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Autore: Mikaeru    17/06/2012    7 recensioni
Un bambino di nome Sherlock è convinto di essere lo stesso Sherlock Holmes dei libri di Arthur Conan Doyle.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty , John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Suo figlio l’attendeva con impazienza a letto. Si era già infilato sotto il piumone, pigiama addosso e denti lavati con tutta la cura che un bambino di sette anni potesse avere. Mary Morstan sorrise al suo bambino con tenerezza, mentre faceva scorrere il dito sui libri ordinatamente riposti.
“Chissà cosa potremmo leggere stasera…”, domandò alla libreria.
“La lega dei capelli rossi la lega dei capelli rossi la lega dei capelli rossi…”, sentì cantilenare sottovoce dal letto, il suo piccolo che strizzava forte gli occhi con le mani giunte. Nemmeno se fosse stato religioso avrebbe pregato a quel modo, ci scommetteva.
“Leggiamo La lega dei capelli rossi, Sherlock, ti va?”, domandò, tirando fuori Le avventure di Sherlock Holmes. Sherlock sorrise e annuì con così tanto entusiasmo da rischiare di svitarsi la testa. Mary si sedette sul letto affianco a lui. Suo figlio era un bambino disordinato, con poca cura delle proprie cose, eccezione fatta per i libri di Sherlock Holmes. Accarezzò per un attimo le pagine ingiallite.
“Nell’autunno dell’anno scorso, ero andato un giorno a trovare il mio amico Sherlock Holmes”, iniziò Mary, catturando immediatamente l’attenzione del bambino, “e lo avevo trovato immerso in una conversazione con un anziano signore, corpulento e rubizzo, con una massa di capelli rosso fuoco. Scusandomi per l’intrusione stavo per ritirarmi quando Holmes mi tirò dentro la stanza, chiudendo la porta alle mie spalle.”
“Non poteva arrivare più a proposito, mio caro Watson”, recitò il bambino facendo la voce grossa, cercando di imitare quello che nella sua testa era quella di Holmes, una voce adulta e profonda. Aveva detto a sua mamma, una volta, che sapeva perfettamente che il vero Sherlock Holmes, quello dei libri, aveva un accenno di erre moscia, e quando recitava accarezzava sempre le erre per imitarlo il meglio possibile.
“Temevo fosse occupato.”, recitò a sua volta Mary, nella parte del dottor John Hamish Watson.
Arrivarono a quando la Lega dei capelli rossi si sciolse (9 ottobre 1890), la mamma che faceva Watson e Sherlock che faceva Holmes. Era sorprendente come un bambino così piccolo potesse ricordare così tante battute a memoria.
“Holmes ed io osservammo quel laconico annuncio e il viso afflitto del nostro cliente; poi l’aspetto comico di tutta la faccenda ebbe il sopravvento e scoppiammo entrambi in una risata omerica. E per oggi abbiamo finito, Sherlock, domani ricominciamo.”
“No, mamma, ti prego, ancora una pagina!”, scattò a sedere il bambino, supplicando sua madre, che si limitò ad accarezzargli i capelli e baciarlo sulla testa.
“È molto tardi, tesoro, e poi pensa che così durerà di più, no?”
Sherlock mise il broncio, tirando fuori il labbro inferiore. “Una sola, una una sola…”
Mary sospirò, ma si arrese. Lo accontentò e Sherlock fu bravo quando la mamma decise che era davvero arrivato il momento che dormisse. Si lasciò baciare e le domandò solamente che gli portasse il suo peluche di Holmes – un vecchio orsacchiotto con il deerstalker e la pipa. “Anche se mi fa un po’ strano abbracciare me stesso.”, commentò guardando il peluche nei grossi occhi neri e lucidi. Lo tenne stretto tutta notte, da quando sua madre spense la luce.

Mary Morstan aveva conosciuto Sherlock Holmes quando aveva quindici anni. Si era emozionata nel ritrovare il proprio nome nei libri e aveva pianto quando era morta. Chiese a sua madre se fosse una coincidenza e lei rispose di sì, che non sapeva neppure esistesse una Mary Watson nee Morstan. Mary ne rimase delusa e al contempo trovò che fosse un segno, una strada davanti a lei costellata di un profondo innamoramento per l’universo di sir Doyle. Per quanto avesse una profonda cotta per i modi gentili del dottore si innamorò del detective, per quanto fosse arrogante e sgarbato. Diceva sempre alle sue amiche, ridendo, che avrebbe sposato solo un uomo che di cognome facesse Holmes, perché voleva che il suo primo bambino fosse Sherlock Holmes. Era un’idea sciocca, da adolescente, e lo sapeva, ma le rimase sempre il suo ricordo appiccicato alla pelle.
Al primo appuntamento con William Holmes, a ventidue anni, glielo confessò, dietro un bicchiere di vino rosso – rosso come i capelli di lui e rosso come le guance di lei che sentiva andare in fiamme. Ridacchiò quando lui ridacchiò, lui che le diss che era strana e che per questo era contento di averla invitata a cena. Mary pensò, guardando i suoi occhi così chiari e gli zigomi alti e quel modo di ridere che per primo le aveva fatto dire “Sì, ci vediamo al ristorante dietro la facoltà alle otto”, che il loro bambino sarebbe stato molto bello. Ridacchiò di nuovo da sola, imbarazzata, convincendosi che era colpa dell’alcool che non aveva mai retto.
Lo aveva sposato cinque anni dopo, e dopo un altro anno Sherlock era nato, con gli occhi chiari del padre e i suoi riccioli, ma scuri come quelli della mamma, la pelle chiara, un bambino che non dormiva mai, il bambino più intelligente del mondo, e non era solo l’orgoglio di madre a parlare, ma le bocche stupefatte delle maestre che quasi non riuscivano a credere alla vivacità del suo cervello. Mary ne era deliziata e a volte scoppiava a ridere, nel mezzo dello studio, pensando che lo Sherlock Holmes di cui si era innamorata da ragazzina si era incarnato nel suo adorato bambino.

A sei anni chiese una lente d’ingrandimento; aveva conosciuto Sherlock Holmes da qualche mese e, come sua madre, sembrava perdutamente innamorato.
“Allora è proprio genetico.”, William apostrofò sua moglie, vagamente perplesso, mentre decidevano assieme quale lente sarebbe stata la meno pericolosa in mano al loro catastrofico figlio.
“Pare.”, rise lei, baciandogli una guancia.
A sette anni ne domandò un’altra, poi ad otto una più piccola, portatile, pieghevole. A nove anni domandò insistentemente Mycroft, suo fratello. Andò avanti per quasi tre mesi. A dieci anni cominciò a fare esperimenti per casa. A undici anni sapeva dire da dove veniva la macchia d’erba sui pantaloni del vicino di casa, a dodici anni prese confidenza con il mondo della sessualità e smascherò trentacinque tradimenti tra conoscenti, parenti e amici. William e Mary non potevano più portarlo da nessuna parte perché riusciva a mettere di malumore anche gli adulti più pazienti.
“Sherlock Holmes lo fa, quindi posso farlo anche io.”, diceva sempre, e se a sette anni poteva essere ancora una risposta accettabile, i suoi genitori si resero conto che la cosa stava sfuggendo loro di mano, scivolando letteralmente via come una saponetta.
“Tesoro…”, cominciò sua madre una volta, quando erano dovuti tornare a casa in fretta e furia; Sherlock si era avvicinato a sua madre per cominciare a raccontarle come avesse scoperto che la padrona di casa tradiva il marito con la migliore amica di lui, e Mary aveva pensato di inventare una scusa per scappare. Si morse il labbro; sentiva che era tutta colpa sua, che fin da piccolo lo aveva cresciuto con quell’ombra addosso, ad un’età in cui anche il più intelligente dei bambini non riesce a distinguere la realtà da quello che vive nella propria testa, e non aveva mai cercato di correggerlo, sempre pensando che avrebbe capito crescendo. “Tesoro, non va bene che tu faccia così. Non puoi farlo, non si trattano così le persone, lo capisci?”
“Sherlock Holmes lo faceva e nessuno lo rimproverava, anzi.”
“Sherlock Holmes non esiste, amore…”
“Ma è ispirato ad una persona vera, quindi quello che faccio non è così sbagliato.”, replicò Sherlock, ciondolando le gambe sul bordo del letto.
“Quella persona era un adulto, d’accordo?”, intervenne suo padre, spazientito, vagamente irritato. A lui Sherlock Holmes non era mai particolarmente piaciuto, da quando suo figlio era diventato grande meno che mai. “Alla tua età non puoi fare così.”
Sherlock roteò gli occhi, infastidito. Sospirò. “Il fatto che io abbia dodici anni non significa che non sia adulto. Sono molto più intelligente di molti vostri amici” Mary, in sottofondo, poté sentire “anche di voi”, che Sherlock non pronunciò per non essere punito, “ed è l’intelligenza a rendere una persona adulta, non l’età anagrafica.”
“Decidiamo, allora, che non puoi fare così quando andiamo dai nostri amici, d’accordo?”, tornò alla carica sua madre, senza lasciare il tempo ad un silenzio che avrebbe determinato la vittoria di Sherlock, “A loro non piace che ti metta a dedurre i loro affari privati. Non piace a nessuno. Puoi farle nella tua testa, d’accordo?”
“E cerca di capire che tu e Sherlock Holmes non siete la stessa persona.”
“So che non siamo la stessa persona, papà, credi che io sia pazzo?”
“No, non lo credo, lo sai.”
“Bene. Ora ho sonno, possiamo finirla qui? La smetterò, se è quello che volete.”
Mary e William sapevano perfettamente che non era davvero così facile averla vinta su Sherlock, ma sentirlo arrendersi dava un certo senso di soddisfazione. Sapevano che non sarebbe finita lì, ma la serata era stata abbastanza stancate per potersi dire conclusa quando Sherlock iniziò a svestirsi per mettersi il pigiama.

Loro non capivano, semplicemente. Non avevano il suo cervello, non era colpa loro, erano nati così. Non avevano la sua intelligenza, il suo acume, la sua conoscenza infinita. Lui era Sherlock Holmes, quello dei romanzi. Stesso nome, stesso aspetto fisico, stessa capacità di indagine – lui osservava, non si limitava a vedere come tutti gli altri. Non potevano essere coincidenze. Era così, lo era davvero. Ma loro non capivano. I suoi genitori, i suoi compagni di classe, i professori. Per loro era troppo complicato, quindi avrebbe fatto loro un favore e avrebbe finto di non essere quello che era davvero. Sarebbe stato solo un ragazzino col nome buffo, uno davvero strano.

Sherlock fu prima un bambino, poi un ragazzino, poi un ragazzo molto solo. Ma non gli importava. Neppure Sherlock Holmes aveva mai avuto tanti amici. Aveva solo John Watson. Sherlock si mise in un angolo ad aspettarlo. Non gli interessava mescolarsi con quelli che lo chiamavano strano, mostro. Non gli interessava nessuno di loro, tutti così noiosi, così stupidi, con pensieri così vuoti, le teste così leggere. Lui non voleva altro che il suo John Watson.
Avrebbe amato John Watson. Sapeva già di amarlo, il suo buon John Watson. Sherlock Holmes amava il suo così intensamente che, quando ci pensava, a Sherlock venivano le lacrime agli occhi. Lui aspettava solo il suo buon dottore, che lo avrebbe amato sopra tutto e tutti. Si chiese dove si stesse nascondendo, se anche lui fosse seduto in attesa del suo Holmes.
Conobbe il suo in terza superiore. I suo genitori conoscevano un professore di chimica che gli lasciava usare il laboratorio della sua scuola in gran segreto. Entrò un ragazzo, una volta, anticipato dal rumore dei suoi passi che rimbombavano nei corridoi vuoti. Gli domandò se potesse usare il suo cellulare per mandare un messaggio, questione di un paio di secondi, giurò. Sherlock lo guardò un attimo – aveva appena mangiato un hot dog nel pub a trenta metri dalla scuola, era stato in infermeria per controllare la slogatura del polso destro che si era fatto inciampando a terra durante una partita di calcio, era ancora a scuola perché suo padre era il preside e lo aiutava con i documenti, infatti aveva dei tagli da carta su tutte le dita –, lo guardò e capì. Oh, doveva essere suo. Era suo, era già scritto.

Abitavano a poche case di distanza, lui e John. John era biondo, con gli occhi chiari, e voleva diventare medico, e – oh, quando gli disse il proprio nome John spalancò gli occhi e la bocca.
“No, mi stai prendendo in giro.”
“Non scherzo mai. Non su certe cose, almeno.”
“Sherlock Holmes! Allora dobbiamo proprio diventare amici, non c’è altra soluzione. Siamo fatti per stare assieme, palesemente.”
John era dolce, paziente, aveva successo con le ragazze ma non saltava mai un appuntamento con lui. Quando litigavano era sempre John ad avvicinarsi per chiedere scusa, o almeno cercare di sistemare le cose. Se ne andava sbattendo la porta ma poi tornava sempre. Per questo Sherlock lo amava, perché era proprio John Watson, quello dei libri. Si era incarnato in una persona vera per incontrarlo. Era destino, era così, era tutto scritto, nero su bianco. Ma non lo avrebbe detto a nessuno, perché nessuno avrebbe capito.

La mamma morì quando Sherlock doveva entrare in quarta superiore in un incidente stradale, mentre tornava a casa dallo studio medico. Sherlock smise di piangere quando si rese conto che anche la Mary Morstan dei libri moriva presto. Anche lei era segnata, doveva essere così. Suo padre impazzì di dolore e cominciò ad ignorarlo, cominciò a bere, cominciò a picchiarlo quando tornava a casa ubriaco e Sherlock non riusciva a capire di dover stare zitto. Subì insulti, subì occhi neri. Gli disse che sarebbe potuto andare ad abitare dalla sua amante, quella che aveva sin da quando aveva tredici anni e suo padre lo picchiò così forte che lo fece svenire. Subiva tutto perché pensava che tutto facesse parte di un piano di cui ancora non conosceva bene i dettagli. Ma quando quasi gli ruppe un polso fece le valigie e andò a vivere da John. Sherlock Holmes non si poteva permettere di morire prima di diventare investigatore privato e suo padre sembrava intenzionato ad ucciderlo, quella volta.
John abitava al 221b. John lo baciò e lo consolò e fece l’amore con lui. Sherlock gli si concesse con commosso trasporto. Sherlock pensò, scivolando nel sonno accanto a lui, che anche Holmes e Watson dovevano fare l’amore dopo che Holmes aveva rischiato la vita. L’amore era la ricompensa per le sofferenze.

Arrivò uno studente nuovo, in quarta, James Moriarty, Jim per gli amici. Era irlandese, con un accento marcato. Sorrideva molto Oh, ecco chi mancava. Il suo arcinemico. Ecco cosa mancava nella sua vita. Ora viveva dai Watson, suo padre lo aveva chiamato un paio di volte; una per minacciarlo di tornare a casa o, la prima volta che lo avrebbe visto, gli avrebbe levato la pelle a forza di schiaffi, e un’altra per dire, un paio di giorni dopo, di non farsi mai più vedere perché lui viveva benissimo senza un figlio pazzo. (pensare che lui era Sherlock Holmes era il solo modo perché non si lasciasse andare alla disperazione) Ma non riusciva a sentirsi felice, completo; sapeva che qualcosa mancava, e quel qualcosa era proprio il nemico che avrebbe dovuto uccidere. Il senso ultimo per dare completezza alla sua vita sorrideva impacciato due banchi davanti a lui.

“Sherlock, che hai?”, gli domandò John accarezzandogli i capelli. Avrebbero dovuto studiare storia ma Sherlock non sembrava dell’idea. Si era arrotolato sul letto come un gatto, appoggiandogli la testa in grembo.
“Pensavo a Moriarty.”
“Dovrei essere geloso?”
“No, no…”
John ridacchiò e gli baciò la fronte. Mise il libro di fianco alle cosce, così da poter leggere e intanto fare le coccole al suo ragazzo.
Sherlock continuava a pensare a Moriarty, che si era dimostrato intelligente come lui, e non poteva essere più felice. Era davvero arrivato il professor Moriarty, forse adesso poteva spiegare la storia a John. Non sapeva se avrebbe capito. Doveva dirglielo ora? O quando fosse riuscito davvero a diventare investigatore privato? O forse doveva aspettare di riuscire a uccidere Moriarty? Però poi sarebbe dovuto sparire per tre anni. Forse, però, visto che Moriarty era così giovane, in questa incarnazione – Sherlock aveva cominciato a credere che ce ne fossero state tante, negli anni, ogni volta che Moriarty veniva buttato giù dalle cascate o dal suo equivalente –, quindi forse la sua banda non esisteva ancora e non ci sarebbe stato bisogno di sparire. Lo avrebbe ucciso e avrebbe inscenato la legittima difesa. In un qualche senso lo era, perché avrebbe protetto se stesso, John e Londra, in quel modo. Un piano perfetto.
Jim era particolarmente bravo in matematica e particolarmente interessato a John. Gli ronzava attorno come un’ape – a Sherlock non piacevano le api, ma supponeva che si sarebbe dovuto adattare quando, da vecchio, si sarebbe trasferito in campagna a fare l’apicoltore – ed era così palese che lo avrebbe voluto dalla sua parte del male. Ma non ci sarebbe riuscito. Quando vide John ridere di cuore con lui pensò che era arrivato il momento di estirpare il male dalla radice. Lui era Sherlock Holmes, era il suo dovere. E poi così la sua carriera di investigatore privato sarebbe stata molto più tranquilla – facile no, non gli piaceva l’idea che fosse facile. Ma almeno John non avrebbe rischiato nulla, rimanendogli affianco.
Avrebbe dovuto aspettare ancora un po’, giusto il tempo di diventare davvero un investigatore privato, perché poi John diventasse il suo aiutante, il suo braccio destro.
Allungò la testa e gli baciò il mento. Si lasciò scivolare nel sonno su di lui.

Il pensiero di Moriarty era sempre presente, martellante. Non aveva ancora fatto nulla contro di lui, ma perché aspettare che compiesse qualche azione malvagia? Era suo compito prevenirlo. Lui sapeva cosa sarebbe potuto accadere, conosceva quello di cui sarebbe potuto essere capace una volta diventato adulto, e suo era il compito di recidere il male alla sua radice.
A John decise di non parlarne. Avrebbe aspettato, gli avrebbe spiegato tutto una volta ucciso Moriarty. Sì, era giunto il momento, doveva ucciderlo. Il suo destino si presentò davanti a lui in forma di sogno, nel marzo della quarta superiore, molto prima di quanto avrebbe immaginato. Ma lui era Sherlock Holmes e non poteva scappare.

Lo invitò sul tetto della scuola. Lo aveva sfidato più volte a chi prendeva il voto più alto, a chi correva più veloce, a scacchi, a gare di pugilato. Gli disse che aveva bisogno di parlargli.
“Tu sei James Moriarty, il nemico di Sherlock Holmes.”, esordì Sherlock quando Jim arrivò. Quello scoppiò a ridere. Era a venti centimetri di distanza. Sherlock poteva specchiarsi nei suoi occhi nerissimi. Anche dagli occhi poteva capire che era destinato al male. Lo era in tutte le sue incarnazioni, era impossibile il contrario.
“Mi hai fatto venire qui per fare battutine sui nostri nomi? Pare che avessimo tutt’e due genitori con uno strano senso dell’umorismo. I tuoi soprattutto. James è anche un bel nome, ma Sherlock?”
“Tu sei James Moriarty e devi morire.”, continuò, camminando verso di lui. Pensò a se stesso visto da fuori. Una scena drammatica, teatrale, che gli piacque. È quello che devi fare. Ho solo anticipato la questione, prima che tu possa fare del male a qualcuno.”
Moriarty continuò a ridere più forte; si sentiva l’eco per tutto il cortile. “Cosa?!”
Ma Sherlock non sembrava essere divertito. Lo prese alla sprovvista, stringendogli le mani attorno al collo.
“Tu sei pazzo!”, cercò di urlare Jim, che quasi non respirava più. Cercò di lottare, lo graffiò in viso, ma non riuscì a liberarsi.
Sherlock sentì sotto di loro il rombo delle cascate, la dolce musica dell’acqua che scorreva. Sapeva che sarebbe riuscito ad aggrapparsi ad una finestra, se fossero caduti insieme. Aveva calcolato bene tutto, da quando si era reso conto che non sarebbe dovuto sparire per tre anni. Sentiva il sangue fluire più velocemente, il cuore quadruplicare i battiti. Sentiva una gioia prepotente, furiosa, mandargli a fuoco le viscere.
“Addio, Moriarty.”
Spinse entrambi nel vuoto. A metà della caduta lasciò andare Moriarty e si aggrappò alla finestra.
“Sono sopravvissuto alle cascate Sono sopravvissuto alle cascate. Sono Sherlock Holmes.”, sussurrò a se stesso. “La prova finale.”
Sorrise, urlò, sentì gli occhi pizzicare di gioia. Ma l’emozione aveva reso le sue mani sudate, scivolose.
Cadde.
  
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