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Autore: A li    14/06/2012    2 recensioni
I° Classificata al contest 'Per una volta protagonisti!' di ellacowgirl.
“«Vuoi venire a casa mia?», chiese invece.
Una richiesta irrazionale, inopportuna, pericolosa. Come tutte le scelte che aveva fatto.
Sasori sembrò sorpreso: strano, la sorpresa non si addiceva affatto al suo viso, vi danzava eterea, a cenni, senza davvero posarsi tra i suoi lineamenti. Non era la reazione di un vecchio, non era la reazione da abbinare a quegli occhi.
«Certo», rispose Sasori.”

[Ambientata prima dell’incontro di Alba con Deidara]
Genere: Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Akasuna no Sasori , Deidara
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Autrice: Ali
Titolo della storia:
Lune
Personaggi principali:
Deidara, Sasori

Genere/i della storia: Introspettivo, Erotico
Rating: Arancione
Avvertimenti: Yaoi, One Shot
Introduzione alla storia:

«Vuoi venire a casa mia?», chiese invece.

Una richiesta irrazionale, inopportuna, pericolosa. Come tutte le scelte che aveva fatto.

Sasori sembrò sorpreso: strano, la sorpresa non si addiceva affatto al suo viso, vi danzava eterea, a cenni, senza davvero posarsi tra i suoi lineamenti. Non era la reazione di un vecchio, non era la reazione da abbinare a quegli occhi.

«Certo», rispose Sasori.

[Ambientata prima dell’incontro di Alba con Deidara]

 

Lune

 

 

Prima che entrasse a far parte di Alba, all’inizio.

All’inizio c’erano solo disegni.

Schizzi di mani, piedi, occhi, dita, pezzi di braccia e facce accoppiati in mostruose creazioni. Prendeva ispirazione dall’odore dell’aria e dal sapore che aveva il cibo del giorno o del momento, unendoli per scoprire quale espressione dovesse trasparire da ogni ruga del viso che stava abbozzando.

Non era vera arte: era solo un gioco. Un gioco in cui era tremendamente bravo, e da cui non riusciva a staccarsi.

Deidara era sinonimo di perfezione, di ambizione, di insoddisfazione. Era la sintesi esteticamente amabile dell’arroganza e del talento – che di solito non albergano anche in una persona dal volto angelico. Essendo naturalmente portato a tentare di raggiungere la perfezione dell’arte, le sue sperimentazioni passavano dall’argilla alla carta, dal legno all’acqua. Ovviamente i risultati erano sempre eccezionali; ma mai quelli che voleva, non erano mai abbastanza. Soltanto quei disegni, gli schizzi senza pretese, riuscivano a fargli fremere il braccio di aspettativa ed eccitazione mentre sfregava la matita dura contro il foglio.

Il merito era anche – o forse soprattutto – della luna. Anzi, delle lune.

«A che pensi?», gli aveva chiesto uno dei tanti, mentre lui, con i capelli sciolti rovesciati sul viso, grattava furiosamente il foglio bianco.

«Fatti un po’ gli affari tuoi», aveva risposto, senza quasi sentirlo.

Il ragazzo si era adagiato meglio nella scomoda posizione prestabilita, ed era stato zitto. Facevano tutti così, quei codardi. Potevano essere anche più vecchi di lui, ma appena alzava un po’ la voce se ne tornavano nella loro tana quatti quatti. Faceva quell’effetto: ormai ci si era abituato.

I ritratti si concludevano tutti nel giro di una notte: che il soggetto fosse alto o basso, che avesse la barba o fosse glabro, che avesse più lunghezze da disegnare, o fosse poco dotato per natura, non contava. Tutto doveva essere racchiuso e cucito in una notte.

I ragazzi erano sempre più o meno della sua età e curiosamente affascinanti. Non che fossero belli: nasi troppo adunchi, pelle troppo chiara, o scura, imperfezioni alle orecchie, alle espressioni, al mento. Eppure, alla vista d’insieme, apparivano tutti emanare un bagliore invitante. Forse era merito della nudità, della luce lunare sempre intensa del plenilunio, o forse della matita di Deidara che – da straordinario artista – rimodellava l’uomo per renderlo capolavoro d’eternità.

Ogni mese, ad ogni giro completo del ciclo di luna, Deidara saliva sul tetto col ragazzo di turno, lo spogliava, lo immortalava. Alcuni uscivano fuori completamente diversi dall’originale, altri ne erano la copia al millimetro. Non c’erano limiti alla libertà dell’artista: le linee, i chiaroscuri, la prospettiva, le dimensioni gli obbedivano come cuccioli al padrone. Era un potere che sentiva di possedere unico al mondo.

Il plenilunio era fondamentale: i suoi ormoni sembravano impazziti quando la luna si presentava nella sua rotondità completa da ventre femminile. Sentiva crescere dentro la voglia di scopare, disegnare, scopare, disegnare. Alternativamente. Come se fosse pazzo.

Con alcuni dei suoi soggetti funzionava esattamente a questo ritmo.

Li abbordava quasi sempre in un locale al limitare del villaggio: entrava, scioglieva i capelli, ordinava da bere. Chi doveva arrivare, arrivava. Se non si faceva vivo nessuno, si guardava attorno con attenzione, scrutando le persone sedute ai tavolini, in piedi a ballare, o su sgabelli. Lanciava qualche occhiata satura di desiderio sessuale e la sua vittima si faceva avanti senza protestare. Era sempre stato facile per lui: un vantaggio dovuto ai capelli biondi, agli occhi azzurri, al fisico asciutto da ninja.

Il tipo di ragazzo che di solito preferiva era sulla ventina, non troppo alto, con delle braccia belle forti e il torace ampio; gli occhi dovevano essere caldi, perciò marroni, neri o verdi, le labbra molto sottili oppure carnose, perché la via di mezzo non era consentita, la mandibola per nulla squadrata. Era una scelta ardua, di solito, ma non gli era mai capitato di restare una notte senza: fortuna, oppure naturale attrazione per il bello. Del resto, Deidara ne era convinto, l’arte è gemella della bellezza. Perché dunque l’artista non avrebbe dovuto attrarre naturalmente il bello in forma umana?

Di solito erano i ragazzi ad offrirgli da bere: uno o due bicchieri; altrimenti lo faceva lui. Un po’ alticci, se ne andavano dal locale trascinandosi per le braccia, a vicenda, come per fare fatica un po’ per uno. Deidara li invitava subito a casa sua: i risvolti impliciti erano molti, ma non tutti trovavano ciò per cui erano venuti. Alcuni erano rimasti alquanto sorpresi, e anche un po’ delusi, nell’essere stati trascinati sul tetto della casa, sotto la luna, per fare da modello ad un artista. Di solito lo stupore era tanto che in un attimo di nebbia si dimenticavano di protestare – a questo scopo contribuiva anche l’alcool. Una volta ripreso un minimo di lucidità, ormai Deidara era immerso totalmente nel lavoro, troppo per poter essere distolto dalle lamentele. Così i malcapitati se ne stavano in silenzio fino alla fine del lavoro. Una volta posata matita e fogli con un tonfo, Deidara stirava e faceva scrocchiare braccia e gambe, alzava il viso alla luna e chiudeva gli occhi. Certe volte, quando il risultato artistico superava addirittura le sue aspettative, posava le labbra su quelle del modello, leccava la sua lingua, e sul più bello salutava e mandava via lo sconosciuto.

Ad altri era andata diversamente. In particolare nelle sere in cui la luna sembrava voler esplodere da quanta luce emanava. Deidara doveva avere un legame fisiologico con quel satellite, perché i suoi ritmi biologici ne dipendevano drasticamente. Nelle notti di grande luminosità infatti, il suo bisogno artistico e ormonale aumentava in misura esponenziale.

Il ragazzo abbordato veniva trascinato a casa in fretta e furia, scaraventato su per le scale senza poter dire nulla e, una volta sul tetto, si ritrovava già nudo – la sbronza gli impediva di accorgersi del fatto che fosse stato svestito salendo – e con la bocca di Deidara all’inguine. Era il primo a ricevere piacere, in modo feroce, animalesco. Poi era tenuto a ricambiare: Deidara chiedeva di essere preso con violenza, benché mordesse a sangue, con la pretesa di mantenere il controllo anche in quella posizione; chiedeva di essere sbattuto sul tetto freddo del gelo notturno. L’amplesso non durava che qualche minuto: ripreso il minimo fiato necessario, Deidara si staccava, dava ordini al modello su come stare, sull’espressione necessaria, e disegnava.

La sua arte richiedeva un religioso silenzio. «Un artista deve ascoltare solo il rumore del proprio respiro, e il ritmo del sangue che scorre nelle vene», diceva. Se il modello non capiva al volo, cominciava a sbraitare. «Stronzo, ti ho detto di chiudere la bocca!», gridava. Il repentino cambiamento era terrificante: da invasato poeta delle forme, diventava irascibile come un bambino viziato. Il fatto che portasse il coprifronte della Roccia suggeriva a tutti che era meglio stare zitti, e mangiare il nervoso. Un po’ di rabbia repressa era sempre meglio di un kunai conficcato in pancia, o nella gola.

 

Sasori fu diverso: in modo straordinario e tutto suo, diverso.

Deidara lo individuò con un’occhiata, perché per sceglierlo gli bastò scorgere i capelli rossi in mezzo al mucchio di teste scure. Aveva la pelle bianca, gli occhi caldi, il viso di un bambino; di solito non amava portarsi a casa ragazzi più giovani, ma per quella sera avrebbe fatto un’eccezione. Lo sguardo di quel ragazzino si aggirava per il locale spento, vacuo, fitto di immagini come quello di un vecchio: troppo interessante e disinteressato perché Deidara non vi prestasse attenzione.

All’inizio tentò di farsi notare: sciolse come al solito la chioma bionda, appoggiò il ciuffo sopra l’occhio sinistro, si leccò le labbra con noncuranza, in un gesto volutamente sensuale. Il ragazzino, pur a pochi passi da lui, non lo degnò di un’occhiata: l’oggetto della sua osservazione attenta sembrava essere sempre oltre, sempre al di là. Così Deidara, dopo aver sbuffato con una certa energia, e certamente trascurando l’amor proprio, decise di fare il primo passo.

«Ehi», lo apostrofò.

Il ragazzino coi capelli rossi appoggiò il mento sulla mano, accavallò le gambe e da quella posa innaturale, soltanto alla fine, alzò gli occhi. Non appena incontrò il suo sguardo, Deidara si sentì risucchiare.

«Posso sedermi?» Fu la prima cosa che uscì dalla sua bocca, senza che ci riflettesse. Voleva trovare un appiglio. Aveva le vertigini.

Il ragazzino coi capelli rossi alzò le spalle e gli indicò la sedia vuota alla sua sinistra. Deidara ci si buttò senza un minimo di grazia, facendo rumore: quando tornò a guardare l’altro, vide che le labbra avevano accennato un sorriso divertito.

«Sete?», gli chiese il ragazzino coi capelli rossi.

Strana come prima cosa da dire, pensò Deidara. Era convinto, inoltre, che toccasse a lui essendo il più vecchio offrire da bere. Il ragazzino coi capelli rossi attese la sua risposta per un minuto buono, senza muoversi, né voltarsi a guardarlo: aveva le mani giunte in una strana e dissacrante preghiera, la bocca ancora tesa dal ricordo del ghigno, gli occhi fissi, come prima, nel vuoto. Sembrava un vecchio; e come un vecchio non aveva fretta.

«Quello che prendi tu», rispose Deidara, dopo averlo analizzato a lungo.

Il ragazzino alzò due dita a mezz’aria in un gesto colmo di grazia e tranquillità, le mosse appena verso il basso, e il proprietario del locale, al bancone, gli rispose immediatamente con un cenno del capo. Deidara arricciò il naso per il fastidio: odiava le persone con troppa autorità, soprattutto se erano così giovani e arroganti.

«Sei un artista?», chiese il ragazzino coi capelli rossi.

«Eh?»

«Ti ho chiesto se sei un artista», ripeté quello, deridendolo con le labbra.

Deidara aggrottò le sopracciglia. «Avevo capito, sono solo sorpreso. Come lo sai?»

Il ragazzino coi capelli rossi, sempre senza voltarsi verso di lui, sollevò leggermente il braccio sinistro e lo avvicinò al suo viso. «Osservi con molta attenzione ogni cosa, hai un taglio di capelli interessante, e le mani secche».

Merito dell’argilla, rispose Deidara nella sua testa.

«Usi l’argilla?»

«Preferisco il disegno», ammise sinceramente.

«E cosa disegni?»

«Beh, di solito  cerco de -»

Deidara si mangiò le parole prima che potessero scappare. «Invece di chiedermi tutte queste cose, dimmi il tuo nome piuttosto», ordinò seccato.

Il ragazzino coi capelli rossi ridacchiò a bassa voce, con uno strano suono gracchiante che veniva dalla gola.

«Sasori», disse.

«Io sono Deidara».

«Piacere Deidara».

Finalmente il ragazzino coi capelli rossi si voltò, piantando gli occhi scuri direttamente nei suoi.

Erano occhi pieni di odio, dolore, malvagità, sete; occhi terrificanti. Il panico impedì a Deidara di respirare, per un secondo, un secondo che diventò presto un minuto. Non riusciva a staccare le dita da dove le aveva appoggiate sul tavolo, né ad abbassare lo sguardo sul proprio corpo, per assicurarsi di esistere ancora.

«Vuoi venire a casa mia?», chiese invece.

Una richiesta irrazionale, inopportuna, pericolosa. Come tutte le scelte che aveva fatto.

Sasori sembrò sorpreso: strano, la sorpresa non si addiceva affatto al suo viso, vi danzava eterea, a cenni, senza davvero posarsi tra i suoi lineamenti. Non era la reazione di un vecchio, non era la reazione da abbinare a quegli occhi.

«Certo», rispose Sasori.

 

La luna galleggiava in cielo completamente tonda, piena, gialla. Più bella e sensuale di mille altre prima: i vecchi dicevano che non sarebbe stata altrettanto magnifica se non dopo cent’anni. Deidara aveva sperato di poterci essere ancora, di poterla gustare nella sua perfezione una seconda volta.

Sasori gli camminava a fianco senza parlare: era più basso di lui e pareva gracile, come se dovesse spezzarsi in tanti piccoli frammenti da ricomporre. Come una bambola. Come argilla.

Quando aprì la porta di casa, l’odore di buio e polvere lo investì rasserenandolo.

«Entra pure», disse al ragazzino che lo seguiva.

Sasori si fece strada passeggiando elegantemente tra le tele imbrattate alla sua sinistra e le strane sculture a terra, evitando anche quelle in cui Deidara invece inciampava.

Il passaggio per salire sul tetto era una botola, esattamente al centro della prima stanza       . Deidara saltò, aggrappandosi ai lati dell’apertura, si issò al piano di sopra e fece scendere una scala. Sasori la salì lentamente, senza fare il minimo rumore.

Sul tetto, piatto, erano accatastati uno di fianco all’altro una decina di cavalletti: ognuno reggeva un foglio spesso, ruvido, su cui la matita aveva nervosamente immortalato attimi, espressioni, pezzi di uomini, pezzi di anime.

Mentre Sasori camminava trascinando i piedi, osservando scrupolosamente le tele, Deidara si guardò intorno. Era frenetico, agitato. C’era qualcosa di inumano, intenso, fallibile in quel ragazzino coi capelli rossi: qualcosa che andava immortalato subito. Era necessario un artista e, Deidara ne era certo, nessun artista meglio di lui avrebbe saputo spogliare Sasori della corazza grezza del corpo per catturare il suo spirito per l’eternità. Era un’impresa ardua, un lavoro lungo che richiedeva pazienza e abilità; ma era anche un’eccezionale sfida.

Un disegno non bastava. Per uno come Sasori ci voleva uno strumento migliore, più preciso ed efficace, che descrivesse senza errori l’attimo in cui l’avrebbe lasciato nudo agli occhi del mondo.

Argilla. Gli serviva dell’argilla.

In un angolo del tetto conservava il necessario. Deidara prese un sacco di tela bianco, allungò la mano, e senza che Sasori lo vedesse, aprì la bocca racchiusa nel suo pugno e le diede in pasto ciò di cui aveva bisogno. Ingoiò tanta argilla che i muscoli del braccio si tesero per lo sforzo.

«Mi piace la tua tecnica», disse Sasori.

Deidara sobbalzò, mentre la sua mano emetteva un inquietante rantolo da dentro il sacco. La lingua si arrotolò su se stessa e sparì al riparo delle labbra.

«Cosa?»

«Hai mai pensato che potresti utilizzarla per combattere?»

«Non so di cosa-»

«La tua mano», affermò semplicemente Sasori, indicando il sacco di tela. «Parlo della tua mano. La tua arte è meravigliosa, ma utilizzata per il combattimento lo sarebbe di più. Oltretutto, a questo stadio, non è nulla in confronto alla mia».

Deidara continuò a guardarlo senza capire, con la mano che tremava e le sopracciglia tese verso il basso nella confusione, nella rabbia.

Sasori gli si avvicinò senza fretta, come se fosse sicuro che Deidara non si sarebbe mosso dal posto.

«So che quando c’è la luna ti piace disegnare. E non solo». Non appena fu a un passo da lui, Sasori allungò un dito e gli sfiorò una guancia con i polpastrelli, facendolo rabbrividire. «Ti propongo una sfida. Ti darò quello che vuoi, quello che desideri senza averne la minima consapevolezza. Ma poi tu dovrai osservare la mia arte. E se sarà superiore alla tua, allora dovrai seguire il mio consiglio, e costruire una tecnica di combattimento che utilizzi la tua argilla. Fra un anno tornerò con altre persone, e allora ti unirai a noi».

Deidara continuava a fissarlo con gli occhi aperti, spalancati, fissi sulle labbra del ragazzino coi capelli rossi che si muovevano tirandosi e distendendosi alternativamente. Desiderava quelle labbra, lo sapeva: alla luna piena non era in grado di resistere. E nemmeno ad una sfida, se gli veniva lanciata da una persona tanto intrigante.

«Accetto», mormorò.

Sasori sbilanciò delicatamente il proprio corpo in avanti: un attimo prima di sentire le sue labbra, Deidara vide il sorriso appena accennato, soddisfatto, che cercava di nascondere. Alle labbra seguì la lingua, e aveva un sapore così fresco che Deidara si chiese se avesse mai baciato qualcuno prima; se davvero avesse gustato qualcosa, qualcosa di buono. D’istinto le mani arpionarono le spalle del ragazzino, trascinandolo contro di sé, unendo i corpi, le eccitazioni risvegliate, coprendolo con i suoi capelli lunghi, ancora sciolti. Dalla bocca Deidara passò al collo, mordendo e baciando la pelle fresca, quasi tetramente fredda. E ad ogni bacio spogliava di un poco Sasori, levandogli un indumento, accarezzando ogni pezzo di lui, scolpendolo come se dovesse costruirlo, imprimendolo ad occhi chiusi nella mente per richiamarlo quando ne avesse avuto bisogno.

Il suo era un corpo perfetto, quello che aveva sempre cercato nei modelli della sua arte, dei suoi disegni: petto liscio, braccia forti e muscolose ma minute, labbra sottili, occhi scuri, mani piccole e gambe forti, robuste. Ogni muscolo rispondeva alle sollecitazioni pronto, tonico, nessun angolo aveva imperfezioni. Era come amare una scultura, come fare l’amore con una delle sue opere d’arte.

A terra, sopra di lui, stravolto, con il fiato corto, Deidara finalmente aprì gli occhi per ammirare il capolavoro: incontrò lo sguardo acceso di Sasori, compiaciuto, appagato, eppure anche divertito. Scostò le mani dal petto del ragazzino e fu allora che se ne accorse.

Le giunture, il gelo sotto di sé: il corpo perfetto si era trasformato in un bambola. Anzi, lo era sempre stato. Una forma d’arte di perfezione assoluta.

«Hai vinto», ammise.

Era la prima volta che lo diceva. Era la prima volta che provava una rabbia simile.

 

Alla luce della luna, quella notte, Deidara mangiò argilla, la impastò, imprecò contro le sue stesse dita. Quando il lavoro fu finito, lo scagliò lontano e quello esplose in mille pezzi al suo comando.

 

Sasori, da lontano, vide il capolavoro dell’arte di Deidara frantumarsi: pezzi del suo corpo perfetto si spargevano per il Villaggio della Roccia e la gente accorreva, si gettava in strada, gridava, senza sapere cosa stesse succedendo.

Sasori trattenne una smorfia amara.

La luna ha mostrato l’altra faccia, pensò.

 

 

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Un angolino per la recensione di ellacowgirl, che mi ha resa vincitrice di questo splendido contest: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10176787&p=1

 

A li 

Valutazioni: 
10/10 – Grammatica e sintassi 
5/5 – Stile 
10/10 – Trattazione del personaggio 
5/5 – Trattazione dell’oggetto/situazione/ambiente 
5/5 – Originalità 
5/5 – Gradimento personale 
tot: 40 pt. 

Giudizio personale:
 
Semplicemente perfetta! Non credo ci sia un altro modo per descrivere questo splendido capolavoro che mi hai inviato e per questo ti ringrazio! 
Non ho trovato alcun errore di grammatica o sintassi, se non qualche svista con le virgole (di norma la “e” congiunzione non và mai messa dopo una virgola, salvo casi eccezionali) ma è sicuramente stato un errore di distrazione, dato che per il resto dello scritto non hai ripetuto tale errore. 
Lo stile è lineare, limpido e scorrevole, nonostante la storia in sé sia molto corposa non annoia in nessuna sua parte ma anzi costringe in modo piacevole il lettore a continuare il suo scorrere tra le parole che, lasciamelo dire, sembrano una vera e propria poesia. 
Le emozioni che traspaiono sono tanto intense quanto fredde, ferme quasi ma proprio per questo rispecchiano i personaggi ed i loro stati d’animo: penso che sia davvero difficile riuscire a conciliare lo stile con il personaggio in sé ma tu ci sei riuscita in modo eccellente, ti faccio nuovamente i miei complimenti! 
Ammetto anche che, con un personaggio stereotipato (in generale) come Deidara sia difficile ottenere il massimo punteggio nell’originalità, ma anche in questo caso hai saputo sfruttare ogni singolo dettaglio del personaggio per spogliarlo delle sue accezioni comuni, dando quindi vita ad un Deidara a tuttotondo (tanto per usare un termine artistico). 
Ancora tanti, tanti complimenti!

   
 
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