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Autore: Ryo13    22/06/2012    7 recensioni
Mary siede in solitudine sulla panchina di un parco, medita sull'amore cui ha dedicato tutta se stessa: si chiede se sia stato giusto farlo a scapito di altre esperienze. Una giovane ragazza sarà la chiave per comprendere i suoi sentimenti. A volte l'amore capita per caso, e basta un solo giorno perché nasca un'incredibile storia.
Mi chiesi se anche Michael avesse compreso così chiaramente i termini di una simile scelta: aveva deciso di vivere per Mary perché rappresentava la parte di lei che desiderava essere amata incondizionatamente?
❈❈❈Storia che ha partecipato al Contest 'Destini' di MissNanna❈❈❈
❈❈❈Seconda classificata al contest - Amor, ch’a nullo amato amar perdona" - indetto da Little_Rock_Angel5 sul forum di EFP❈❈❈
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Your mind plays on you'
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Nota: ♣ Consiglio di ascoltare questa melodia durante la lettura del testo: Romeo and Juliet - Time for us

 

Quando aprii la porta di casa, la richiusi alle spalle sbattendola.

Non potevo tollerare di passare un altro minuto dentro, a soffocare tra quattro pareti. 

La luce del mattino rischiarava il marciapiede vuoto e, nel silenzio, rimbombava il suono dei miei passi frettolosi: avevo bisogno di fuggire, di staccare la spina.

Con Nathan era finita da cinque mesi, ma si sembrava ancora di morire nella mia forzata solitudine. Non riuscivo a stare più a contatto con gli altri: ogni cosa mi ricordava lui; quando meno me l’aspettavo, lacrime di rabbia e rimpianto mi inondavano il viso senza che ne avessi alcun controllo. 

Odiavo esporre la mia fragilità, persino agli amici.

La mia famiglia aveva assistito, impotente, al disfacimento di tutti i miei sogni, quando Nathan aveva deciso di piantarmi.

Un biglietto. L’unica cosa che ho avuto da lui a spiegare perché avesse mandato a monte anni di relazione, appena a un passo da un matrimonio che ㄧ chiaramente ㄧ non aveva mai voluto.

 

“Non me la sento, Irma, scusami. Non riesco più a soffocare i miei sogni. È ora che io trovi me stesso e sento che per farlo devo troncare con tutto e tutti. Non ti chiedo di aspettarmi.”

 

Ero rimasta a fissare quel foglio per ore; poi per giorni. 

Avevo imparato ogni frase a memoria. Mi sono torturata per capire cosa avesse voluto dirmi veramente con quelle parole, desiderando di leggervi più di quello che dicevano. 

Lo avevo aspettato sul serio, credendo la sua la classica paura prima del grande passo. Ma non era tornato, e io ero rimasta sola.

Nuove, maledette lacrime mi appannarono la vista, non vedevo più dove stessi mettendo i piedi. 

Svoltando l’angolo, giunsi a un parco nella periferia della città, dove la gente portava a spasso i cani e faceva jogging, ma era ancora troppo presto perché vi fosse qualcuno in giro.

Il sole era pallido e basso all’orizzonte, l’aria fresca: trassi un profondo respiro e rabbrividii, godendo della momentanea quiete.

Costeggiai il muro perimetrale osservandone ogni piccola fenditura tra i mattoncini impilati: al di là di quello vi era il termine della città. Per un momento, pensai di essere diventata come quella linea di confine: il mio corpo era un fragile spessore che separava la società esterna dal mio vuoto interiore.

Distolsi lo sguardo, ignorando la metafora della mia vista accanto alla quale continuavo a mantenere un passo costante.

Poi da lontano scorsi la figura di un’anziana signora: era seduta curva su una panchina, le mani strette in grembo; fissava qualcosa davanti a sé. Sembrava molto fragile nella sua sagoma esile, fasciata da un enorme scialle che le copriva le spalle. 

Non c’era nessun altro attorno. 

Pian piano mi avvicinai: era così assorta che sembrava non respirare. 

La osservai con più attenzione ㄧ forse addirittura morbosamente: era  eterea nel volto chiaro e deformato dai segni del tempo. Per un momento mi venne l’assurdo pensiero che non si trattasse di una persona reale, ma che bastasse un battito di ciglia per vederla sparire nel nulla.

Quando fui abbastanza vicina da sfiorarle la gonna, sollevò di colpo lo sguardo, puntandomi addosso degli occhi color indaco che parevano leggermi nell’animo.

Ogni cosa nella posa, nello sguardo, nelle mani rugose e giunte, trasmetteva calore e sicurezza, ma anche un incredibile senso di malinconia e torpore. 

Ci fissammo per alcuni, assurdi istanti, senza che riuscissi a dire nulla per la commozione. 

Non fece domande. Con un gesto materno diede dei colpetti alla panchina, invitandomi a sedere. 

Presi posto senza pensare a quanto tutto fosse surreale.

Lei ruppe il silenzio chiedendomi: «In che anno siamo?»

Sussultai per la sorpresa. Avevo capito bene? 

«È il 1999», risposi.

Lei annuì, osservando gli uccelli in volo. «È una bella stagione, questa», commentò.

«Sì, Ottobre è sempre stato il mio mese preferito.»

«Ottobre…» 

«Le ricorda qualcosa?»

«Il cantante di Jazz.»

«Come, scusi?»

«Il cantante di Jazz», ripeté. «Avevo circa otto anni quando uscì per la prima volta al cinema. Nel 1927.»

«Ed era felice?» 

Non so perché glielo domandai: la sua espressione sognante mi aveva fatto provare un lampo di invidia. Doveva avere accumulato un discreto numero di esperienze alla sua età: probabilmente era felicemente sposata con una innumerevole prole di nipoti che l’aspettava a casa.

«Oh, sì», sospirò. «Quel giorno ho conosciuto Michael.»

Ecco, appunto. «Michael è suo marito?»

«È stato il grande amore della mia vita. L’unica persona insostituibile per me.»

Una fitta di dolore mi trafisse il petto: avevo creduto che Nathan fosse il mio amore della vita. Almeno fino a quando il castello di sabbia non è crollato.

Ciò che più mi faceva rabbia era di non essermi accorta di nulla. Se avessi avuto anche il minimo sentore della sua insoddisfazione, forse avrei potuto fare qualcosa.

Ogni tanto era capitato che lo sorprendessi a fissare il vuoto, ma erano brevi momenti ai quali non avevo attribuito importanza. 

Dopotutto, a me bastava un suo sorriso per dimenticare il resto. 

Ma cosa aveva provato Nathan? Non gli erano bastati i miei sorrisi, i miei abbracci? Quanto aveva sofferto standomi accanto senza che io lo capissi fino in fondo?

«Come si chiama?» La voce della vecchietta mi fece trasalire riportandomi alla realtà, eppure non mi sorprese constatare che aveva seguito il filo dei miei pensieri.

«Nathan. Si chiamava Nathan.»

«Non c’è più?»

«Non per me.»

«Capisco», disse. Chissà se era vero.

«Se n’è andato», confessai di getto.

Per tutta risposta, mi accarezzò la schiena in segno di conforto.

«E il suo Michael?», chiesi ancora.

Le labbra le si piegarono in un sorriso alquanto triste, prima che rispondesse: «Lui è sempre con me».

Pensai con rammarico che doveva essere morto. «Le manca?» 

«A volte. Quando tutto il resto prevale, come in questo momento.»

Non credevo di capire veramente, ma non era questo il punto: l’amore era sempre amore, così come le gioie e le ferite che infliggeva; potevamo avere storie diverse, ma aver sperimentato la medesima impronta di dolcezza e sofferenza.

«Per caso, mi vorrebbe raccontare?» 

Non ero solita andare in giro a chiedere alla gente della loro vita, ovviamente, ma pensavo di avere un’occasione per ascoltare una storia felice; una storia che alleviasse un poco la mia delusione.

Il sorriso che mi rivolse la signora questa volta fu caldo e gentile.

 

❃❃❃

1927.

Una bambina nel suo abitino elegante, da signorina di buona famiglia, stringeva la mano del padre mentre, tra la folla, entrava nel piccolo cinema di periferia e prendeva posto su una vecchia poltrona. 

La madre li seguiva da presso guidando, con una mano posata sulla spalla, il figlio maggiore Thomas, il quale, come la sorellina Mary, era impaziente che cominciasse il film: i genitori avevano detto che ci sarebbe stata la voce. 

Si trattava del primo film sonoro mai realizzato.

Quando iniziò la proiezione, le figure si mossero nello schermo senza che Mary capisse nulla della trama: i personaggi non parlavano molto, ma ogni tanto cantavano e lei si divertiva a sentire quella strana musica uscire dal grande schermo.

Puntualmente, a distrarla, un bambino seduto nel posto accanto al suo le faceva le boccacce: cominciò una gara a chi sapeva schiacciarsi di più la faccia o attorcigliare la lingua: a chi sapesse rendersi più brutto, in sostanza.

A nulla valsero gli sporadici rimproveri del padre, affascinato e distratto dal film: Mary continuò i suoi giochi e non si accorse nemmeno di quando tutto ebbe fine.

Distolse per un momento lo sguardo quando il padre la trascinò per il braccio, e poi non lo vide più. 

Non sapeva nemmeno il suo nome.

Quella sera ripensò a quel bambino e si addormentò desiderando di incontrarlo ancora per poterci giocare.

 

«E lo incontrò?» domandai, interrompendo il racconto.

«Sì. Michael fu il mio compagno di giochi quando Thomas non aveva tempo per stare con me, soprattutto negli anni successivi, quando divenne troppo grande. Era maggiore di cinque anni. Lei ha fratelli?»

«Solo due sorelle minori.»

«Sono una benedizione, i fratelli e le sorelle», disse.

 
 ❃❃❃

1935.

Mary aveva appena compiuto sedici anni ed era diventata una bella ragazza: teneva i capelli alle spalle, morbidamente arricciati e appuntati alla fronte con forcine, secondo la moda del momento. Il viso, liscio e pulito, non era contaminato da alcun cosmetico. 

Le guance rosee per l’ansia, aspettava Michael seduta sulla panchina del parco, la sua preferita: quella dalla quale si scorgeva il laghetto con i cigni.

Michael, dopo poco, si presentò in calzoni aderenti, trattenuti dalle bretelle che spiccavano sulla camicia chiara.

«Ti pare modo di vestirsi, questo?» lo rimproverò affettuosamente Mary.

«Perché? Cos’ho che non va?», obiettò il ragazzo, allargando le mani e abbassando lo sguardo sui propri vestiti. «Ci ho messo pure più impegno del solito. Volevo farmi bello per te!» aggiunse agitando comicamente le sopracciglia.

Mary scosse il capo in segno di disapprovazione, ma il sorriso che le illuminava il viso suggeriva che lo stava solo canzonando.

«Le maniche della tua camicia», gli fece notare, «non dovresti tenerle arrotolate ai gomiti. Non è così che le portano i signori distinti.»

«Ma io non voglio essere un signore distinto», rideva Michael. «Voglio solo essere tuo.»

Inclinò il viso verso quello della giovane, sfiorandole teneramente le labbra con le proprie. Mary sospirò sul suo volto, chiudendo gli occhi e offrendo la bocca come pegno del suo amore.

Adorava quei momenti: quando Michael, da ragazzo scherzoso, si trasformava in un uomo, lasciando intravedere ciò che sarebbe diventato. Mostrava in ogni gesto tutto l’ardente desiderio che aveva per lei. 

Mary sentiva il cuore scoppiarle nel petto per la gioia e la commozione. Le piaceva accarezzargli i capelli, lisci e morbidi al tatto; fremeva nel sentire il calore dei suoi baci lungo il collo e i sussurri arditi all’orecchio: Michael era l’uomo che amava, l’unico cui sarebbe mai appartenuta.

 

«Vi sposaste, dunque?», domandai con partecipazione e interesse.

Non potevo non pensare a Nathan e al mio mancato matrimonio, ma il racconto aveva catturato la mia immaginazione, tanto che non ero quasi più triste: dimenticando per un po’ i miei problemi, mi sembrava di vivere io stessa quella bella storia d’amore, come se fosse anche un po’ mia.

«Era quello che volevamo», disse.

«Cosa successe?»

Si incupì. Sentii un dolore acuto al petto, presagendo nulla di buono.

«I miei genitori non approvavano.»

«Ma perché?!» obiettai contrariata. «Non lo conoscevano, forse? Se non l’avessero ritenuto un buon soggetto perché permettere che cresceste insieme?»

Scosse la testa, come se non potessi capire. Ma provò a spiegare: «In realtà, loro non l’avevano mai visto».

«Com’è possibile?!» esclamai con un verso d’incredulità. «Vi incontravate in segreto?»

«Ogni volta che provavo a introdurlo, trovava sempre una scusa per sottrarsi, oppure faceva qualcosa per togliermi di mente ogni buon proposito.»

«E perché mai non voleva incontrare i tuoi parenti?» chiesi sospettosa. Nella foga, avevo persino accantonato il lei di cortesia, passando a un tono più colloquiale, ma la signora non parve farci caso. Forse era la natura profonda delle confidenze che ci stavamo scambiando, o forse l’atmosfera fuori dal mondo in cui sembravamo immerse, ma la sentivo molto intima, quasi un’amica di vecchia data.

«Beh, mia cara, ora mi rendo conto che non poteva…»

 
 ❃❃❃

1938.

Il papà di Mary la fissava sconsolato; sua madre stava immobile e muta: sembrava una statua di ghiaccio, lì sulla poltrona del salotto. Anche così, tuttavia, era bella. Mary aveva sempre desiderato essere come lei: graziosa, elegante, raffinata… per questo motivo cercava sempre di imitarla in tutto. 

Voleva un matrimonio felice, proprio come quello dei suoi genitori: dopotutto, aveva trovato l’uomo perfetto. 

Amava Michael più della sua stessa vita. Quando pensava a lui, le si illuminava il volto in un caldo sorriso, capace di sollevare il cuore di quanti le stavano attorno.

Il suo più intimo desiderio era quello di creare una famiglia con lui, di avere la casa piena di bambini da accudire, che somigliassero al loro padre. Il solo pensiero la commuoveva: dunque, perché nessuno la capiva?

«Tesoro, abbiamo bisogno di parlarti», la voce fievole di suo padre ruppe infine il silenzio. «Perché non ti siedi con noi?» le disse, indicando il divanetto.

«Non voglio sedermi, papà, voglio che mi capiate: io amo Michael e voglio sposarlo! Non lo conoscete, ma lo convincerò a venire in casa e potrete vedere che è un bravo ragazzo!»

Sua madre continuava a non emettere fiato. Cominciò a piangere silenziosamente. Infine si scosse, e con un fazzoletto ricamato con le iniziali del proprio nome, prese a tamponarsi il viso, soffocando poi un singhiozzo e premendo il pugno tremante sulla bocca.

«Perché piangi, mamma?» 

Un timore inspiegabile le stava paralizzando l’anima alla vista di quel pianto.

«Mary», la richiamò il padre, «Michael è forse la persona con cui parlavi poco fa? Era in questo salotto?»

La ragazza si accigliò per un momento, fulminata all’idea che avessero potuto scorgerlo prima che si desse alla fuga dalla porta sul retro.

«Sì, papà. Era qui fino a un momento fa. Quando ha sentito che rientravate è voluto andare via. Si sente molto in imbarazzo e non vuole che l’incontro con voi avvenga per caso, senza un’adeguata preparazione.»

Forse vederlo scappare da casa loro in tutta fretta aveva lasciato una cattiva impressione, ma Mary cercò di spiegare ai suoi genitori quali fossero le preoccupazioni del fidanzato, affinché capissero che si trattava di un bravo ragazzo. Nutriva la speranza che ciò bastasse ad attenuare i loro timori, per metterli in una disposizione d’animo che eliminasse qualunque pregiudizio.

«Mi dispiace, tesoro», sussurrò il padre, «mi dispiace tanto.»

A sua madre sfuggì un gemito roco e si accasciò sulla poltrona. Il marito le si pose accanto e la consolò stringendole le spalle.

«Andrà tutto bene», continuava a ripetere per farla calmare. 

Mary osservava la scena disorientata.

«Perché la mamma sta piangendo? Michael ha intenzioni serie… non mi ha mai sfiorata, se è questo che pensate…»

«No, Mary,» venne interrotta, «non pensiamo nulla del genere.»

«Non capisco, allora, cosa stia succedendo!», esclamò la ragazza in preda all’agitazione. Cominciava seriamente a irritarsi: i suoi genitori parevano decisi a non dare alcuna possibilità all’uomo che amava; erano sordi a ogni sua parola e, come se non bastasse, non le rivelavano quale fosse il nocciolo del problema.

Finalmente suo padre parve prendere una decisione. Si allontanò dalla moglie, avvicinandosi con cautela alla figlia. Sembrava indeciso su come approcciarla, ma poi la cinse alle spalle, strofinandole le braccia con fare rassicurante.

 «Hai bisogno di essere curata, tesoro», sussurrò annuendo col capo: sembrava stesse cercando di convincere per primo se stesso.

«Curata? Ma che vuoi dire?!» gridò. «Io sto benissimo!»

«No, non stai bene, piccola. Ti devo portare da un dottore. Sì… lo dobbiamo fare…»

Sotto l’effetto di un potente senso di estraniamento, Mary cercò di riportare il discorso su Michael, ripetendo ancora una volta ciò che aveva detto loro sul ragazzo.

«Michael non esiste!» sbottò d’improvviso l’uomo. Aveva l’espressione contratta in una smorfia di insofferenza; anche la sua presa sulle braccia si era rinsaldata, procurando a Mary una fitta di dolore che le strappò un ansito.

«M-ma che stai dicendo?!» balbettò, gli occhi appannati di lacrime.

«È come ho detto. Non c’era nessuno qui poco fa. Tu parlavi da sola!»

«Non dire assurdità! Non l’hai visto perché ha raggiunto subito la porta!»

«No, no, no…» negò scuotendola a ogni parola. «Abbiamo osservato ogni cosa: eri da sola», continuò con voce stanca. «Non possiamo più ignorare l’evidenza. Abbiamo cercato di non vedere, di non fare caso a certi tuoi comportamenti. Ma ora vaneggi di un matrimonio con qualcuno che esiste solo dentro la tua testa. Non possiamo più permettere che le cose vadano avanti…»

Mary si sentì mancare il fiato, le girò la testa. Dovette appoggiarsi sul divano, si sentiva svenire. 

Cercava meccanicamente di spiegare, riuscendo solamente a balbettare monosillabi che le si impigliavano sulle labbra tremanti.

Michael era reale, non era possibile che fosse altrimenti. 

Tentò di fornire prove inconfutabili, ma quando si rese conto che nessuna era sufficiente, sentì il mondo chiuderlesi attorno, provando un senso di atroce claustrofobia. 

Era un dolore che non riusciva a sopportare.

Poi vennero i medici. 

Mille mani, mille occhi, mille esami, mille domande. 

Ogni cosa la confondeva, la rendeva incerta sulla realtà, vacillante nelle sue certezze. 

Mille furono le bocche a dirle cosa era reale e cosa non lo era, mille le orecchie ad ascoltare la sua preziosa storia d’amore: veniva costretta a ripetere e ripetere per sviscerare ogni episodio. Era infatti necessario stabilire con che frequenza si verificavano le allucinazioni, cosa le scatenasse, quanto tempo duravano e in che modo si potesse mettere loro fine.

Quando il mondo convinse Mary che tutto ciò che aveva avuto era stata solo un’illusione, pianse di disperazione. 

Pianse per il suo perduto amore, pianse perché la realtà aveva rovinato il sogno più bello della sua vita, l’unica occasione che aveva avuto per afferrare la felicità.

Fu tentata ogni genere di cura, mentre la tenevano sotto stretta osservazione. 

Non riusciva a nascondere ai dottori la maggior parte dei suoi episodi, perché avevano imparato a riconoscere in lei gli indizi delle visioni. 

Venne costretta a dire a Michael che lui non esisteva e che era frutto della sua immaginazione; doveva seguire l’obbligo di non rivolgergli la parola, quando lui la cercava.

Poteva parlare con Michael solo per dirgli: “Non sei reale”.

E lui, con un’espressione dolcissima sul volto triste, ogni volta rispondeva: «Non importa che io non lo sia».

Il loro amore era stato contaminato dalla realtà: non sarebbe mai più potuto tornare a essere quello di un tempo, quando apparteneva a loro due soltanto ed era puro, libero e felice.

Michael continuò ad affiancarla in silenzio durante la terapia riabilitativa del centro di malattie mentali. 

I medici affermavano che se avesse continuato a ignorarlo presto sarebbe sparito. Se lei guariva, sarebbe stata finalmente libera. 

Ma quel pensiero non le era di alcun conforto. 

Per quanto tutti dicessero la loro, Michael era sempre accanto a lei: continuava ad amarla con lo sguardo dei suoi occhi, con il lieve tocco delle dita invisibili sulla pelle, con i brevi sorrisi che le regalava quando si girava a cercarlo. 

Tuttavia, l’illusione era stata rivelata e non vi si poteva porre rimedio: la consapevolezza di Mary era mutata, così lo fu irrimediabilmente anche la percezione che aveva del suo Michael. 

Non lo vide più crescere: infatti, come poteva mutare un’illusione svelata?

Per lei sarebbe sempre rimasto il bambino che aveva conosciuto quel lontano giorno al cinema, durante la proiezione del film sonoro. Avrebbe ricordato il giovane di cui si era innamorata e l’uomo che avrebbe voluto sposare, ma non poteva più conoscere il vecchio canuto che Michael sarebbe diventato se la mente di Mary avesse continuato a ingannarsi.


«Mi hanno costretto a vedere la verità dietro l’illusione», disse l’anziana donna. «Capivo quello che mi dicevano, ero arrivata anche a convincermi di quale fosse la verità, ma non ebbi mai la forza di rinunciare al mio sogno.

«Non sopportavo l’idea di vedere sparire Michael tra i fumi della ragione. Ogni volta che lo guardavo, sapevo che ero l’unica a vederlo, eppure non smisi di sorridergli e di tendergli la mano.

«Quando tutti quei medici si arresero, diagnosticarono che non volevo essere ‘riabilitata’: mi lasciarono tornare a casa, ma vissi schiacciata dal peso della profonda delusione di mia madre, che non poteva sopportare che fossi schizofrenica. Mio padre fu più comprensivo, accettò la situazione; mentre mio fratello si allontanò da me: provava vergogna, ma non lo incolpai mai di questo.

«Ero semplicemente nata sbagliata, c’era qualche difetto nella mia testa. Ma qualunque cosa fosse a rendermi diversa, pensavo anche che mi aveva permesso di vivere un amore totale: quando tutti andavano via, Michael rimaneva sempre, e mi consolava.»

«No…» sospirò alla fine, «non avrei potuto desiderare di essere diversa da quello che ero.»

Ero attonita e sbalordita: non riuscivo a credere a ciò che mi aveva appena raccontato.

Lei si perse a lungo nei suoi pensieri sorridendo, qualche volta triste, qualche volta felice. Le emozioni si susseguivano con tale intensità sul volto rugoso che dopo un po’ non mi importò più che fosse vero o meno, non mi importò di quanto la storia fosse assurda.

Ammirando le linee profonde della pelle tesa agli angoli della bocca e gli occhi opachi, il suo cuore comunicò col mio.

Aveva amato. L’aveva fatto sul serio. 

Non importava che l’oggetto del suo amore non avesse corporeità: lei lo vedeva, lo sentiva, gli parlava.

Quando qualcosa è così reale per te, importa che non lo sia per il resto del mondo? 

Mary sarebbe stata felice di vivere l’illusione: in un altro mondo, avrebbe avuto il suo matrimonio, il suo marito perfetto, tanti bambini da amare e coccolare. 

Invece il sogno era stato contaminato, deturpato per sempre: svelata l’illusione, la realtà era piombata prepotente nella mente e nell’animo di Mary, costringendola a fare i conti con la sua diversità.

I rumori della città che si risvegliava giunsero fino a quell’angolo di periferia e alla nostra panchina: premevano come un sottofondo vivo al di là delle mura perimetrali, squarciando l’incantesimo in cui eravamo avvolte.

Tornammo in qualche modo identità separate: l’anziana donna col suo amore impossibile, e io col mio amore perduto.

Per la prima volta da mesi non mi sentivo più oppressa, solo rassegnata, come se finalmente mi fossi svuotata delle incertezze, del dolore e dei dubbi che mi avevano dominata dal giorno dell’abbandono.

Capii di potere andare avanti, accettando qualunque cosa fosse venuta: era inutile perdere del tempo a sviscerare motivi e ragioni, le mie o quelle di Nathan: le cose erano semplicemente andate come dovevano andare.

Dovevo adeguarmi al fatto di essere impotente. 

Ora potevo smettere di attenderlo ogni giorno sulla soglia di casa, aspettando una telefonata, o di sentire la sua voce chiamarmi per nome.

Mentre rimuginavo su quelle cose, la donna si voltò, guardando alle mie spalle.

«Mi hanno trovata», annunciò con un sorriso birichino.

Seguendo la direzione del suo sguardo, scorsi un uomo affrettarsi verso di noi.

«Signora Mary, mi ha fatto prendere un colpo! Non mi ero accorto che fosse uscita di casa.»

«Non ti agitare Richard. Vedi che non è successo niente?» lo rimbeccò quella con una risata. «Ho fatto una passeggiata e ho anche fatto amicizia con questa simpatica giovane. Irma, questo è Richard, il mio badante.» 

Mi indicò con un cenno della mano.

Richard scosse la testa, dicendo: «Signora Mary, ci siamo solo io e lei qui. Sarà meglio tornare a casa, ora».

«Oh…» sospirò la signora. «Capisco», disse.

Mi sorrise con calore, ma io ero stata gettata nel panico.

«Non agitarti, cara», mi tranquillizzò stringendomi il palmo. «Anche tu sei un prodotto della mia mente, non è forse così?»

Nel momento in cui lo disse, di colpo compresi: io non ero reale. 

Ero sua, le appartenevo.

«Perché…?» sussurrai.

«Vorresti sapere cosa ci fai qui?» concluse come se non fosse la prima volta che affrontava quel tipo di discorsi. «Forse avevo solo bisogno di rivivere la mia storia. Ogni tanto mi succede.» 

Assunse un’espressione rassegnata.

Infine, quando mi guardò di nuovo negli occhi, capii anche io perché eravamo parte della stessa anima, sfaccettature di un’unica mente che agiva attraverso percorsi inconsueti.

Richard era rimasto pazientemente ad ascoltare lo scambio unilaterale della vecchia Mary: ormai era abituato alle sue peculiarità.

«Di chi si tratta questa volta?» le chiese, infatti, da esperto.

«Una giovane ragazza.»

«Perché l’ha creata?»

Mary si prese un momento, cercando le parole adatte a racchiudere la verità appena appresa.

«È colei che penso sarei stata se avessi condotto una vita normale... se io fossi stata normale», spiegò con gli occhi fissi nei miei. 

Poi proseguì dicendo: «A volte il mio animo è oppresso dai dubbi, Richard. Mi consolo per aver scelto l’amore di Michael,  pensando che avrei potuto incontrare un uomo qualunque, avere i problemi di una coppia qualunque e finendo per essere infelice e insoddisfatta». 

«Non mi è finita tanto male, non pensi?» aggiunse ammiccando.

«Se lei è stata felice, ne è valsa la pena», rispose quello saggiamente, il volto addolcito da un sorriso. «Ora è pronta a tornare a casa?»

«Che ne sarà di me?» intervenni allarmata. «Svanirò nel nulla, non appena avrai lasciato questo posto?»

La vecchia non perse tempo a riflettere sulla questione.

«Ormai sei nata e hai la tua storia. Puoi decidere tu stessa se scomparire o rimanere. Credo tu sia indipendente da me, perché rappresenti un percorso di vita che avrei potuto intraprendere ma a cui ho rinunciato. 

«Sei sempre stata un fantasma, una possibilità. Ma ora ecco: ti lascio la scelta, o magari la mia mente sceglierà per entrambe, chi può dirlo? Però credo che un po’ di posto ci sia sempre, in fin dei conti.»

Scegliendo di rimanere, capivo bene che sarei stata reale solo nella sua mente, vivendo la mia vita nei percorsi della sua psiche. 

Sarei stata vera o un’illusione, poco importava, ma avrei comunque condotto la mia esistenza, persino in questo regno di ombre.

Mi chiesi se anche Michael avesse compreso così chiaramente i termini di una simile scelta: aveva deciso di vivere per Mary perché rappresentava la parte di lei che desiderava essere amata incondizionatamente? 

Più ci riflettevo e più capivo che lui aveva rappresentato il desiderio della giovane ragazza di vivere una storia d’amore unica e assoluta, passionale e coinvolgente, indistruttibile e incorruttibile.

«Perché questo posto?» domandai a bruciapelo.

«Venivo spesso in questo parco», spiegò. «Su questa panchina ero solita passare i pomeriggi con Michael.»

Un’improvvisa folata di vento scosse le fronde degli alberi, precipitandone le foglie con un crepitio malinconico e scompigliando i lunghi capelli bianchi di Mary.

«Richard, credo che ora tu possa portarmi a casa, sono esausta», disse dopo qualche istante di silenzio.  «Ci vediamo, Irma. Mi trovi spesso da queste parti.»

La salutai con un cenno. L’avrei rivista o forse no: questo rimaneva da scoprire.

Mary e Richard si incamminarono per il viale, ma un dubbio insistente mi spinse a richiamare ancora una volta la sua attenzione.

«Volevo solo sapere… ecco, che fine ha fatto Michael?»

Lei sorrise. 

Un sorriso felice, appena accennato, che sapeva di segreti e di amore.

«Lui è sempre con me», rispose, perdendosi con lo sguardo nell’aria vuota. «Non mi lascia mai.»

Per una frazione di secondo mi parve di scorgere la sagoma di una persona al suo fianco. 

Scossi la testa e poi non li vidi più. 

Mi alzai, un po’ incerta sulle gambe, e mi fissai per un momento le mani, studiando la trama delle sottili vene sotto la pelle. 

Quando mi riscossi dai miei pensieri, puntai lo sguardo sul muro perimetrale: al di là di esso percepivo ancora distintamente i suoni di un mondo in movimento.

Non avrei permesso a quel muro di essere il mio limite, decisi.

Al contrario, sarebbe stato il mio inizio.

 
 

 

Note e curiosità sulla storia:
ATTENZIONE! SPOILER: Leggere solo alla fine.

♣ Creata per il contest "Destini". Dovevamo scegliere un pacchetto (io ho preso 'panchina'): ci sarebbe stata inviata una foto cui ci dovevamo ispirare per creare una storia d'amore, che recava anche l'anno in cui doveva essere ambientata (nel mio caso, il 1927, anno in cui ho fatto incontrare i protagonisti per la prima volta). Le regole erano che l'amore tra i protagonisti doveva finire per un errore, oppure per la paura di uno dei personaggi e non dovevano avere l'occasione di un lieto fine.
♣ Partecipa al contest "Amor, ch’a nullo amato amar perdona" ; pacchetto 3, Canto Terzo - Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro. Irma e Mary sono 'chiave' l'una per l'altra per comprendere aspetti della loro vita fondamentali. Da questo incontro si determina una crescita emotiva e risolutiva e, come si evince, un inizio per Irma che, libera dagli elementi che la opprimevano, può vivere serenamente una nuova esistenza. Il muro è invece una metafora attiva che descrive la situazione prima emotiva di Irma, ma poi anche esistenziale; inoltre simboleggia la separazione tra realtà e illusione, i limiti tra ragione e fantasia, ecc...

Irma è un'invenzione mentale dell'anziana signora, al pari di Michael: per questo il suo nome, in realtà, è l'anagramma di Mary. I pensieri di Irma, in realtà, potrebbero essere quelli di Mary, anzi, lo sono. 
♣ Parte di questo racconto è stato ispirato dal film A Beautiful Mind perché la protagonista si renderà conto che ciò che pensava fosse reale in realtà non lo è, ma ci sono molti punti che si discostano dal film, come per esempio il fatto che Mary vede crescere Michael col passare del tempo, ma solo fino a quando scopre che è un'invenzione della sua mente: dopodiché smetterà di farlo rimanendo bloccato nell'istante in cui per l'ultima volta lo credeva reale. Una volta rotta l'illusione, infatti, pur continuando ad alimentare le sue fantasie e vedendolo, non sarà più in grado di figurarselo da adulto e poi da vecchio.

 

   
 
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