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Autore: AkaneTachibana    01/01/2007    2 recensioni
Una tragedia vissuta sul campo da calcio ed espiata su esso.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mio padre si era sentito male. Era svenuto ripetute volte negli ultimi giorni e il dottore l’aveva fatto ricoverare per alcuni accertamenti. In ospedale non sapevano cosa potesse essere e le prime analisi erano state negative. Era sano come un pesce, ma preferivano trattenerlo per ulteriori controlli. Già, sembrava proprio in piena forma.
Quel giorno eravamo nella sua stanza, stava sdraiato sul letto dell’ospedale. Non c’erano altri pazienti, era completamente solo e per questo quando potevo andavo a fargli compagnia. Ero appena arrivato.
“Allora, come va?” Anche se non avrei avuto bisogno di una risposta, uno, perché si veda come stava, due perché se fosse stato male, non me l’avrebbe certo detto per non farmi preoccupare.
“Vuoi scherzare? Mi sento come se avessi vent’anni in meno” rispose raggiante “Non vedo l’ora che mi dimettano, è uno strazio qua dentro…”
“Via, non ricominciare, appena avrai finito gli esami potrai tornare a casa. E poi non preoccuparti mi occupo io di tutto in tua assenza.”
“Certo, allora non mi preoccupo” commentò ironicamente “Ma oggi non avevi la partita?”
“Si, infatti ora vado. Ero passato per una visita veloce”
“Che aspetti, allora? Non vorrai mica arrivare tardi, vero?”
“Se mi vuoi mandare via…” Finsi una faccia rattrista.
“Vieni qua” Mi prese per un braccio e mi avvicinò a sé. Mi strinse forte a sé. Era tantissimo tempo che non lo faceva. Mi sussurrò all’orecchio un buona fortuna e mi lasciò andare. Ci salutammo e uscii dall’ospedale. In pochi minuti fui allo stadio.
Avevo diciassette anni a quel tempo e giocavo in prima squadra in serie D. Alcuni miei compagni erano già arrivati, quando entrai nello spogliatoio, ma l’allenatore ancora non c’era. Incomincia a cambiarmi, proprio quando arrivò l’allenatore. Diede la formazione: ero titolare.
Spiegò la strategia e mezz’ora dopo la partita era iniziata.
La squadra avversaria non era delle più temibili.
Iniziammo subito a dettare il gioco, tenevamo palla senza troppi problemi. Dopo una decina di minuti ci portammo subito in vantaggio: cross dalla destra, Morselli svetta di testa e la palla finisce in porta. Non ci furono altre situazioni interessanti per tutto il primo tempo. Ritornammo negli spogliatoi e per una volta non ci dovemmo sorbire i rimproveri dell’allenatore, che, anzi, sembra contento dell’andamento che la squadra aveva avuto in quei primi quarantacinque minuti.
Riprese il secondo tempo. Fui spostato a ridosso delle punte, adesso ero io che dovevo dettare il gioco d’attacco. Le palle nella mia direzione iniziarono ad aumentare e io le giocavo come meglio potevo verso gli attaccanti, ma l’altra squadra aveva una difesa solida e non stentava ad prenderci in contropiede. Al quindicesimo minuto, ricevetti un passaggio dall’ala, un uomo mi venne incontro. Finta a destra e scatto a sinistra: l’avversario rimase lì. Aspettai che uno dei difensori si facesse avanti per passare la palla all’attaccante, così lasciato libero. Fu facile per lui segnare: 2 a 0.
Dopo pochi minuti, con una grande galoppata sulla fascia Conti, la nostra ala destra, giunge a ridosso della linea di fondo campo e fa partire un cross al centro.
Morselli spicca il salto, ma viene anticipato da un avversario che spazza la palla fuori dall’aria, proprio a pochi metri dai miei piedi. Due falcate per raggiungere la palla e la calciai con tutta la potenza che avevo in corpo. La palla si infiltrò all’incrocio dei palli appena sfiorata dalla mano del portiere.
Alzai il pugno al cielo, fu l’unico gesto di gioia che riuscii ad esternare, diversamente dal solito, quando ogni goal sembrava una vincita al superenalotto. Tutti i miei compagni mi corsero incontro, mi abbracciarono, mi baciarono. Stavamo sul 3 a 0 e con questo risultato la partita si concluse.
Triplice fischio dell’arbitro e facemmo il nostro ritorno negli spogliatoi, ma prima di entrare nel tunnel fui fermato dall’allenatore. Aveva il volto scuro, nonostante la vittoria.
“Ci hanno chiamato dall’ospedale… Tuo padre è morto mezzora fa” E mi appoggiò la mano sulla spalla nel vano tentativo di consolarmi.
Non riuscii a spiccicare parola, non rimasi nemmeno allibito dalla cosa, nemmeno per un attimo dubitai, forse inconsciamente consapevole che sarebbe accaduto. Le gambe mi cedettero, seguendo il cadere della lacrime lungo le guance. Battei più volte il pugno a terra come se fosse lei la responsabile della mia tragedia.
“Perché? Perché?” gridai al cielo e poi accasciai a terra, privo di forze, mentre le lacrime continuavano a cadere lentamente.

Soltanto al tramonto quel ragazzo uscì dallo stadio. Una palla sotto il braccio e una promessa nel cuore.

Cinque anni dopo, nello Stadio di San Siro, quel ragazzo, ormai divenuto uomo, era sceso in campo e come in quel tragico giorno, riuscì a mettere la palla in rete. Nessuno riuscì a fermare la sua corsa piena di gioia.
Nemmeno la possibile ammonizione lo spaventò dal levarsi la maglietta e mostra quella scritta: “Tutto questo per te” e rimase in mezzo al campo col pugni rivolto in alto e una piccola lacrima che calava dolcemente lungo la guancia.
  
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