di nuovo la mano, poi scappò via, giù per le scale, dileguandosi come un fantasma nella penombra del cortile della facoltà.

Era davvero la persona più affascinante che avessi mai conosciuto.

 

Vent'anni sono pochi per decidere della propria vita.

Per me erano pochi anche per decidere cosa fare il mattino dopo, o per scegliere se andare o no alla riunione del giornale di Filippo. Mi sentivo onorato dell'invito ed eccitato dell'occasione che mi veniva offerta di ficcare il naso in quel mondo tanto distante da me, ma anche allora la paura era più forte dell'entusiasmo.

"Non sai neanche da dove cominciare" mi diceva il foglio bianco sulla scrivania, tagliato a metà dalla luce geometrica della lampada da tavolo. Anzi: non avevo neppure deciso se era il caso di cominciare o no!

Però quella poesia era bella. Davvero molto bella.

Era sera, il sole era tramontato da un pezzo, e dalla finestra al terzo piano si vedeva la luce dei lampioni. Camilla preparava la cena, era il suo turno, e sulla via del ritorno ero passato a comprarle i surgelati. Era una frana in cucina, ed io anche, ma dai fornelli veniva un buon profumo e metteva appetito.

Con la testa tra le mani, finii per perdere il filo dei pensieri

Mi capitava, a volte, nei momenti di minore tensione, di trovarmi a vedere superficiali tutte le piccole ansie che costituivano la mia vita, lo studio, gli orari, gli impegni, le banali vittorie, e mi invadeva l'illusione di poter vivere più tranquillo.

Cominciai a scrivere così: per gioco, per sfogo di rilassatezza, pensando che non valeva la pena di angosciarsi per una simile stupidaggine, e che, in ogni caso, potevo sempre non dare il mio lavoro a Filippo, anzi, non dividere più con lui nient'altro che la questione di un contratto d'affitto.

Mi ci misi con l'intento di essere tecnico, di giocare a fare il critico letterario: metrica, linguaggio, figure retoriche, rilievo dato alle singole parole...Invece, alla fine, avevo riempito ventiquattro fogli, cacciandovi dentro di tutto: emozioni, sentimenti, frustrazioni, ingombranti porzioni di autobiografia che mi erano usciti spontanei, forse per voglia di confessione, o rabbia per qualcosa...desiderio di affermare la mia personalità. Un po' era anche come dire a Filippo "sono diverso da te" e proclamare con orgoglio ciò che un orgoglio non sentivo: essere quello che ero, così distante da lui e magari vicino - perché no? - a quell'anonimo poeta, che riempiva il vuoto della vita con parole così belle.

Quando rilessi il mio scritto, però, provai una tale vergogna all'idea che qualcuno potesse leggerlo, che ebbi voglia di chiuderlo in fondo ad un cassetto, e non pensarci più. Il momento di rilassatezza era finito, e con la stanchezza erano tornate le preoccupazioni. Tra l'altro ero nervoso perché mi ero accorto che era tardi, e il mattino dopo avevo lezione presto.

Infilai il pigiama e spensi la luce sulla scrivania. In questo modo, dalla mia finestra si vedeva benissimo quella dell'appartamento di Filippo, nel palazzo di fronte, dall'altro lato della strada. La sua luce era ancora accesa, sola, sulla facciata buia. Rimasi un attimo in piedi ad osservarla, con gli occhi stanchi, domandandomi cosa stesse facendo, a quell'ora.

Avrei voluto decidere subito se consegnargli o meno il mio commento, ma ormai ero esausto.

- Domattina - pensai

 

- Accidenti, Mattia! La sveglia! -

Milly era piombata nella mia stanza come una furia scatenata, senza bussare, gridando a viva voce. Se anche mi avesse sorpreso nudo, credo che non sarebbe rimasta turbata neppure un po'. Non guardava in faccia nessuno, quando un rumore molesto la buttava giù dal letto prima del previsto, il mattino dopo una nottata di lavoro, e la mia sveglia faceva, per l'appunto, un fracasso tale da svegliare tutto il palazzo, figuriamoci chi dormiva nella stanza vicina.

Io sonnecchiavo, agitandomi continuamente sul cuscino, con la testa dolente che cercava la giusta posizione, e non avevo ancora trovato la forza per allungare la mano a far tacere lo squillo fastidioso

- Dio... - farfugliai - già mattino? -

- Per me forse no - mi rimproverò Camilla, irritata - Se una buona volta fai tacere questo dannato aggeggio! - e, con un colpo indelicato, schiacciò giù la cresta del buffo galletto di plastica che ancora non aveva messo fine al suo concerto mattutino.

- Scusami... - mormorai, cercando di prevenire la sfuriata - Non mi sento molto bene, stamattina... -.

Lei neppure mi ascoltò.

- Beh, - disse, masticando le parole - torno a dormire - e poi, tra sé -Sperando di riuscirci... -.

Sentii i suoi passi allontanarsi dal mio letto, col rumore casalingo delle ciabatte sulle mattonelle. Sapevo che si sarebbe riaddormentata subito, non appena infilata la testa fin sotto le coperte, e si sarebbe regolarmente alzata per pranzo, senza nemmeno ricordare l'inconveniente di poche ore prima. Avrei voluto poterlo fare anch'io, ma purtroppo non ero mai stato capace di proseguire le cose da dove si erano interrotte. E il malessere anticipato dei sensi di colpa mi imponeva di filare all'università, e di affrettarmi, oltretutto, perché ero, come al solito, in ritardo.

Presi il coraggio di affrontare il freddo del pavimento sotto i piedi, e, finalmente, mi alzai.

Del pensiero che mi aveva impedito di prender sonno la sera precedente, m'ero quasi dimenticato.

Salii in autobus, c'era gente, mi trovai spiaccicato tra una scolaresca in gita e il finestrino: mi sentii d'improvviso uno fra i tanti, una vita tanto inventata e poco vissuta che si mescolava a tutta quella quotidianità, agli stress degli impiegati come quello lì vicino che mi premeva il ginocchio con una valigetta, alle cartelle e le auricolari degli studenti...Chissà come vivevano la loro, queste persone, se si ponevano come me il problema di non sfruttarla abbastanza, se sentivano la sofferenza di sperperare, ogni ora, manciate di minuti, avvinti a volte dal breve sogno di valere davvero qualcosa, a volte riscaraventati nell'insignificante, a risollevarmi dal quale non sarebbe certo bastato essere amico di un pubblicista mediamente noto.

Il mio scritto ristagnò nel cassetto per due giorni, finché non decisi di andare alla riunione. Allora dovetti lavorarci di nuovo sopra per ridurre le 24 pagine a tre. Terminata la revisione non mi pareva più tanto male, solo non riuscivo a liberarmi del sospetto di essermi sbilanciato troppo nelle osservazioni personali, che, nella mia operazione di labor limae, non ero proprio riuscito a "cestinare" del tutto. La carta aveva su di me un terribile potere: distruggeva le mie reticenze e mi rendeva pericolosamente espansivo.

Non volli arrivare alla sede della redazione in anticipo, per paura di dovermi trovare a tu per tu con qualcuno che non conoscevo ed esser tenuto a dar spiegazioni riguardo la mia presenza, nel caso Filippo non avesse reso conto ai colleghi dell'invito.

Così tardai qualche minuto.

Quando mi affacciai nel corridoio, c'era già il silenzio totale. Non c'era, a differenza di quanto avevo immaginato, gente a chiacchierare o fumare, le porte delle stanze erano tutte chiuse, e da dietro una di esse udii qualcuno parlare, anzi, probabilmente leggere, perché la voce fluiva distesa, senza gli intoppi e le esitazioni di un comune discorso orale.

Bussai, e nessuno mi sentì. Pensai che anche le nocche delle mie dita difettassero di energia, ma non riuscii ad imporgli di ripetere il gesto più forte. Avevo cominciato a tremare, mi stringevo nel cappotto inutilmente, come se avessi dovuto proteggermi dal freddo polare di quella serataccia di novembre, che forse mi aveva seguito lungo le scale approfittandone per scivolare nelle stanze. Avrei voluto quasi tornare a casa, e mettermi a letto: per un momento non seppi più cosa stavo a fare lì. Poi, però, ci fu un attimo di silenzio e provai a bussare di nuovo.

- Avanti! - rispose stavolta, chiara e squillante, la voce di Filippo.

- E' permesso? - mormorai, facendo capolino dietro la porta.

Lui si alzò in piedi e mi venne incontro

- Come no! - disse - Aspettavamo giusto lei -.

Mi indicò l'attaccapanni (mi ci vollero dieci minuti per togliere la giacca, e ora sentivo più freddo che mai), mi invitò a sedere vicino a lui, e - frettoloso o poco cortese - non si curò nemmeno di fare le presentazioni.

Curiosavo con lo sguardo intorno al tavolo, restando attento a non indugiare troppo con l'attenzione su quelle facce sconosciute. Era un gruppo molto eterogeneo di persone di diverso stile ed età: a giudicare da una sommaria occhiata, Filippo doveva essere il più giovane, ma era anche quello che fra tutti più si atteggiava a voler fare la persona seria.

Io, frattanto, avevo estratto dalla tasca le mie tre paginette faticosamente sintetizzate e gliele porsi.

- Ah, bene. - fece lui, senza neppure stendere i fogli piegati in quattro - Questo, Rino, è per te. - e passò il mio scritto ad un giovanotto con due grossi occhiali seduto dall'altra parte del tavolo.

Poi si rivolse a me e rise

- Signor Loira - disse - le presento l'autore! -

Non c’erano specchi per costatare di quanti colori divenne la mia faccia: molto più tardi, ricordando l'accaduto, Rino mi assicurò che mi limitai a incrociare il suo sguardo e sorridere, ma, conoscendo il mio recidivo imbarazzo e la sua proverbiale cortesia, non ci metterei la mano sul fuoco neppure oggi.

Ricordo invece molto bene il modo in cui quel singolare personaggio (singolare per me, a prima impressione, e singolare lì, tra quella gente) ricambiò il mio sorriso, e mi ringraziò, con un’inclinazione così confortante nella voce, da farmi provare subito per lui un moto spontaneo di simpatia.

Rino Daniel: l'amico "letterato" di Filippo, il poeta triste con cui, senza saper chi fosse, ero riuscito a dividere una familiarità che a volte mi mancava anche con gli amici. Ebbi modo successivamente di conoscerlo, e così seppi anche che, quella infausta, inverosimile sera, lo stesso sollievo che avevo ricevuto io nel guardare in faccia lui, lo aveva provato lui sorridendo a me.

- Lo leggo a casa... - mormorò, rivolgendomi un’occhiata quasi interrogativa.

- Si, magari è meglio - intervenne Filippo, pensando si chiedesse a lui - così andiamo avanti -.

La riunione fu lunga, finimmo che era quasi mezzanotte.

Io non parlai mai, ero troppo teso ed estraniato, mi sentivo fuori posto: ma la gente non fu né ostile né diffidente con me; alcuni mi ignorarono, altri, se incrociavo il loro sguardo, sorridevano. All'uscita mi salutarono con cortesia e qualche formalità di troppo: dovetti stringere la mano a tutti, ma per fortuna nessuno aveva il commento facile come Filippo.

Quando tornai a casa non sapevo se essere sconvolto, sorpreso, o felice...di cosa, poi, un premio a chi lo sa...forse di me stesso, d'aver avuto il coraggio di andarci...

L'unica emozione sicura era che mi sentivo veramente libero di un peso.

Prima di dormire ripensai a lungo a tutto quello che era successo, e presi di nuovo sonno molto tardi.

Il mattino seguente, quando uscii di casa per andare in facoltà, trovai un biglietto attaccato sulla porta con un pezzo di scotch, e il biglietto recitava così:

" Rino ti ringrazia. Ti aspettiamo giovedì prossimo.

Filippo."

Non riuscii nemmeno a restare stupito: la mia vita cambiava percorso.

 

  
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