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Autore: elans    25/06/2012    3 recensioni
Arwen, stufa di stare ad ascoltare le previsioni catastrofiche di suo padre sull'impresa di Aragorn, parte per Chicago insieme ad Elizabeth Swann, che, da quando ha visto partire Will, è stanca della sua vita. La dragonessa Saphira dovrebbe "completare il suo addestramento, rafforzare la sua relazione col Cavaliere etc.", ma si è innamorata di Legolas. E Voldemort? Lui, poveretto, è caduto in depressione quando Harry Potter ha tentato di ucciderlo, e si consola con Queer As Folks.
Volevo scrivere una long impegnata e incasinata a tema ribellioni al destino, fughe precipitose che non riescono a tagliare i legami col passato ma anzi li rinforzano e personaggi stravolti. Non ci sono riuscita ed è venuta fuori questa.
Storia sospesa a tempo indeterminato. Le sono molto affezionata e non voglio abbandonarla, ma al momento non riesco a portarla avanti. Grazie comunque a chi la segue/legge!
Genere: Commedia, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Arwen
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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003. When the night is cloudy
 
Sabato, 3 febbraio. Ore 04.10
Black Angel, nightclub equivoco.
Chicago, USA

“Vedi, lord Voldemort?” ansimò Elizabeth, spalancando la porta con un calcio per ritrovarsi in un cortiletto angusto e invaso da sacchi di rifiuti. “Ecco cosa provano i buoni quando scappano.” Una ventata gelida le scompigliò i capelli e lei, per non perdere l’equilibrio, dovette aggrapparsi alla ringhiera di metallo consumato che dondolava tristemente intorno alle scalette che conducevano al cortile.
Liz sentì Colui-che-non-può-essere-nominato dire qualcosa di poco lusinghiero a proposito delle Babbane, in particolare di quelle con due tette convesse e un passato da filibustiere.
Pochi minuti prima, un esercito di imberbi Auror, rappresentanti di una sorta di FBI del mondo magico, era piombato nel nightclub in cui Arwen ed Elizabeth stavano lavorando. Probabilmente si erano resi conto che quell'Oscuro Signore che per decenni aveva reso loro la vita impossibile, Voldemort, non era proprio morto morto, e veniva ospitato da qualche malvagio babbano; quindi lo stavano cercando. Quello di cui non si erano resi conto era che il suddetto Oscuro Signore aveva adesso le sembianze di uno scoiattolo, e possedeva gli stessi poteri magici di Bob Aggiustatutto. (Quando lo aveva visto nascosto nel tubo di una grondaia per difendersi da un malefico piccione, su un lungo e deserto vialone di Chicago, Arwen non aveva potuto fare a meno di accorrere in suo aiuto, e così Voi-sapete-chi era diventato la mascotte dell'angusta stanza di motel in cui lei ed Arwen alloggiavano.)
Cosa avesse spinto le due oneste lavoratrici e Saphira, loro ospite in forma umana, a tentare di salvarlo per la seconda volta anziché consegnarlo alle autorità e magari beccarsi anche una ricompensa non era chiaro; il succo era che, adesso, avrebbero dovuto trovare un posto dove fuggire, e in fretta. Lord Voldemort, dal canto suo, era aggrappato spasmodicamente alle pareti di stoffa della tasca del cardigan di Elizabeth, e nonostante fosse il diretto interessato, ovvero quello che gli Auror avrebbero fulminato per primo, non si faceva venire in mente nessun piano.
Dopo quattro lunghi anni di malvagia pirateria, Elizabeth sapeva come andavano le cose, e il fatto che fossero passati tre secoli dai suoi, ehm, "commerci marittimi" non le faceva certo pensare che il sistema giudiziario avesse fatto passi avanti: l'impavido maghetto che le avrebbe raggiunte sarebbe stato troppo impegnato a salvare il paese per ascoltare le loro ragioni.
“Wen, non ce l’abbiamo, un piano?” chiese Saphira, facendosi largo tra i sacchi dell’immondizia gettati nel cortile interno del night. Era l’unica a indossare scarpe basse, e il suo abitino a fiori sventolava nella brezza della sera, accarezzandole le gambe. Si strinse nelle spalle.
Arwen si voltò. “Ma certo. Adesso ci fermiamo in un luogo lontano da orecchie indiscrete e aspettiamo i giovanotti. Quando arriveranno, io spiegherò loro le nostre ragioni con affabilità e fermezza. Ho studiato retorica elfica per centoquattro anni, sapete. E nulla da togliere al vostro sistema aggressivo di stampo ciceroniano basato su quelle aggressive propositio e peroratio, ma i nostri discorsi sono sempre meno rumorosi e più efficaci” ammiccò l'elfa, assumendo il cipiglio da vecchio professore che ormai Elizabeth aveva imparato a temere. “Attaccarli non è una buona idea. Non vorrei che facessero troppo baccano, sapete, quei giovani.”
Ecco, pensò Elizabeth. Una bella pallottola dritta tra le budella sarebbe stata la cosa migliore, ora come ora. C’era uno stuolo di maghetti inferociti che non vedevano l’ora di far fuori lo stronzo che aveva seminato il terrore nel loro mondo per decenni, e Arwen come pensava di convincerli? Con un discorsetto pieno di paroloni in latino, elfico e sanscrito bbharsi. La interruppe: “Non ci ho capito niente ma non importa, Arwen, perché prima che tu posta dire 'Helenselatiraperchéèunelfo'...”
“'Elen sila lumenn omentielvo'” la corresse l’elfa. “Vuol dire 'una stella brilla sul nostro incontro'.”
“Corpo di mille balene sventrate e messe sotto sale, Arwen! L’unica  cosa che brillerà tra poco sarà il lumino sulla tua tomba! Lo capisci che se ci daranno una possibilità sarà solo grazie alle tue tette?”
Arwen lanciò un’occhiata offesa al proprio corsetto.
Dal corridoio squallido e appiattito dalle luci al neon che avevano appena percorso cominciarono a provenire grida affannate. Finalmente, la fredda lucidità dell’animale braccato che congela ogni eroe che si rispetti prese piede nella mente di Liz.
Will si sarebbe scagliato dentro alla cieca e avrebbe cercato di ucciderli tutti. Ma Will non c’era.
Bisognava pensare. Pensare, e in fretta, a un piano assurdo.
“Ora apri quelle orecchie a punta” disse in fretta. “Seguiranno quella che si porta dietro Voldemort. Quindi va’ al motel, ficca più roba possibile in una borsa (mi raccomando, non ti dimenticare Jude Law) e fatti trovare al porto, vicino a quel negozio orribile di articoli da pesca che abbiamo visto l’altro giorno, tra mezz’ora, capito? Non un minuto di più. Corri.” Le puntò addosso il più granitico dei suoi sguardi da Re dei Pirati.
Arwen annuì. “Bene, ma prima dammi la pochette.”
“Sbrigati.” Elizabeth estrasse dalla tasca la minuscola borsa a forma di rosa di Arwen, senza capire, poi prese la mano di Saphira e imboccò l’unico, minuscolo vicolo che faceva capolino tra le pareti scrostate delle case.
Con la coda dell’occhio, vide Arwen estrarre dalla pochette un lungo mantello nero e gettarselo addosso, per poi afferrare la grondaia e balzare, leggera e silenziosa come una gatta nonostante i plateau, sul tetto.
Che donna.
In quel momento, la porta di ferro si spalancò con violenza, facendo cadere a terra una pioggia di vernice scrostata. Dopo qualche secondo di silenzio, rotto solo dal rumore dei tacchi di Elizabeth che aggredivano malfermi la strada mentre lei correva a perdifiato, gli Auror trovarono il vicolo e si lanciarono verso di loro.
Liz e Phi svoltarono bruscamente in uno stradone più ampio. “Le mie scarpe” sussurrò l’ex piratessa, fermandosi di colpo. “Puoi crearmi un diversivo, Phi? Mi rallentano troppo, e fanno rumore.” Si chinò e se le tolse, abbozzando una smorfia quando sentì l’asfalto umidiccio solleticarle la pianta dei piedi.
Phi annuì e si voltò. Un cestino della spazzatura prese fuoco, e le fiamme si propagarono tra loro e gli Auror.
“Sì, diciamo che come diversivo magico poteva andare” commentò con sufficienza Voldemort.
“Voldemort, non devi parlare! Ecco. Se avevano qualche sospetto sulla tua presenza, adesso non hanno più dubbi. Gesù, non poteva sparirti la bocca invece che il naso?”
“Dove stiamo andando?” chiese Saphira. Il petto le sobbalzava sotto il vestito ad ogni suo respiro.
“Dall’antiquario, Saphira” rispose lei.
“Dall’antiquario?” ripeté Phi, basita. “Ma non è una specie di robivecchi? Eragon dice che vendono solo paccottiglia.”
Al nome di Eragon, Elizabeth sentì il petto stringersi nei sensi di colpa. Se Saphira fosse morta, l’Alagaesia… “Devo trovare una cosa, non ho tempo di spiegarti. Ascoltami bene, Phi, il negozio è tra due isolati. Quando ci arriveremo, io ti metterò in tasca Voldemort e tu cercherai di confonderli. Gira in tondo, arrampicati sui tetti, fai esplodere una finestra, non m’importa come. Puoi metterti in contatto con Arwen, telepaticamente?” Le sembrava che il cuore stesse per scoppiarle nel petto, e che le sue caviglie fossero diventate due blocchi di pietra. Guardò Saphira dritta negli occhi per essere sicura che la stesse ascoltando con la massima attenzione. Al suo cenno d’assenso, riprese: “Allora fallo. Voldemort ai tempi d’oro era un esperto, lui può aiutarti. Di’ ad Arwen di raggiungerti, e passale lo sciuride. Non devi ammazzare nessuno, è fondamentale che rimaniamo dalla parte della ragione. Intesi?”
“E se qualcosa dovesse malauguratamente andare male?”
Liz aprì le braccia. “Salvati la pelle.”

 
A quel punto era necessario, assolutamente necessario pensare all’oggetto della sua ricerca. Dove poteva essere, all’interno del negozio?
Elizabeth tornò col pensiero ad una mattina afosa della settimana precedente.
Alla luce piatta e soffocante di mezzogiorno, le strade di Chicago le erano sembrate lo sfondo rumoroso di un romanzo di Kerouac, uno dei pochi autori moderni che Liz non trovava alienante e privo di senso. Quando erano scese dall’autobus, una vecchia carrozzeria sbuffante dalla vernice sbiadita color giallo canarino, il vento aveva sollevato il suo vestito preferito, un prendisole azzurro di stoffa leggera che lei ed Arwen avevano comprato in un negozio dell’usato non appena arrivate a Chicago.
L’elfa sapeva già dov’era l’antiquario e procedeva sicura, seguita dalla brezza che gonfiava il suo scialle argentato. “Sei sicura che fosse quello?” continuava a chiederle Elizabeth, in fibrillazione. “Sei sicura?”
 “Sì, Liz, sono quasi sicura che fosse la stessa melodia di cui tu mi parlavi.” Arwen le aveva puntato addosso uno sguardo da vecchia, calmo, pacato.
Elizabeth aveva guardato i piedi dell'elfa avanzare l’uno davanti all’altro sul marciapiede consumato. Era incredibile, aveva pensato, come la propria speranza di ex piratessa, che avrebbe dovuto essere morta stecchita da trecento anni, le scompigliasse i capelli insieme al vento di mare, le pulsasse ancora nelle vene con dolorosa urgenza – mentre quella di Arwen, il cui futuro era ancora da scrivere, taceva  ormai morta e malinconica sul fondo della mente polverosa e sovraffollata di ricordi dell’elfa. C'erano troppe cose che non sapeva sulla Terra di Mezzo e su Arda, l'universo in cui l'elfa viveva.
Il nome del negozio era composto in lettere adesive di uno scialbo rosso scuro sulla vetrina del locale. Al di là dello spesso strato di vetro opaco c'era una distesa di chincaglierie ammassate senza una logica apparente: vecchi mappamondi, abat-jour ingialliti, divani in stile liberty di legno scheggiato. Quando Liz aveva spinto la porta, il trillo di una campanella era rimbalzato su ogni singolo oggetto.
Arwen aveva salutato con un sorriso. “Buongiorno, signor Semel. Questa è l’amica di cui le parlavo, Elizabeth.”
Il signor Semel non sembrava affatto un vecchio antiquario. Non dimostrava nemmeno quarant’anni, aveva il volto appena increspato da sottili rughe d’espressione e teneva una sigaretta bianca e sottile tra due dita. Un’ispida barba brizzolata gli cresceva sul mento.
Liz gli aveva stretto vigorosamente la mano e poi aveva ripreso a guardarsi intorno. Un cassettone barocco identico a quello del negozio si trovava nella sua vecchia stanza nella casa di suo padre, il Governatore, a Port Royal. Doveva essere stato arrostito durante l’incendio che la ciurma di Barbossa aveva appiccato qua e là nella notte in cui l’avevano rapita. Allora lei non conosceva Jack e non sapeva che Will l’amava. Pensava che sarebbe andata in moglie al noioso commodoro Norrington, pace all’anima sua. E guarda che fine avevano fatto tutti. Will chissà se era ancora vivo, da qualche parte nel mare che si stendeva placido davanti a Chicago. Jack era stato brutalmente tagliato fuori dalla vita di Elizabeth per non ricordarle la vita che avrebbe potuto avere se avesse smesso di corrodersi per Will. La vecchia spada del commodoro giaceva da qualche parte a sud, in fondo al mare. Le ossa del suo proprietario dovevano essersi ormai dissolte.
Nella bottega dell’antiquario, Elizabeth aveva sorriso tra sé e sé al ricordo degli stralunati giorni post-Sparrow.
Quando Elizabeth aveva finalmente fatto ritorno nella sua camera da figlia del Governatore, dopo essere riuscita a sventare l’impiccagione di Jack e farsi concedere dal padre il matrimonio con Will (una conquista per la libertà della donna e un Armageddon per le finanze e la reputazione del signor Swann), il palazzo era stato ormai ripulito, e quasi del tutto rimesso in sesto. Certo, mancavano qualche quadro e un numero piuttosto cospicuo di gioielli, e c’era un alone chiaro sulla tappezzeria risistemata alla bell’e meglio, dove prima si trovava il cassettone: gli unici strascichi dell’avventura che avrebbe cambiato la sua intera vita.
In quella tiepida notte settecentesca senza clacson né fanali, la Elizabeth di allora, distesa sul letto nella sua nuova vestaglia bianca secolo Diciottesimo, aveva fissato a lungo la macchia bianca lasciata dal cassettone. Le ultime scintille di adrenalina sfrigolavano ancora nel suo stomaco, sotto la sua pelle, e l’aveva presa un’assurda nostalgia del ponte sudicio della Perla Nera, delle corde ruvide delle vele. Dopo essersi trovata a un punto dalla morte, la routine quotidiana le era sembrata una scialba brutta copia della vita. Avrebbe dovuto immaginarlo: il canto delle onde, che parlavano di avventure e lavavano via la linea nera che separa l’uomo dalla follia, non avrebbe più abbandonato le sue orecchie.
Poi ci sarebbero stati Cutler Beckett, l’Olandese Volante, il forziere fantasma, il cuore di Davy Jones e la spada nel petto di Will. Ma la Elizabeth con la vestaglia bianca secolo Diciottesimo non lo sapeva. Immaginava solo gesta eroiche, cannoni e sale sulle labbra. E forse anche un vestito da sposa.
Persa tra le anticaglie del negozio, la Elizabeth col prendisole azzurro  ci aveva messo un po’ a capire che la melodia che stava ascoltando non era solo un’altra delle sue fantasie che sconfinavano nell’allucinazione: la musica era reale, anche Arwen e l’antiquario la stavano udendo. Note dolci e malinconiche si succedevano in tre quarti, quasi un valzer lentissimo ed esitante, accompagnato dal ticchettio degli ingranaggi che il signor Semel aveva messo in moto girando una manovella rugginosa.
Liz si era voltata di scatto: era quello l’oggetto che cercava, senz’ombra di dubbio.
L’elfa le aveva rivolto un sorriso di quieta soddisfazione, che però era scemato non appena il signor Semel aveva letto l’ultimo zero del prezzo. Avevano tentato di trattare, ma l’antiquario era stato irremovibile: un pezzo unico e molto fragile, risalente all’inizio del Seicento circa (Elizabeth si era trattenuta dal puntualizzare che la datazione era più antica di almeno vent’anni); a nulla erano valsi gli sguardi ammiccanti di Liz e la scollatura di Arwen, così erano state costrette ad assicurargli che sarebbero tornate non appena avessero avuto a disposizione quattrocento dollari.
“LIZ! Ma ci siamo o no?”
La Elizabeth con la vestaglia bianca e quella col prendisole azzurro scomparvero entrambe nella notte gelida. Saphira fissava la Liz presente col il volto imperlato di sudore.
Elizabeth le prese la mano e svoltò di scatto in un vicolo, per intricarsi in un dedalo di stradine secondarie e malsane. Doveva fare in modo che per Phi fosse più facile disperdere gli Auror: l’ex dragonessa, più agile in cielo che sulla terraferma, aveva il respiro affannoso e incespicava in una corsa disordinata che la mandava a sbattere contro le pareti ruvide delle case.
Le grida degli Auror si fecero infervorate e più vicine.
Il vicolo da cui stavano per uscire faceva angolo con l’Avenue in cui si trovava il negozio dall’antiquario e con altre due strade secondarie. Fu proprio da una di esse che  apparve, repentinamente, il corpo robusto di un ragazzo poco più che adolescente, in jeans e felpa. Elizabeth notò con malferma lucidità la bacchetta nella sua mano.
Con quello scatto fulmineo che non s’impara se non a forza di fronteggiare spade, Elizabeth alzò una delle scarpe che aveva in mano e gliela scagliò addosso; con l’altra mano, ficcò Voldemort, che sembrava sul punto di esplodere dal terrore, nella tasca del vestito a fiori di Saphira.
La scarpa di Liz non aveva colpito il baldo giovane, ma era insperatamente finita dritta dritta sulla bacchetta del suo compare appena arrivato, che aveva guardato il plateau attaccato alla punta della sua arma di distruzione di massa con aria piuttosto disorientata. Elizabeth approfittò di quel momento per spingere Saphira nel viale e mettersi a correre  nel senso contrario, verso il negozio. Udì i passi della ragazza-drago allontanarsi dietro di lei, e sperò che la confusione che aveva letto nei suoi larghi occhi si dissipasse in fretta.
Alle sue spalle, un lampione fu colpito da un lampo di luce azzurra, ma non andò in frantumi; semplicemente, si spense.
 
 
Arwen guizzava di tetto in tetto con l’attenta rapidità che aveva acquisito da piccola, quando giocava sugli alberi. Le piaceva ammirare il sole che faceva capolino tra le foglie. La sua vecchia terra, verde e lontana.
I suoi pensieri elfici stavano assumendo una piega molto poco elfica. Così poco elfica che, nel formularli, era stata tentata di usare la squallida e insipida lingua inglese che parlavano a Chicago, dato che in nessun altro idioma a lei noto, nemmeno nel Linguaggio Nero, quello che usavano gli scagnozzi di Sauron per dare ordini ai sottoposti, c’erano parole abbastanza forti da esprimere le sue sensazioni.
Era intrappolata in mezzo agli uomini, senza via di scampo. Che rimanesse a Chicago o in America o in qualsiasi altro caotico sudicio antro di immondizia e smog a cielo aperto di quella terra, o che tornasse a Granburrone a guardare un punto sul soffitto e aspettare che le sue foreste bruciassero tutte, le cose non sarebbero cambiate: sarebbe rimasta intrappolata tra gli uomini.
E gli uomini - si scoprì a pensare Arwen - gli uomini, permettetemi di dirlo, o Valar che abitate i Rifugi Oscuri, sono…
Come avrebbe detto suo padre, deboli e inetti.
Come avrebbe detto Elizabeth, sacchi di merda.
…esseri rovesciati dalle passioni e quindi destinati a fallire.
Una voce cattiva nella sua  testa le ricordò che anche lei si era lasciata rovesciare dalle passioni e aveva probabilmente fallito.
Arwen fece appena in tempo a schivare la punta alta di un lampione, prima di accorgersi che i suoi calcoli erano sbagliati e che era sul punto di schiantarsi contro un muro.
Riuscì ad aggrapparsi con le dita alla grondaia viscida, prima di sentire il proprio corpo sbattere contro l’intonaco ruvido. E che vi ho detto degli uomini? Non sanno nemmeno fare un muro liscio. Questa vernice FA SCHIFO. A Granburrone le pareti erano di… Ed io sto per cadere dal quinto piano di una casa. Così finì la bella Arwen Undomiel. Tutto per colpa di qualche stupido architetto umano che se ne intende di urbanistica come io mi intendo del metodo riproduttivo degli Uruk-hai. Ma porco di quel...
Improvvisamente si sentì pervadere da un’antica, elfica calma. Una voce monocorde e mormorante, ma per Arwen familiare, raggiunse le sue orecchie a punta.
Bambina mia, ma che parole dici? Quella città ti ha rovinata. Afferra la mia mano. Torna alla luce.
Le dita di Arwen affondarono nel soffice manto erboso di una foresta. Lothlòrien. I suoi occhi elfici cominciarono a distinguere, nella luce bianca che li inondava, le vesti candide e leggere della Dama dei Boschi fluttuarle davanti agli occhi.
In cuor suo Arwen sapeva che stava vivendo un’illusione, e che in realtà era ancora aggrappata al tubo di una grondaia, ma apprezzava il pensiero di Dama Galadriel, sempre pronta ad aiutare con i suoi saggi consigli gli amici in difficoltà. Quindi è così che ci si sente quando si vede un'apparizione, pensò. (Arwen era sempre stata quella che appariva, mai quella che vedeva l'apparizione.)
Nonna? chiamò Arwen in elfico. Finalmente. Temevo per la tua salute. È più di un mese che non odo la tua voce… (Il che, tradotto dalla sua lingua Sindarin fin troppo politically correct, significava: Porca miseria, nonna! Avresti anche potuto farti sentire, eh! Ma non lo capisci che razza di periodo di m…)
Arwen Undomiel, Stella del Vespro, non ti crucciare, rispose saggiamente l’antica voce di Dama Galadriel. Arwen cominciava a vederla chiaramente, bionda e splendente della luce del suo anello. Questi tempi bui impegnano me, il mio anello Nenya e…
Anello Nenya un corno, avrebbe detto Elizabeth. Sì, nonnina, ho capito, fece Arwen in tono condiscendente.
Dama Galadriel si fece minacciosa e cominciò ad assumere un colorito verdastro che non prometteva nulla di buono. Arwen vanimelda, carissima, mi chiamo Artanis Nerwen Alatariel Galadriel Dama del Galadhrim, quindi, piccola mia, puoi capire quanto l’appellativo di nonna mi dia fastidio. (Traduzione: Nipote degenere, fammi sentire vecchia un’altra volta e farò un tale casino che anche Sauron invocherà la sua mammina e andrà via dalla Terra di Mezzo a saltelli, con la torre e tutto.)
Perdonami, Dama Galadriel, disse Arwen.
Ad ogni modo, proseguì Artanis Nerwen Alatariel Galadriel Dama del Galadhrim, se non mi sono fatta sentire è stato per ragioni di forza maggiore. Vedi, le tenebre si ottenebrano, come disse il saggio poeta antico…
Arwen non riuscì a contenere i propri pensieri. Abbi pazienza, NONNA, ma sono attaccata a una stupida viscida grondaia in una stupida città fumosa e sinceramente non me ne importa assolutamente nulla del saggio poeta antico il quale comunque, di sicuro, non può essere più antico di TE!
Neanche Dama Galadriel ci riuscì. Abbi pazienza tu, NIPOTE, ma fino a prova contraria l'imbecille decrepita spilungona bionda che è rimasta qui a guardare la sua era che finisce, quella stupida vecchia che prima o poi sarà costretta a lasciare la sua terra – e tra parentesi, che razza di Terra di Mezzo sarà senza elfi, io e Nenya non ce lo immaginiamo nemmeno a piangere – insomma, quell’imbecille sono IO! Pensavo che tu non volessi avere più niente a che fare con questo mondo, che ti fossi nascosta in quello stupido continentello cretino per fuggire dalla tua vita! Insomma, Arwen, non avevo il coraggio di vederti stravaccata davanti a quell’abietta scatola di cavi, a quella trasmissione di stolti che pensano che nel 1300 il caffè venisse frullato [“Jersey Shore”, N.d.A.]. Ti immaginavo in un McDonald’s, a friggerti lo stomaco nella Coca-cola e ingozzarti di panini al gusto di topo morto fingendo che fossero pan di via! E tutto questo mi dava il voltastomaco, e lo sai perché? Non solo perché la mia bambina se l’era data a gambe e io ero rimasta sola a vedere la mia nave metaforica affondare, ma anche perché - perché come credi che diventerà questo mondo meraviglioso quando la stirpe elfica non ci sarà più, eh? Per la grazia dei Valar, Arwen!
La coscienza di Dama Galadriel catapultò Arwen in una discoteca e le mise davanti l’immagine di un uomo in tutto e per tutto simile ad Aragorn che appioppava una gomitata al compare indicando una ragazza bionda pericolosamente simile a Eowyn di Rohan e dicendo “is too young for you, bro!”. Colta dall’orrore, riuscì a malapena a sentire sua nonna ansimare in tono apocalittico: SNOOKI, Arwen. Una delle tue discendenti potrebbe chiamarsi Snooki.
Arwen boccheggiò.
Era sempre stato così: proprio quando le sembrava di essere riuscita a trovare un momento di serenità e a nascondere in un angolo della mente un problema che la opprimeva, sua nonna usciva fuori e le rovesciava addosso il doppio dell’angoscia. Ma in duemilasettecento anni di vita non si era mai sentita così male.
Le due Dame rimasero in religioso silenzio per qualche attimo.
E ora? chiese Arwen un po’ stolidamente.
Dama Galadriel si scostò una ciocca chilometrica di capelli biondi dal volto con aria nuovamente ferma e decisa. Ora? Beh, ora tu salvi la vita a quella scapestrata della dragonessa, perché – e qui assunse il tono severo che usava per rimproverare la Arwen bambina che fracassava i piatti del servito buono – non è che se il nostro mondo sta andando a scatafascio dobbiamo lasciare che anche gli altri naufraghino, intesi? Io invece tengo nascosta a Elrond questa nostra piccola conversazione. E prego in ginocchio il mio Specchio di piantarla con le immagini deprimenti e di sparare a tutto volume quella bella canzone rilassante che ha inventato un giovanotto con la chitarra a Londra, l’altro giorno.
Prima o poi lo Specchio di Galadriel si sarebbe stufato di fare da giradischi alla sua padrona, Arwen ne era sicura.
Le verdi foglie di Lòrien salutarono Arwen con il loro fruscio mormorante, e l’elfa vide la radura dissolversi intorno a sé, mentre la voce melodiosa di Dama Galadriel si univa a quella registrata di un giovane Paul McCartney nel cantare Let It Be.
Si ritrovò seduta sul tetto sotto il cielo umido di Chicago, intirizzita fin nelle ossa.
Che peccato, pensò mentre si rimetteva a correre, si era dimenticata di chiedere di Aragorn.
Poi si accorse di un dettaglio infinitamente peggiore, amaro come cenere in bocca.
O meglio, il dettaglio era stato chiaro fin dall'inizio, ma lei non se n'era ancora resa bene conto: lo scenario terrificante che nonna Galadriel le aveva descritto non si sarebbe realizzato in caso di vittoria di Sauron. Sarebbe diventato vero se avessero vinto gli uomini, i buoni.
 
 
Elizabeth corse nel buio. Tutti i lampioni si erano spenti, e lei non riusciva, alla luce della tremula falce di luna appesa nel cielo, a distinguere le sagome che le si paravano davanti. L’insegna accesa di un discount alimentare, a un centinaio di metri da lì, proiettava la sua faccia squallida per terra. Era sicura che il negozio dell’antiquario fosse vicino.
Una merceria, un negozio di articoli da regalo, un bar sprangato, una tabaccheria…
Finalmente, la sagoma scura del cassettone si profilò al di là di una vetrina. Oltre le lettere rosse che recitavano il nome del signor Semel, la distesa di oggetti antichi sembrava un’unica montagna nera.
Si guardò intorno. La strada, buia e lucida, era vuota; un ubriaco russava pacificamente, riverso a terra, con l’aria di chi non si sarebbe svegliato nemmeno se i vandali di Genserico avessero fatto irruzione a Chicago armati di picche infuocate.  (Per un momento le parve di rivedere nel suo naso rosso quello di mastro Gibbs.)
Quanto al resto, le sembrava che nessuno la stesse seguendo.
Non avrebbe potuto essere silenziosa, perciò avrebbe dovuto essere veloce. Squadrò con occhio critico la porta di vetro del locale; l’intelaiatura di metallo la divideva in quattro quadrati di vetro, due in alto e due in basso. (Si chiese se il signor Semel fosse stato così eccentrico da volere che la sua porta fosse un rettangolo aureo.)
Sarebbe stato più facile passare dal basso. Si chinò, brandendo la scarpa che le rimaneva per il plateau, e diede alcuni colpi secchi al vetro con la punta del tacco, finché sulla porta non si disegnò una ragnatela di crepe. Allora si alzò e fece qualche passo indietro, scendendo dal marciapiede sulla strada. Prese la rincorsa e lanciò con tutta la sua forza la scarpa contro la vetrata, che andò in frantumi; dopodiché, sussurrate le proprie scuse al cardigan che indossava, se lo tolse e lo strappò a metà, per poi avvolgersi le due pezze attorno ai piedi.
Piegata carponi, si introdusse cautamente tra i vetri rotti, tastando il terreno davanti a sé per evitare che qualche scheggia le si conficcasse nelle mani, e trattenne un mugolio quando un vetro appuntito rimasto attaccato alla porta le graffiò la schiena. Le cose non migliorarono quando perse l’equilibrio e dovette appoggiare un ginocchio nudo a terra.
Finalmente riuscì a mettersi in piedi all’interno del locale. Sentiva solo il proprio cuore pulsare, e quasi temeva che qualche figura orribile spuntasse dal ciarpame con un grido. Si avvicinò alla scrivania e la circumnavigò. Di fronte a lei, imponente, si ergeva la vecchia credenza di legno di faggio da cui il signor Semel aveva preso il carillon.
I mobili neri incombevano su di lei. Trasalì quando vide la propria ombra riflessa sul vetro. Che diavolo, era bastato qualche mese a farla diventare una vedova paurosa e molliccia? Aprì il primo cassetto che si trovò davanti, poi il secondo, poi il terzo.
Ciarpame.
Vecchie scatolette di latta, forbici da cucito che le punsero le mani, nastri e sacchetti di cellophane. Scatole di collane e braccialetti annodati l’uno nell’altro.
Doveva pur essere da qualche parte quel dannato affare, porca miseria!
Aveva calcolato esattamente la posizione del cassetto durante l’inseguimento, ma non riusciva a ricordarla, adesso. Cominciò a spalancare frettolosamente tutte le ante, gettando scartoffie per terra, ammucchiando statuette di marmo sulla scrivania.
Poi, finalmente, vide un fagotto di velluto spiccare tra gli oggetti nel suo rosso carminio, lo stesso colore delle Valentine che riceveva in Inghilterra quand’era una ragazzina viziata. Nemmeno dieci anni fa, si disse Elizabeth, prima di rendersi conto, come al solito, di quanto tempo fosse davvero passato.
Estrasse cautamente il carillon dal panno. Eccolo lì. Per aprirlo, ricordò, bisognava premere un pulsante all’estremità, dopodiché lo si azionava girando una manovella.
Tolse dal reggiseno trecento dollari e li appoggiò sul bancone. Per una volta voleva rimanere nella legalità, ma quello era il massimo che poteva lasciare al signor Semel.
Chiuse gli occhi e cominciò a girare la manovella, cautamente. Nell’aria si dispersero di nuovo le note struggenti del valzer di Davy Jones.
“Da quando sei andato è solo vuoto”, si scoprì a canticchiare Elizabeth, muovendo passi di danza resi goffi e ovattati dalla stoffa che le avvolgeva i piedi. Avrebbe dato anche la sua, di anime, solo per ricordare tutte le parole… “Cadono a terra le mie lacrime, polvere di cristallo per gli assenti.”
Io ero lì ad aspettarti, aveva detto Davy Jones a Calypso durante la sua penultima notte. Era andato a trovarla sulla Perla Nera, mentre Elizabeth e Jack partecipavano alla fatidica assemblea per eleggere, per la prima volta, un Re dei Pirati. Ti ho aspettato tutto il giorno, ma tu non c’eri. Per un attimo, il mostro era tornato umano.
Perché tu non c’eri?
“Sei il timoniere del mio pianto.”
Elizabeth si morse il labbro e aprì gli occhi.
Fece un passo indietro e andò a sbattere violentemente contro il legno della credenza. Davanti alla porta rotta, a pochi passi da lei, c’era una sagoma nera, immobile.

 
Saphira, controllati. Non vorrai venirmi a dire che senza quel corpo da rettile ciccione sei meno intelligente del tuo Cavaliere.
Non poteva farci niente. Il panico si stava appiccicando viscoso alle sue gambe malferme, insieme al buio della notte che inghiottiva il suo fiato corto.
Si rivolse di nuovo a Voldemort nella lingua di sibili e sussurri che aveva scoperto di poter parlare nemmeno venti minuti prima. “Ehi, Signore Oscuro, che facciamo adesso?”
“Ci s’impicca” grugnì il criceto. Non era affatto d’aiuto, oltretutto con il suo uso improprio del verbo impersonale come prima persona plurale.
Quando Saphira si accorse di essersi accorta dell’improprietà lessicale sorrise, suo malgrado, perché tutto ciò che stava succedendo era assurdo. Quel mondo coperto di asfalto e petrolio era assurdo, ed assurde erano le sue lunghe gambe lisce, bianche, sotto la stoffa che le prudeva…
Si piantò in mezzo alla strada. Era assurdo anche il suo cervello, si rese conto: sopra lo strato animale del terrore andava creandosi una patina di ironia, come quando s’intrufolava senza farsi notare nei sogni di Eragon e, pur finendo per lasciarsi trascinare, le veniva da ridere per quanto lui era stupido.
Allora: per esercitare la magia doveva ricordarla. Non era semplice. Con la trasformazione in essere umano, Saphira perdeva anche quel naturale impulso magico che di solito si sentiva ribollire nel ventre insieme al fuoco; così le toccava fare tutto razionalmente, come la più stupida delle fattucchiere. Per fortuna in uno scompartimento di quel cervello ridicolmente piccolo c’erano ancora le sensazioni che Eragon provava quando era lui a fare un incantesimo; Saphira scartabellava velocemente tra i ricordi, le ritrovava e cercava di riprodurle.
Frugò la propria mente, cercando di scansare tutto ciò che non c’entrava con l’Alagaesia: Legolas, Elizabeth, Arwen, il cinema di Chicago, il sapore amaro del caffè e quegli edifici strani, sghembi, troppo alti, come sequoie color cenere, che le piaceva guardare col capo rivolto tutto verso l’alto per trasformarli in pennacchi attaccati al cielo lontano. Quando non hai ali, il cielo si allontana disperatamente e assume una bidimensionalità piatta, insopportabile nella sua irraggiungibilità.
Finalmente, l’acqua. Saphira riuscì a concentrarsi sul ricordo dell’essenza dell’acqua, chiuse gli occhi, strinse Voldemort, e fissò lo sbocco circolare dei canali sotto la città, un tondo di metallo nero slavato e punteggiato di gocce d'asfalto. Volgarmente chiamato fogna.
Tre due uno.
Schizzò di lato mentre una colonna d’acqua sudicia erompeva in strada davanti agli Auror appena apparsi dalla parallela, tra i loro lampi colorati che ne fendevano inutilmente la compattezza scivolosa. Andò a sbattere contro il portone metallico di un garage incassato tra due casette e vide il tubo della grondaia. Aveva le mani sudate, ma riuscì ad arrampicarsi ugualmente, calciando via le proprie ballerine e lasciandole atterrare sull’asfalto che andava tingendosi di uno sdrucciolevole grigio sporco in cui affondarono.
Balzò sul tetto, aggrappandosi alle tegole ruvide di licheni e polvere. 
A quel punto non pensava più alla situazione presente, né all’ironia né al terrore. Solo, mettersi in salvo e contattare Arwen, perché non avrebbe potuto mantenere la colonna d’acqua per molto.
Mentre correva scivolando e sbucciandosi le ginocchia, cominciò ad aprire la mente e a serpeggiare tra le coscienze. A pochi metri di distanza una donna che si riteneva troppo vecchia stava facendo l’amore con uno sconosciuto mentre la televisione trasmetteva a tutto volume un programma con delle risate innaturali. Un bambino guardava muto lo spettacolo magico attraverso la tenda a pois rosa della camera di sua sorella, ed era troppo piccolo per rendersi conto che probabilmente sarebbe stato l’unico evento speciale a cui avrebbe assistito durante tutta la sua vita.
Saphira pensò che era crudele essere speciali, ma essere normali e senza qualità lo era ugualmente, forse cambiava solo il momento in cui ti rendevi conto di non avere niente tra le mani se non un destino già scritto.
Un incantesimo deviato dall’acqua colpì un tetto aggettante su quello del garage, e sulla schiena di Phi caddero le tegole rotte. La ragazza-drago sentì un dolore acuto e lancinante alla testa, e il vestito strappato, e i graffi sulla pelle nuda. Inghiottì un grido e si sollevò più in alto. Le proprie mani, attaccate alle tegole, le parevano sul punto di spaccarsi. Il calore del sangue che le scendeva tra le dita, lungo il dorso delle mani, sui polsi, le fece salire alla gola un’ondata di nausea.
Con la mente sfiorò le coscienze e confuse degli Auror, e stolidamente si stupì, come Eragon, quando le sentì troppo umane e troppo vicine alla propria per sembrare malvagie.
Riuscì a rimettersi in piedi e a nascondersi dietro un tetto. Doveva smetterla di concentrarsi sulle menti che schizzavano fuori dal torrente di anime che avvolgeva San Francisco, e cercare Arwen. Zigzagò tra una vecchia convinta che la sua infermiera fosse la figlia che aveva perso in un incidente trent’anni prima e un uomo con una linea di pensieri molto piatta e divertente che faceva i salti di gioia per il suo ultimo successo coi soldi, scivolò sotto i sogni allucinati di un barbone, schivò accuratamente le sensazioni di una prostituta.
Il cielo su di lei splendeva, ancora troppo alto. Si arrampicò sul tetto della casa accanto, puntando un piede sul davanzale di una finestra, e lasciò cadere la colonna d’acqua solo quando fu sufficientemente lontana. I tagli le bruciavano. La pelle squamosa dei draghi riesce a proteggerli meglio dalle abrasioni.
Non trovava la mente di Arwen. Non trovava la mente di Arwen.
Gli Auror stavano correndo sulla strada sotto di lei. Aggrappandosi ad un’antenna parabolica, Phi si diede lo slancio per saltare sul tetto di una casa vicino, e sentì di nuovo il dolore sordo della pelle che si spaccava quando atterrò su un braccio.
Dovevano essere saliti sul tetto. Saphira rotolò di lato, appena in tempo per schivare un lampo di luce blu che s’infranse tra le tegole.
Prima che i volti degli Auror apparissero dall’oscurità, Saphira vide una luce riflettersi sul muro della casa di fronte. Qualcuno, là sotto, era ancora sveglio.
Strisciò carponi, cercando di mescolarsi alla notte, verso il margine del tetto; poi, afferrato il tubo della grondaia, scese lentamente, sdrucciolando con le mani e graffiandosi le ginocchia contro l’intonaco ruvido, finché non si trovò al fianco della finestra illuminata.
Allungò una gamba verso il davanzale della finestra, poi una mano, e riuscì ad afferrarne l’orlo di granito. Cautamente, spinse anche l’altra gamba, cercando di non guardare le piastrelle lucide del marciapiede brillare sotto di lei. Non aveva mai capito cos’era la vertigine prima di trovarsi nell’impossibilità di volare.
Guardò dentro la stanza. In mezzo a tende lilla di una stoffa delicata e vaporosa di cui Phi si rammaricava di non conoscere il nome c’era il bambino che aveva percepito mentre allargava la sua coscienza. Alle sue spalle, la debole campana di luce emanata da una lampada di porcellana foderata di seta illuminava appena, come a carezzarlo, un letto a castello in cui dormiva una ragazzina.
Il piede di un Auror spuntò dal tetto.
Il bambino guardò con un tenue, timido sorriso curioso il volto di Saphira, che si scoprì a chiedersi come gli era apparsa. Phi bussò delicatamente al vetro lucido della finestra, e sillabò: “Fammi entrare…”
Si era completamente fottuta il cervello? Chiedere aiuto ad un bambino.
La mano del bimbo si tese verso la maniglia e aprì, lentamente. Saphira scivolò dentro, lisciandosi le cosce graffiate sulla pietra levigata del davanzale.
Il bambino doveva avere nove, dieci anni. Portava i capelli castani lunghi fin sulle spalle, e Saphira cominciava a chiedersi se non fosse, in realtà, una bambina. “Io mi chiamo James” disse il nanetto dissipando ogni dubbio, e poi sorrise. “A mamma piace Joyce e anche 007, per non parlare di Jim Morrison” aggiunse a mo’ di spiegazione.
Saphira fece in tempo a gettarsi su di lui e spingerlo a terra prima che la finestra andasse in frantumi. L'esplosione avvenne in silenzio, senza suoni.

 
Elizabeth fu quasi sollevata quando la figura nera che si ergeva davanti a lei, nel negozio dell'antiquario, disse “lumos” e le puntò addosso una luce bianca. Abbagliata, la ragazza si schermò gli occhi con una mano, ma l’Auror puntò la bacchetta sul soffitto. Dalla lampadina si diffuse una tenuissima luce.
I due si squadrarono per un momento. Il mago sembrava teso, ma non terrorizzato. Doveva aver visto delle battaglie, Elizabeth riconosceva nei suoi occhi la stessa lucidità fredda che si era sorpresa a scoprire nei propri, tanto tempo prima. Forse aveva combattuto nella Guerra Magica a cui Arwen a volte accennava, e contro cui Voldemort bestemmiava tre volte al giorno.
Il volto rotondo, da adolescente, si abbassò per squadrarla, e quando la vide disarmata, con un rivolo di sangue che le colava da una spalla e le gambe coperte di graffi, rimase per un attimo interdetto. La sua sorpresa crebbe ancora di più quando notò i trecento dollari sul bancone, lontano da Liz.
Continuava, però, a puntare la bacchetta contro di lei, forse solo per scaramanzia.
Non le chiese nulla di Voldemort. “Che cosa cercavi?” domandò invece, più diffidente che aggressivo.
“Ho trovato quello che cercavo” rispose seccamente Elizabeth, guardinga, avvolgendo il carillon nel panno di velluto.
“Perché un carillon?” chiese ancora il mago.
Liz soppesò con calma le parole. Era impossibile che quel ragazzetto non pensasse che lei faceva parte di qualche associazione di fanatici dediti a organizzare in pompa magna il ritorno del Signore Oscuro. L’allarmismo delle forze dell’ordine, continuava a pensare Elizabeth, rasenta sempre la stupidità, specialmente dopo un periodo di crisi. Se gli avesse spiegato, lui non avrebbe capito. Quando hai vent’anni e hai vinto non pensi che ci siano altre verità oltre alla tua.
“Non sono una strega” disse abbassando gli occhi. “Di magia ne ho vista tanta, ma non c’è neanche uno straccio di potere magico, qua dentro.” Sorrise amaramente. “E poi dicono che gli uomini sono tutti uguali.”
Il ragazzo sembrava convinto, ma sussurrò "expelliarmus". Nonostante Elizabeth conoscesse il latino e fosse dotata di un minimo di capacità deduttiva, trattenne il fiato come se temesse di ritrovarsi una pallottola in mezzo allo stomaco.
Non accadde nulla.
Accio bacchetta. Accio bacchetta!” sibilò il mago.
Tutto restò immobile. Elizabeth sorrise. “Se avessi potuto fare così col carillon, mi sarei risparmiata un sacco di fatica” disse. “Dammi la tua bacchetta.”
Il ragazzo non esitò un istante. Sembrava curioso oltre che confuso, adesso, ed Elizabeth conosceva anche quella sensazione: la voglia di stare a vedere cosa succede, per quanto sia inutile, irrazionale e potenzialmente pericoloso. Proprio quella curiosità che se riposta nelle mani sbagliate ti fa fare immancabilmente la fine del povero idiota.
Lei strinse le dita attorno al legno ruvido, puntò la bacchetta contro la porta e, con aria ironica, disse: “Bombarda.” Notò suo malgrado che una parte di sé, nonostante tutto, sperava che tutto andasse in frantumi.
Gli restituì la bacchetta e si avvicinò alla porta, che non aveva subito una scalfitura in più. Si graffiò di nuovo la schiena mentre oltrepassava l’apertura che aveva praticato con il buon vecchio metodo della scarpa.
La voce del mago la fermò. “Aspetta.” Trasse da chissà dove l’altra décolleté di Liz e gliela porse attraverso la fessura. “Nessun altro ti segue.”
Lei gli tese la mano. “Elizabeth Swann.”
“Neville Paciock.”
Elizabeth indossò di nuovo le proprie scarpe e se ne andò, zoppicando appena, seguita dai bagliori tremolanti e malaticci dei lampioni che si riaccendevano uno ad uno, e dal rumore del vetro della porta che tornava magicamente al suo posto.
 
 
L’acqua placida dell’oceano s’infrangeva in silenzio contro il molo abbruttito dal cemento, trascinando con sé  uno strato maleodorante di alghe marroni di cui Arwen preferì non chiedersi la classificazione o la provenienza.
Tutti gli elfi hanno una nostalgia quasi insopportabile alla vista del mare, ma Arwen ne era spaventata come da una tentazione terribile e distruttiva. L'aveva sempre fatta pensare a partenze senza ritorno, separazioni crudeli, disgrazie definitive. Ed ora sapeva perché.
Tra le sagome nere delle navi dondolanti, distinse l’ombra sottile di Elizabeth che si affannava sul ponte di una piccola barca a motore.
La raggiunse a passi felpati e rovesciò nell’imbarcazione le poche borse, piene fino all’orlo, che si era trascinata dietro per una serie infinita di isolati con il solo aiuto della ferrea volontà elfica, e forse di qualche Valar impietosito.
Elizabeth ebbe un breve sussulto, poi si voltò verso di lei con le mani sui fianchi. “Credo di aver capito come funziona questo colabrodo” disse. Un sorriso soddisfatto guizzò tra le ciocche di capelli che erano sfuggite dalla sua coda disordinata. "Jude è al sicuro?" aggiunse l'ex piratessa in tono concitato.
"Sano e salvo" assicurò l'elfa dando una pacca al poster che spuntava da uno zaino.
"Perfetto."
Arwen avrebbe voluto slanciarsi verso di lei e abbracciarla, ringraziarla perché era un’umana ma un’umana furba e questo la faceva sperare per il futuro, raccontarle di nonna Galadriel. Dirle che non aveva smesso di pensare alla sfuriata della vecchia elfa, mentre correva.
Ma non lo fece.
Non lo fece perché sul volto di entrambe era sorta un’unica smorfia preoccupata.
“Wen” disse Elizabeth. “Dov’è Saphira?”




Post scriptum dell'autrice: Sono in vergognoso ritardo e me ne rendo conto: mi dispiace aver fatto aspettare chi si era messo con tanta pazienza e buona volontà a leggere la storia! Purtroppo, come al solito, è sopraggiunto uno di quei periodi terribili dal punto di vista morale, familiare, sentimentale et cetera, accompagnato da una mancanza cronica di ispirazione e voglia di scrivere, ma per fortuna esiste l'estate.
   
 
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