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Autore: TealRue    25/06/2012    2 recensioni
Long-fic, post-Reichenbach falls: spoiler. A palate.
In futuro ci sarà dello slash. Sempre a palate.
Capitolo 1:
"Tutti i giorni si impara qualcosa" dicono le personcine ordinarie.
E, ogni tanto, hanno ragione anche loro.
Oggi, ad esempio, ho imparato che -se proprio voglio spararmi in bocca e cadere di schiena- devo prepararmi un materasso dietro.
Perché ovviamente domani mi verrà un bernoccolo gigante sulla testa. Poco sexy, insomma.
Genere: Generale, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, Jim Moriarty , John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Allora, questa è la mia prima long-fic, quindi, siate clementi. Questo più che il primo capitolo è il prologo. Il rating è arancione per la violenza della guerra e lessico: potrebbe cambiare durante il procedere della storia, però. Nel corso della storia si aggiungeranno sicuramente altri personaggi: ogni capitolo sarà dal punto di vista di un personaggio diverso.
Sherlock Holmes, John Watson e gli altri personaggi non mi appartengono e blablabla. Tutto merito di quel genio di Conan Doyle e degli altri due geniacci, Steven Moffat e Mark Gatiss.

 

 
 
Nausaea

 

 



 

Gli esseri umani sono straordinari. Seriamente.
Sono programmati per sopravvivere, proteggersi e ambientarsi.
Si perfezionano, gli esseri umani. Nel bene e nel male.
Diamine, se lo so. Sono un dottore. E ho visto la guerra.
Mi ricordo ancora tutto, veramente; non ho una grande memoria, ma il ricordo di quei giorni è marchiato a fuoco da qualche parte nella mia testa.
Anche i dettagli, Cristo, i dettagli, il sangue, il sudore, l'afa, la morte.

 

Il primo giorno, appena arrivato al campo, pensavo ancora a quante vite avrei salvato.
Sono saltato giù dal fuoristrada che mi aveva portato via dall'aeroporto e, improvvisamente, nella mia visuale è apparso un uomo portato in spalla da due compagni. Rosso ovunque. Ovunque. Un mitra lo aveva letteralmente ridotto a un colabrodo di sangue e urla. Non sembrava neanche più un uomo, no, era un ammasso di brandelli di carne, e di vesti strappate.
Cristo, sto male solo a ripensarci. Quando l'ho visto mi sono sentito svenire. E forse l'ho anche fatto.
Mi ricordo solo lo stupore: sono appena sceso dal fuoristrada e, bam! Il mondo che conosco non c'è più, non esiste e non è mai esistito, c'è solo l'incubo.
Il volto del ferito era una voragine, ma continuava a urlare. Senza bocca. Troppo rosso, troppo nero. Nessuno sembrava farci troppo caso, nessuno.
Continuava a gridare.
Mi ricordo di aver chiuso piano gli occhi sperando che sparisse: un attimo prima non c'era, era apparso di colpo, e speravo che sarebbe scomparso, una volta riaperti gli occhi.
Posso ancora vedere l'espressione del soldato che mi stava accompagnando.
Mi guardava, non era allarmato, né spaventato. Non c'era compassione, non c'era pietà.
Non c'era niente, avevo pensato allora, in quello sguardo.
Solo in seguito avrei capito quegli occhi. Per comprenderli bisogna conoscere tutta la guerra, il tempo che non scorre, il sangue che invece non vuole smettere di farlo.
E l'assoluta mancanza di senso della morte.
Era uno sguardo, posso dire adesso, stanco -sfinito-, vuoto, ma con una lieve traccia di disgusto e sarcasmo che sembrava volermi dire "Benvenuto all'inferno.".

 

Il secondo mese la vista dei massacri mi faceva girare la testa. Mi faceva vomitare, a volte, per la nausea che di colpo mi stringeva la gola.
Avevo capito che ogni vita salvata mi faceva rinascere un pochino, in quell'incubo.
Lo so, un medico non dovrebbe essere così egoista, giuramento di Ippocrate, e così via, ma bisogna avere qualcosa per cui andare avanti, nella guerra.
Se no ci si lascia uccidere. Veramente, non sto scherzando. Ho visto decine e decine di soldati che involontariamente e inconsciamente si sono fatti uccidere. Ho capito presto, per fortuna, che dovevo -e avevo bisogno di- concentrarmi sul mio lavoro e sui miei ideali.
Sono venuto perché sono un dottore, mi dicevo, sono venuto per salvare vite, la guerra non mi riguarda, non deve distruggermi.
Mi allontanavo spesso dal campo, per cercare vita tra le dune torride. Affondavo le mani nei mucchi di cadaveri per controllare il battito dei loro polsi. Che solitamente non c'era.
Mi fermavo, nei turbini di sabbia, accovacciato sui corpi, e speravo, pregavo di sentire qualcosa, oltre al calore che fuggiva, sentire il fremito della vita al di sopra delle urla dei mitra.
A volte passavo anche ore -ore intere- a controllare gli stessi corpi, sperando nel miracolo -un solo miracolo, Cristo- che non avveniva mai, finché non li sentivo diventare freddi.
Freddi come può essere freddo qualcosa nel deserto dell'Afghanistan.
Mi prendevano per idiota, al campo, e forse facevano bene.
Non ero pronto, per la guerra, ma ero andato comunque, povero idiota. "Povero Dottor Watson." sussurravano stanchi i soldati, quando tornavo vuoto e sudato da far schifo al campo.
Se lo mormoravano a vicenda; niente sospiri di pietà, compassione o angoscia.
Era un'affermazione, i soldati non regalano a nessuno la propria pietà. La conservano per se stessi, per il caldo, il caldo torrido, e i morti. Cadaveri, la sabbia li ricopre.
Nemici, compagni; la morte è la stessa per tutti e fa paura. Prima sei vivo, puoi parlare, ridere, pensare, poi, bum! Un mitra spara -non te ne accorgi neanche- e sei un sacco di carne.
È questo che fa paura.
Così si dicevano "Povero Dottor Watson.", ma non mi guardavano negli occhi, mai. Mi passavano un thermos. I loro occhi rimanevano incollati sulla linea ocra e sfocata dell'orizzonte.
"Povero Dottor Watson.".



Dopo un anno, mi sono accorto con orrore che la nausea non c'era più.
Anche fissando un uomo dilaniato da una mina, anche un soldato distrutto dai proiettili, Dio, niente!
In quel periodo, però, mi resi veramente utile, bisogna dirlo. Ne ho salvati tanti di uomini, in quei mesi.
Pieno d'energia, ecco cos'ero allora, costantemente sovreccitato.
Dormivo poco, ma non ero stanco; mi alzavo, andavo nella tenda dei feriti e controllavo tutti. Non avevo tempo per pensare, davo le medicine a tutti e me ne andavo.
Dopo seguivo i soldati e mi appostavo nelle zone strategiche, dove sapevo ci sarebbero stati dei feriti.
Ho imparato a sparare, in quel periodo, e a uccidere.
Ho anche imparato a soffocare i sensi di colpa, con giustificazioni stupide come "Se non l'avessi ucciso, avrebbe sparato a uno dei nostri".
Anche a sopprimere la voce, in fondo alla mia testa, che mi domandava "Sei un dottore, tu salvi le vite degli uomini. Vuoi forse dire che non tutte le vite hanno lo stesso valore?"
Quando tornavo al campo, ancora carico di energie e con uno sguardo distaccato, sentivo i soldati mormorare "Povero Dottor Watson.", sempre guardando l'orizzonte.
Avevano capito che stavo perdendo la ragione ancor prima che me accorgessi io stesso.
Mi sentivo lucido, io, mio Dio, se mi sentivo lucido.
Appena vedevo qualcuno cadere, mi precipitavo ad assisterlo, correndo accucciato tra i proiettili vaganti, e lo trasportavo al sicuro.
Mi sentivo pieno, eccitato. Ero un idiota.
Mi correggo, sono un idiota: Mycroft ha ragione, quando dice che mi manca la guerra. Del resto, è mai capitato di vedere un Holmes sbagliare? Be', zucchero di Baskerville a parte.
Mi bastava il mio lavoro, mi bastava salvare vite. Mi bastava avere la coscienza a posto.
Era diventata una strana droga -o anestetizzante-.
La paura non era scomparsa, era semplicemente diventata un'altra. Era paura di perdere me stesso, paura di diventare un mostro.
Paura di denaturarmi completamente.
In parte l'avevo già fatto, a furia di ripetermi: io sono qui per curare, per guarire, la morte non mi riguarda. La morte NON mi riguarda.
Me l'ero cantilenato come un mantra per mesi e mesi e alla fine ero riuscito a convincermi. La nausea non c'era più.
La cosa strana è che sapevo benissimo che non era vero. La morte non mi riguarda.
La morte era ovunque, lì, la si poteva respirare.
Gli esseri umani sono straordinari, ribadisco: se non fossi riuscito ad auto-convincermi, ad adattare la mia mente a quelle condizioni, probabilmente mi sarei ucciso. Veramente.
Sono un dottore, sono un dottore, salvo persone, sono un dottore, sono un-
Così mi sentivo in pace con me stesso, non avevo più la nausea; la morte non mi riguarda e io punto solo alla vita.
Sarei andato avanti così se non mi avessero sparato.
È solo in quel momento che -Dio, che idiota che ero stato prima- ho capito che la morte mi riguardava eccome.
Ho capito che potevo anche essere diventato in un soldato, ma che la guerra mi avrebbe distrutto.
Avevo imparato a sparare, a sopportare il caldo e la vista del -tanto, troppo- sangue. Ma il dottore, quello che, uscito dall'università, aveva deciso di aiutare la gente, dov'era finito?
Avrei potuto benissimo fermarmi là in Afghanistan, me lo avevano anche proposto. Un lavoro ovviamente meno pericoloso, nelle retrovie; serve sempre gente nelle retrovie.
Non ho accettato, per fortuna.
Me ne sono andato per paura di non aver più paura.

 

Sono tornato a Londra, ho ricominciato. Veramente, da capo.
Sono felice di averlo fatto, perché ho incontrato lui.
Quell'insopportabile e amabile rompiballe di Sherlock Holmes.
Non dico che durante quella che io ormai tendo a chiamare 'la mia nuova vita nell'appartamento a 221b di Baker Street, sì, quella in cui rischio di essere ammazzato un giorno sì e l'altro no da criminali psicologicamente disturbati' non abbia mai pensato alla guerra.
Anzi; gli incubi, ad esempio, non mi lasciano mai. Sono sempre diversi: a volte ci sono sangue, urla e morte; altre volte sogno di guardarmi allo specchio e di trovare nel riflesso il mio volto sogghignante sporco di sangue. Alcune volte sogno semplicemente sabbia, infinita sabbia.
Di giorno, poi, mi perseguitano il dolore alla spalla, la gamba traballante, e il tremito della mano.
Ma questi problemi -anche gli incubi-, come posso dirlo, sono solo fantasmi.
Non è più "la Guerra": la Guerra è un mostro vivo, vivissimo, con gli artigli sporchi di sangue. La Guerra che in poco tempo mi aveva fatto impazzire.
La Guerra è terrore vivido, non so se mi spiego, è palpabile.
Gli incubi, il dolore fisico; sono solo... ombre.
Da qualche mese, mi fa molta più paura aprire il frigorifero -chissà quante teste umane ci ha messo dentro Sherlock, questa volta- che pensare all'Afghanistan.

 

Ma oggi è tornata, di colpo.
Dopo tanti anni, rieccola. Dio mio, la nausea, quella nausea!
E il sangue, quello del poveraccio che ho visto il primo giorno al campo. Cristo, sembra lo stesso.
Troppa nausea, mi sento svenire.
Perché sopra quel sangue c'è lui.
Non c'è un soldato che il giorno prima ha mormorato "Povero Dottor Watson.". C'è lui.
Improvvisamente tutti quegli anni di "sono un dottore, sono un dottore, la morte non mi riguarda" scompaiono; non riesco a trovarli dentro di me; non ci sono mai stati?
Probabilmente mi stanno sanguinando le ginocchia, l'asfalto della caduta di prima me le ha bruciate. Ma, Cristo, il suo sangue.
C'è della gente intorno a lui, non riesco a vederlo, ma il suo sangue, CRISTO.
"Sherlock... Sherlock..."
Non è lui. Non sei tu. Ahah. Me l'hai fatta ancora, eh? Scommetto che se adesso mi avvicino, lì ci trovo Moriarty, vero?
Perché TU NON PUOI ESSERE MORTO. La gente muore, ma tu, TU, non sei la gente.
Sei Sherlock Sono-un-fottuto-genio Holmes.
Oddio, no, la nausea, quella nausea.
"Sono un dottore, sono un dottore, lasciatemi- lasciatemi passare. Per favore."
La gente non si toglie, mi trattiene, maledizione! Mi faccio largo, mi getto sul tuo braccio, mi sta tremando la mano, no, il tuo polso; è così freddo.
"È mio amico. È mio amico... per favore."
Oddio, oddio. Il sangue è troppo. Il polso, non ha battito, è già freddo. È già freddo. Lo stringo di più; la vita, dov'è la vita?
Cerco il rumore dei mitra, ma non lo trovo. Solo la gente che urla.
Il polso, lo stringo, prego, supplico, il mio miracolo, dov'è il mio miracolo?!
Qualcuno mi strappa via dal tuo polso.
DIO, la nausea, non riesco a stare in piedi, le mie gambe non reggono, non puoi essere tu, non puoi essere tu, la morte non ti riguarda-
"Per favore, lasciate solo che-"
Qualcuno mi sorregge, troppa nausea, troppa.
Arriva un uomo, con una barella, che lo gira e, oddio no, non possono portarti via, non puoi essere morto.
Quegli occhi e quel sangue. Dio, sono i tuoi occhi, così chiari. Rigati di sangue.
Troppo rosso, troppo nero.
"Oh, Cristo. No. Dio, no."
Lo dico piano, con la voce impastata, mi ronzano le orecchie, adesso li sento, i mitra, che ronzano. Lo so che non ci sono, ma li sento lo stesso.
Mi tengono, non mi lasciano cadere, sto svenendo.
Se ne sta andando. Lo portano via in barella, non c'è più.
Se n'è andato.
Sherlock.

Se n'è andato.




Note dell' idiota autrice:

Il titolo di questa storia è il titolo di una raccolta di poesie di Raymond Carver. Si riferisce, però, anche al titolo dell'episodio "Reichenbach falls/Cascate di Reichenbach": in questa storia tutti i personaggi cercheranno "un nuovo sentiero verso la cascata" da cui sono metaforicamente caduti nell'ultimo episodio con la "morte" di Sherlock.
Spero che vi piaccia, anche perché per scrivere questo capitolo ho sputato l'anima, veramente. XD

Grazie a tutti quelli che sono arrivati a leggere fino a qui.
Non mi aspetto recensioni perché ormai sono disillusa da questo punto di vista, ma, se qualcuno ne lasciasse una, sappia che la mia autostima lo ama alla follia. 8D

  
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