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Autore: _reddy96_    15/06/2012    2 recensioni
[Johnlock]
[...]Come ogni lunedì pomeriggio da quasi un anno, John Watson stava andando al cimitero per fare visita al suo migliore amico Sherlock Holmes. [...]
[...]Ormai non dormiva quasi più e quelle poche volte in cui ci riusciva, sognava la caduta del suo migliore amico dal tetto dell’ospedale[...]
[...]. Poi all’improvviso sentì una melodia. Un violino. Una melodia che veniva da lontano, anche se era sicuro di sentirla. La seguì e per un momento sperò l’impossibile[...]
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: ecco la seconda One-Shot, sempre della mia amica, grazie a tutti per le recensioni, che ovviamente lei ha letto e qui sotto vi lascio una piccola nota anche da parte sua, in blu.
Red.


Prima di lasciarvi alla lettura,vorrei dire due parole. Vorrei ringraziarvi per aver letto la mia precedente One Shot e di aver lasciato delle recensioni, che sinceramente non mi aspettavo.Ringrazio anche chi non l'ha fatto,sperando che abbia comunque gradito il mio modesto lavoro. Spero che gradirete anche questo.
Con affetto,
Blue.


ps: alcuni di voi mi hanno chiesto di creare un account su EFP,ma credo che continuerò a postare le mie pazze idee sull'account gentilmente offerto da Red, in quanto sono una frana con questo tipo di cose x.x

So Hope You Like It
Red & Blue ;)


 

Come ogni lunedì pomeriggio da quasi un anno, John Watson stava andando al cimitero per fare visita al suo migliore amico Sherlock Holmes.  Il medico andava lì tutti i lunedì e si fermava davanti alla tomba, a pensare. Ogni tanto scambiava qualche parola col marmo, attirando strani sguardi da parte della gente. Ma a lui non importava. Ormai non gli importava più di niente. Neanche lui sapeva perché continuasse a vivere, se vita si poteva definire quella che stava conducendo. Si sforzava di apparire allegro con le altre persone, fingendo di aver superato il trauma, fingendo che Sherlock fosse soltanto qualcuno che un tempo conosceva, ma non era così. Ormai non dormiva quasi più e quelle poche volte in cui ci riusciva, sognava la caduta del suo migliore amico dal tetto dell’ospedale. Cercava di non fermarsi mai,perché appena lo faceva gli tornavano alla mente quegli orribili ricordi e allora faceva qualsiasi cosa per tenersi impegnato, gli straordinari al lavoro, le commissioni più strane - come comprare la frutta soltanto dall’altra parte della città o fare il giro della casa due volte prima di uscire- o prendere appuntamenti con sarà mezz’ora prima dell’appuntamento stesso. Ma la notte, nel letto, non aveva niente con cui tenersi occupato ed era allora che iniziavano gli incubi. Superfluo dire che non abitasse neanche più a Baker Street.
Quella era una delle giornate in cui John sentiva il bisogno di sfogarsi e iniziò a parlare fissando la tomba.
-“Ciao Sherlock, è già passato un anno.  E’ inutile che ti racconti la mia giornata, tanto lo so che la starai sicuramente deducendo dalle mie scarpe o dal modo in cui ho messo la giacca. Spero che non ti annoi dove sei ora. Non credo che in Paradiso ci siano pareti da sparare.”- il medico aveva la voce rotta dalle lacrime e non riuscì a dire  più nulla. Restò in piedi a fissare quella lastra di marmo. Poi all’improvviso sentì una melodia. Un violino. Una melodia che veniva da lontano, anche se era sicuro di sentirla. La seguì e per un momento sperò l’impossibile, sperò che fosse Sherlock a suonare. Allora corse, corse lungo il viale del cimitero, oltre le siepi e le tombe marmoree di tutte le forme e i colori. Giunse all’uscita del cimitero, dove  un signore suonava il violino. John lo osservò: aveva una folta barba e dei vestiti consumati che un tempo dovevano essere stati molto eleganti. La custodia del violino era aperta ai suoi piedi, in attesa di qualche offerta da parte di qualche passante gentile, ma nessuno sembrava notarlo. Nessuno tranne John. Suonava davvero bene, quel tizio. Si avvicinò e mise una banconota da cinque sterline nella custodia. L’altro ringraziò con un inchino, continuando a suonare. John restò ad ascoltare quella bella e malinconica melodia.  Quella melodia lo intristiva, gli faceva pensare a Sherlock, ma al tempo stesso lo rilassava, lo calmava, lo cullava come una ninna nanna. Stava iniziando a far buio e si avviò verso casa. Vi entrò e si spogliò velocemente, stanco di quella lunga giornata. Si mise a letto, preparandosi all’ennesima notte insonne.  All’improvviso sentì un violino, lontano. Pensò che fosse un’allucinazione e chiuse gli occhi, convinto che sarebbe passata presto. Per la prima volta dopo tanto tempo, si addormentò, cullato dalla musica che sentiva nella sua testa. Non ebbe incubi, quella notte, né sogni piacevoli, ma dormì.
Intanto, a notte inoltrata, in un’elegante casa di periferia, un uomo con una folta barba si faceva strada brancolando nel buio nel soggiorno della suddetta casa.  Un altro uomo, seduto in poltrona, accese la lampada che c’era sul tavolino. Quell’uomo era Mycroft Holmes.
-“Bell’orario di rincasare, Sherlock. E’ così che ripaghi la mia gentilezza? Lo sai che è rischioso che tu esca per molto tempo!”- disse scocciato. Sherlock si sedette e si tolse la barba finta.
-“Rilassati Mycroft o ti verranno le rughe. L’hai detto tu che ormai i Servizi Segreti di Sua Maestà hanno arrestato tutti quelli che lavoravano con Moriarty, no? Non c’è alcun rischio”- disse tranquillo.
-“Hai ragione,ma comunque avresti dovuto avvisarmi. In ogni caso c’è ancora qualche piccolo dettaglio legale da definire. Il dottor Watson ti ha riconosciuto?”- chiese l’altro.
-“No,come vedi so travestirmi bene. Quando saranno ultimati questi piccoli dettagli legali? Ho visto John e credo che sia al limite. E anche io sono stufo di aspettare.”- disse l’altro, sbuffando.
-“Per venerdì sarà tutto risolto e potrai fare la tua ricomparsa, ti chiedo solo di pazientare fino ad allora. In ogni caso, potrai sempre travestirti da barbone e seguire il tuo amico. Tanto lo so che lo faresti comunque”- disse Mycroft, rassegnato. Sherlock gli sorrise.
-“Questo venerdì è il 12, giusto? Che curiosa coincidenza”- disse il detective.
-“Perché?”- chiese l’altro.
-“Il 12 ottobre è il giorno in cui io e John ci siamo conosciuti. E’ curioso che siamo in Ottobre e che il giorno in cui mi ripresenterò da lui sia proprio il 12, non trovi?”-
-“E’ più curioso il fatto che tu stia diventando così sentimentale caro Sherlock. Fossi in te andrei a dormire”- gli disse l’altro. Sherlock rise.
-“Forse per una volta hai ragione. Buonanotte, Mycroft”- disse Sherlock e sparì in camera sua.
 
Martedì John si svegliò riposato. Non gli accedeva da molto tempo. Si alzò e dopo aver fatto colazione si preparò per il lavoro.  Uscendo di casa gli parve di vedere lo stesso uomo del giorno prima all’altro capo della strada, ma poi passò un autobus che gli coprì la visuale e subito dopo l’uomo era sparito. Gli sembrava ancora di sentire il violino. In ospedale gli capitava raramente di parlare con qualcuno, ma quel giorno incontrò Molly nel corridoio e si intrattennero. John voleva essere gentile con lei, perché sapeva che era da sempre innamorata di Sherlock e soffriva almeno quanto soffriva lui. Quel giorno però sembrava più allegra del solito.
-“Heilà, John, come va?”- gli chiese Molly sorridendo.
-“Come al solito. Niente di nuovo”- rispose l’altro con un mezzo sorriso. La ragazza notò la tristezza negli occhi del dottore.
-“E’ ancora per quella storia, vero? Non l’hai ancora superata”- disse lei,sapendo benissimo che John avrebbe capito a cosa si riferisse.
-“No, è tutto passato, tranquilla, sono solo un po’ stanco, stanotte non ho dormito molto bene”- rispose il dottore, mentendo. Non aveva voglia di parlare di quel fatto con altre persone. Poi inventò una scusa e scappò nel suo studio, da cui non uscì per tutta la giornata. Tornò a casa molto stanco. Si mise a letto e gli parve di sentire di nuovo quella melodia, di nuovo quel violino che lo cullava. Si addormentò, un po’ per la stanchezza e un po’ per il violino.
Il mercoledì suscitava due effetti diversi in John: da una parte lo odiava perché era il giorno in cui aveva più visite mediche da svolgere, dall’altro lo amava proprio per questo motivo. Perché, pur essendo vero che quelle visite erano dannatamente noiose, era anche vero che lo tenevano impegnato. Si diresse quindi nel suo studio in attesa del primo paziente.  Continuò a sentire quel violino per tutto il giorno. Ormai era convinto di star impazzendo. 
 
Il giovedì invece era sempre una giornata tranquilla e John la odiava. Aveva troppo tempo libero e gli era difficile evitare quegli orribili ricordi. Come volevasi dimostrare, quel giorno, visitò soltanto un paio di persone e passò il resto della giornata vagando su Internet. Non c’era neanche quel dannato violino, che forse gli avrebbe dato qualcosa su cui concentrarsi. Poi, quando uscì dall’ospedale, lo sentì. E lo vide, anche. A pochi metri dall’ospedale c’era quel signore con la barba e in mano il suo violino.
-“Mi scusi, signore”- gridò John, per attirare l’attenzione del violinista. L’uomo iniziò a correre. John lo inseguì.
-“Si fermi,voglio solo parlarle, si fermi, per la miseria!”-  Gli gridava.  L’aveva quasi raggiunto, ma poi il violinista sconosciuto svoltò in un vicoletto e sparì nel nulla. John tornò a casa rassegnato.
 
Venerdì mattina. John si alzò lentamente dal letto. La sveglia sul suo comodino gli ricordò che era il 12 Ottobre, ma lui non ne aveva bisogno. Ricordava perfettamente quel giorno di tre anni prima, il giorno in cui conobbe Sherlock Holmes proprio all’ospedale dove adesso lavorava,  precisamente nel laboratorio di chimica. Il resto poi, era storia. Decise che quel pomeriggio avrebbe ripercorso l’itinerario di quella giornata. Prima il parco in cui aveva incontrato il suo amico Mike, era stato lui che gli aveva parlato di Sherlock. Poi sarebbe andato nell’aula di chimica dell’ospedale, dove lo aveva incontrato per la prima volta e l’aveva sentito cimentarsi in una di quelle sue incredibili deduzioni ed infine a Baker Street, la casa che avevano condiviso fino a un anno prima. L’ultima tappa era quella che lo intimoriva di più. C’erano troppe cose che gli ricordavano l’amicizia ormai morta insieme al suo amico. Ricordi che aveva cercato disperatamente e con tutte le sue forze di gettare nel dimenticatoio. Ma scordare due anni della propria vita, era già difficile di suo. Ma quei due anni, quelli, oh si, erano stati i più incredibili della sua esistenza ed era convinto che mai, mai avrebbe incontrato un’altra persona come Sherlock Holmes. Strana, come lui che suonava il violino alle tre di notte, come lui che chiedeva il silenzio per entrare nel suo “Palazzo Mentale”, che teneva i cadaveri nel frigorifero e  anche, oh si, che non mangiava per giorni interi. E geniale come lui, come lui che deduceva che un uomo non era il padre del proprio figlio dai risvolti dei suoi pantaloni, come lui che era capace di mille travestimenti, che riusciva a parlare senza respirare, e anche, oh si, che riusciva a risolvere il più difficile dei casi in pochi minuti.
Quella mattina passò lentamente, senza alcun segno di violini o violinisti. Poi andò al parco, comprò un caffè da portar via e lo bevve seduto sulla panchina in cui aveva incontrato Mike. Restò lì per circa un’ora e poi, nel pomeriggio, si incamminò di nuovo verso l’ospedale. Nel laboratorio di chimica c’erano dei medici che stavano mostrando ad alcuni allievi dell’università le varie apparecchiature e tecniche mediche così John non poté trattenersi  per più di cinque minuti. Prese un taxi ed arrivò a Baker Street. Si fermò davanti alla porta, perplesso, indeciso sul da farsi. Poi si fece coraggio e bussò. La signora Hudson gli aprì e lo salutò abbracciandolo.
-“Oh, John, mio caro, da quanto tempo che non ti vedo. Entra pure, preparo il tè.”- disse l’anziana signora. Infatti erano quasi le cinque del pomeriggio, ora del High Tea. John entrò ringraziandola della sua continua premura. Era bello sapere che almeno qualcosa non era cambiato lì al 221B di Baker Street. 
-“Sai, John, il tuo vecchio appartamento è ancora vuoto, nel caso in cui tu voglia tornarci”- disse la signora Hudson portando il vassoio con il tè nel salotto del suo seppur modesto appartamento, al piano di sotto della casa.
-“Non posso tornarci, non è mai stato mio.”- rispose John con tono triste.
-“Ma certo che era tuo, pagavi regolarmente l’affitto”- disse lei, fingendo di non capire. John scosse la testa.
-“Non è mai stato mio. E’ sempre stato nostro. Mio e di Sherlock. Ora lui non c’è più, perciò…”- si fermò sentendosi salire il nodo alla gola. Dopo alcuni attimi di silenzio, la signora Hudson riprese a parlare cautamente.
-“Ci sono ancora tutte le sue cose ed io non so che farmene. Vuoi dargli almeno un’occhiata?”- disse gentilmente. John annuì e salì all’appartamento che era stato suo e di Sherlock. Era mezzo vuoto. Le cose di Sherlock non bastavano a riempirlo. John si avvicinò alla parete. Era ancora segnata dai proiettili di uno Sherlock annoiato e accanto a loro c’era lo Smiley Face disegnato con la vernice fluorescente. John si sedette su quella che un tempo era stata la sua poltrona. Immaginò Sherlock seduto sulla poltrona di fronte a se, come ai vecchi tempi, che rifletteva su qualcosa a mani giunte. Scoppiò a piangere. Come aveva temuto quella casa era troppo piena di ricordi. Anche quello strano teschio sul camino ormai polveroso, che in realtà dava un tocco abbastanza macabro all’appartamento, visto anche che ormai cominciava a far buio, gli mancava adesso. Decise in quel momento di aggiungere una tappa al suo piccolo itinerario.
Uscì dall’appartamento salutando la padrona di casa e tornò all’ospedale. Non al laboratorio di chimica come aveva fatto la mattina stessa, ma sul tetto. Aveva deciso di farla finita e voleva farla finita come aveva fatto Sherlock. Salì sul basso cornicione che circondava il tetto e guardò giù. Era davvero un bel volo. L’aveva visto fare a Sherlock e tra poco l’avrebbe fatto anche lui. Sorrise pensando a quanto è perverso l’uomo, attratto dal fare cose che sa di non dover fare. Una parte del suo cervello, quella del buon senso, gli diceva che non doveva buttarsi, ma l’altra parte, la più sadica e perversa, quella che tutti in fondo abbiamo, per quanto buoni e onesti, voleva provare l’ebbrezza della caduta, la sensazione di volare senza possibilità di risalita. Questa era la parte che prevaleva in lui. Stava per saltare, si, perché era stanco di quella vita fatta di notti insonni e di espedienti. E poi… poi qualcosa lo bloccò. Era il suono di un violino. Stavolta era vicino, più vicino del solito, e non era di sicuro un’allucinazione. Una mano gentile lo scaraventò dal cornicione e lo portò al centro del terrazzo.
-“Niente vale il gesto che lei stava per fare”- gli disse una voce. Quella voce gutturale, gli sembrava di averla già sentita, anche se questa era più roca.  John si girò in direzione di quella voce. Era il violinista che lo seguiva da lunedì.
-“Se lei sapesse cosa mi è successo ritirerebbe le sue parole, mi creda”- gli disse guardandolo negli occhi. Quel signore di mezza età aveva degli occhi azzurri che John sembrava conoscere.
-“Allora me lo racconti”- disse l’altro con un sorriso gentile. John iniziò a raccontargli tutto. Era la prima volta che si sfogava con un estraneo.
-“Il mio migliore amico si è buttato da questo tetto quasi un anno fa. L’ho visto cadere e non ho potuto fare niente per lui. E’ stato terribile.”- disse John tristemente.
-“Allora lei deve essere il dottor John Watson,l’amico di Sherlock Holmes, non è così?”- disse l’altro.
-“Quello che rimane del dottor John Watson.”- lo corresse l’ex militare. L’altro lo guardò tristemente.
-“Le manca molto il suo amico?”- chiese
-“Tantissimo. Mi manca di più ogni giorno che passa. A volte mi piacerebbe avere soltanto altri 5 minuti con lui”- rispose John. Il violinista lo guardò incuriosito.
-“Cosa farebbe in quei cinque minuti?”- chiese. John sorrise.
-“Credo che lo riempirei di pugni fino a fargli chiedere pietà.”- rispose.
-“Allora deve odiarlo”- disse l’altro con lo sguardo un po’ triste. John scosse la testa.
-“E’ questo il problema. Non lo odio. E’ vero, lo riempirei di pugni perché mi ha fatto star male, mi fa star male, ma credo che gli direi anche molte cose non dette”- disse John con un sussurro.
-“E in questo caso credo che 5 minuti siano troppo pochi”- disse il violinista, togliendosi la barba finta. John sgranò gli occhi. All’improvviso era comparso Sherlock, davanti ai suoi occhi e gli sorrideva. Il biondo rimase immobile.
-“Avanti John, hai appena detto che mi avresti riempito di pugni fino a farmi chiedere pietà”- disse il moro, sorridendogli. Sentendo la sua voce John fu come oltrepassato da una scossa elettrica e colpì ripetutamente il detective. L’altro incassò tutti i colpi in silenzio, in fondo John non gli stava facendo davvero del male.
-“Tu non hai la minima idea di come io mi sia sentito in quest’ultimo anno! E adesso ti ripresenti e magari pretendi anche che ti perdoni, non è così?”- disse John, piangendo,una volta finito di colpire il detective. Sherlock lo abbracciò. John ne fu stupito, ma poi si lasciò avvolgere dal calore del suo amico.  Era rassicurante la sua stretta. Perché in fondo non era mai stato davvero arrabbiato con lui, no, lui l’aveva perdonato non appena era ricomparso.
-“Non piangere John, non ce n’è motivo”- sussurrò Sherlock
-“Promettimi che non lo rifarai mai più. Ti prego.”- gli disse l’altro.
-“Non posso prometterlo. Era in gioco la tua vita, quel giorno. Tu non lo sai, ma avevi un cecchino che ti puntava il fucile addosso. Avrebbe sparato se non mi fossi buttato giù. Per fortuna avevo programmato tutto, ma non avrei esitato a buttarmi anche con la certezza di morire. E sappi che lo rifarei”- rispose il detective. John alzò lo sguardo. Non poteva credere cosa Sherlock avesse fatto per lui.
-“Se ti azzardi a mettere la tua vita in pericolo per me, giuro che ti sparo io”- disse John sorridendogli. Sherlock rise.  Si sciolsero dall’abbraccio, un po’ imbarazzati.
-“ Il nostro appartamento è ancora vuoto,ti va di tornarci?”- chiese John, lievemente rosso in viso.
-“Se a te non dispiace sentirmi suonare il violino alle tre di notte,sentirmi sparare alla parete quando mi annoio e se le parti di corpo umano nel frigo non ti danno fastidio sarei più che lieto di tornare a Baker Street”- rispose Sherlock, con un sorriso a 32 denti.
-“A dire il vero mi sono mancate  tutte queste cose”-  disse l’altro,sorridendo.
 
 
E così, il giorno dopo, tutto era tornato alla normalità. John sedeva in poltrona a scrivere sul suo blog e Sherlock era appollaiato sull’altra a riflettere su chissà cosa. Era stano come quell’anno non gli avesse lasciato un solo segno dell’abitudine. Era come se Sherlock non fosse mai morto, come se quell’anno non ci fosse mai stato. Era semplicemente tutto tornato come prima. Ma pensandoci bene a John non bastava.
-“John?”- disse ad un certo punto Sherlock.
-“Si, Sherlock?”-
-“Ieri, sul tetto, hai parlato di “cose non dette”. A cosa ti riferivi?”-chiese.
Il cuore di John perse un battito. Poi improvvisamente iniziò ad battere troppo velocemente. Era come se gli avesse letto nel pensiero. E questa era la cosa peggiore, che Sherlock lo aveva già fatto una volta. E ora?Cosa doveva fare? Doveva dirglielo? No, era fuori discussione, non poteva, non doveva farlo. E cominciò a sentirsi come sul tetto, mentre stava per buttarsi. Sentiva di nuovo l’adrenalina nel sangue. Cosa sarebbe successo buttandosi giù? Cosa sarebbe successo se avesse detto a Sherlock quello che voleva dire da molto tempo? Come sarebbe stato volare? E l’atterraggio, come sarebbe stato? Sarebbe riuscito a cadere intero o avrebbe rovinato al suolo rischiando di morire?
Mentre John combatteva contro sé stesso, Sherlock lo osservava. Aveva capito che John era alle prese con qualcosa di profondo, qualcosa di cui Sherlock non era pratico.
-“Non te l’ho ancora detto e forse è superfluo, ma sappi che mi sei mancato”- disse il detective con un sorriso. John lo guardò. Per Sherlock era difficile ammettere cose del genere eppure l’aveva appena fatto. Decise di buttarsi.
-“Mi sei mancato anche tu”- rispose sorridendo e si alzò dalla poltrona per posare delicatamente le sue labbra su quelle di Sherlock.  Sherlock ricambiò timidamente il bacio, lasciandosi  trasportare.
In quel momento John capì cosa si provava a volare.
  
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