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Autore: Eryca    26/06/2012    6 recensioni
Era colpevole di aver donato tutta la sua anima alla musica.
Non c’era persona più colpevole di lei.
Era colpevole anche in quel momento, mentre tutti sapevano ciò che stava per accadere, ma nessuno aveva il coraggio di dire nulla o muovere anche solo un muscolo.
C’era musica nell’aria, lei la sentiva.
Loro la sentivano.
Vita.

****
C'è Anne, con i suoi demoni del passato e la sua maschera perenne. Ha un sogno.
C'è Davide, con la sua purezza d'animo. Ha un sogno.
C'è Matteo, con la sua spavalderia e il suo disinteresse. Ha un sogno.
C'è Riccardo, con le sue dipendenze, le sue paure e le sue bugie. Ha un sogno.
Un sogno.
Hanno tutti lo stesso sogno.
La musica.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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1.

Il Porto di Città

 

 

 

 

Pioveva di nuovo, quella sera, notò non appena vide una piccola goccia di acqua sul suo braccio sinistro. Riusciva a sentire l’odore di bagnato e umido.

Succedeva sempre così: quando decideva di fare una delle sue campatine per i locali, il cielo cominciava a ruggire minaccioso, per poi lanciarle addosso litri di pioggia.

Scosse il capo senza speranze, conscia del fatto che, molto probabilmente, si sarebbe presa un altro di quei stramaledetti raffreddori, dando a sua madre una nuova scusa per rimproverarla.

Sembrava che Charlotte Dupont si divertisse moltissimo a riprenderla per il fatto che non aveva messo in ordine camera sua, non aveva lavato i piatti oppure perché era rientrata troppo tardi la sera prima; ma la miglior scusa per urlarle contro parole arrabbiate era il suo scarso interesse per lo studio, nonostante l’Esame di Maturità in vista.

L’Esame di Maturità.

Il solo nome le faceva venire i brividi, per questo evitava spesso di soffermarsi sull’argomento, preferendo schivarlo e rimandare di continuo lo studio: in fondo aveva ancora qualche mese a disposizione, prima di dover affrontare le fatidiche prove.

L’autoconvinzione è pur sempre un’arma potente.

Se ne stava impalata in mezzo al lato della strada, appoggiata ad un muretto sporco, in attesa di quel ritardatario di Matteo, che le dava gli appuntamenti ad ore che non riusciva mai a rispettare.

La via sembrava piuttosto trafficata quella sera, forse perché l’evento  ̶  a cui stava per partecipare anche lei  ̶  era previsto come uno spettacolo mai visto prima d’allora; ma, in fin dei conti, si diceva sempre che le serate organizzate erano “da non perdere”, quindi non vi aveva riposto troppe speranze.

Il marciapiede su cui era appostata anche lei era gremito di gente decisamente stramba: una ragazza, che avrà avuto una ventina di anni, portava una lunga gonna nera che le sfiorava le caviglie e dei capelli viola, i quali le davano una certa somiglianza ad una mora matura.

Un tizio rasato, coperto di tatuaggi dalla testa ai piedi, la sorpassò dandole una spallata; avrebbe voluto gridargli di fare attenzione, ma non appena vide la sua stazza decise che forse era meglio far finta che nulla fosse accaduto: ci mancava solo un occhio nero e poi sua madre l’avrebbe spedita dai suoi parenti, in Francia.

Charlotte le ricordava ogni tre per due che sarebbe potuta tornare alle origini, ovvero in quel piccolo paesino nelle vicinanze di Parigi, dove abitavano i suoi severi nonni; l’idea non le andava per niente a genio, quindi cercava di evitare lo scontro decisivo con sua mamma.

A volte pensava che quella donna fosse così frustrata perché si era ritrovata incastrata con un marito e una figlia, in quel buco di fogna che era Torino; ma in fondo non era colpa di nessuno se si era innamorata di Paolo Melì, giovane contabile per un’azienda di elettrodomestici torinese, e aveva deciso di lasciare Parigi definitivamente.

Abbandonò quei pensieri non appena vide arrivare, in lontananza, una figura alta e snella, dai capelli castani a spazzola e il portamento di una diva di Hollywood.

Matteo Damiani, suo migliore amico da così tanto tempo che neanche si ricordava la prima volta in cui avevano parlato, si avvicinava con la camminata sicura di sé e sensuale, che solo lui riusciva ad assumere; quel ragazzo mediterraneo dallo sguardo assassino avrebbe fatto innamorare qualsiasi fanciulla, il fatto era che non le interessavano le signore.

Matteo era omosessuale.

Molto omosessuale, avrebbe detto lui, con il sorriso malizioso di chi aveva appena passato qualche ora di sesso selvaggio, rinchiuso in qualche luogo angusto.

La cosa che più la mandava in bestia era che Matteo le rubava tutti i ragazzi più carini, mentre a lei rimanevano solo gli sgorbi affamati che avrebbero offerto da bere anche ad una vecchia di ottant’anni, pur di ricavarci una scopata; ma in fin dei conti a lei non importava molto abbordare bei maschioni e abbandonarsi ai piaceri del sesso, non era mai stata una di quelle ragazze. Certo, anche lei aveva fatto sesso, qualche volta, non era di certo Suor Claretta, però non desiderava trovare l’uomo giusto per la sua vita.

Lei aveva altri sogni.

«Anne, ti prego, non mi uccidere, ho avuto da fare!»

Anne Melì, un metro e sessantacinque, trentasette di scarpe, capelli rosso schifo e così ricci da non avere alcuna possibilità di domarli, occhi verdi ed un grande, immenso sogno nel cassetto: sfondare nel mondo della musica.

Ecco chi era, si disse ripassando a memoria la presentazione che avrebbe dovuto fare al suo primo provino con una major. Era sempre così bello fantasticare…

Se solo fosse riuscita a mettere su un gruppo, allora si che avrebbe potuto vedere i suoi sogni prendere dei contorni reali e non solo più astratti, come erano in quel momento; ma dove li trovava dei ragazzi appassionati di rock, in quella Torino fatta solo di discoteche?

Certo, Matteo condivideva il suo amore per Jimi Hendrix, ma non potevano formare una band con solo una chitarra basso ed una voce solista: avevano bisogno di batteria e chitarra elettrica.

Avevano discusso così tanto di quella questione che a volte le sembrava di non avere alcuna speranza di poter cantare su un palcoscenico internazionale.

Stupidi sogni da diciottenne.

«Scommetto che il tuo concetto di “avere da fare” equivale con il mio di “avevo qualche cazzo da succhiare”.» così dicendo prese il suo amico sotto braccio e si incamminarono verso l’entrata del locale in cui facevano musica live.

Fai che sia rock n’ roll.

 

 

 

 

****

 

 

 

 

 

Fai che sia rock n’ roll, pensò Davide seduto ad uno di quegli squallidi tavoli di legno che il pub Porto di Città aveva messo a disposizione della fetida clientela; in effetti i frequentatori del locale non erano di certo parte dell’alta borghesia torinese, ma membri ufficiali della feccia della società.

Ma in fondo, si disse, anche lui era in quel locale e, a causa della sua onnipresenza in quel posto, i baristi erano divenuti suoi amici.

Pessimo. Proprio pessimo.

Era così preso dalla sua musica che, a volte, si dimenticava di essere una persona reale, con il bisogno di una casa, un lavoro. Soldi.

Dannazione, quelli mancavano sempre, nonostante si facesse in quattro per cercare di rimediarli, lavorando in quell’odiosa officina di meccanica in compagnia di un datore di lavoro non propriamente cordiale.

Si spezzava la schiena dalle otto di mattina alle otto di sera, per dover condividere un appartamento  ̶  che non meritava quell’appellativo  ̶  con quel ritardato di Riccardo che, in quello stesso istante, stava in piedi su un tavolo rettangolare cercando di bere un boccale di birra senza prendere il respiro.

Riccardo Sacco.

Il suo amico dai tempi liceali, che lo aveva accompagnato in quella che poteva entrare nella classifica delle “Vite più misere dell’anno” senza mai lamentarsi troppo; la cosa che più gli andava a genio di Ricca era che non riuscivi a togliergli il buon umore neanche con la notizia più tragica, forse anche grazie alla quantità industriale di erba che riusciva a fumarsi.

Ma chi era lui per dirgli ciò che doveva fare?

Si guardò intorno in cerca di qualche bella ragazza con cui passare la serata e magari andare a letto; tutti i sabato sera era la stessa storia: adocchiava una preda, la insaponava per bene e poi la convinceva ad aprire le gambe.

Certo, non era proprio un granché, però doveva pur sfogare i suoi istinti maschili in qualche modo e l’idea di trovarsi una ragazza fissa con cui condividere esperienze e consigli gli faceva accapponare la pelle: aveva solo ventitré anni, non poteva mettere su famiglia.

Qualche volta, però, quando era nel letto e le luci erano spente, lasciando spazio al buio della notte, si chiedeva quando la sua vita sarebbe cambiata, se avrebbe mai combinato qualcosa di buono oltre alla musica, che era l’unico suo vero amore.

Certi giorni, quando Ricca era fuori, si sentiva così solo che gli sarebbe quasi piaciuto tornare all’infanzia, a casa con una madre e un padre in preda ad un chiassoso litigio.

Oh, se la ricordava alla perfezione la separazione dei suoi genitori.

Quando suo padre aveva scoperto che la moglie andava a letto con più o meno mezza Torino, tradendolo abitualmente e facendolo passare come il marito scemo che non si accorgeva di nulla, era andato su tutte le furie e aveva chiesto il divorzio immediato; la madre non voleva Davide tra i piedi, così era stato affidato al padre, che non gli dava molta retta, troppo preso a darsi da fare con ogni donna che incontrava.

La solitudine era stata un punto fisso nella sua vita, che non se ne sarebbe mai andato, ormai si era rassegnato a quell’idea.

Se solo fosse riuscito a creare una band…

Ma tutti i suoi amici erano buoni ad ascoltare musica, non a comporla, quindi il problema di trovare ragazzi in gamba con cui mettere su un gruppo diventava serio; non avrebbe potuto di certo andare al Conservatorio e domandare se qualcuno degli studenti voleva fare un po’ di rock.

Lo avrebbero cacciato a suon di calci, molto probabilmente.

Abbandonò quei pensieri non appena vide la band salire sul piccolo palco di legno marcio, munita di strumenti e amplificatori che Davide agognava più di un aumento di stipendio.

Le luci furono abbassate e l’atmosfera divenne molto underground, cosa che gli fece volare la mente al CBGB & OMFUG  ̶  il cui nome completo “Country, BlueGrass, Blues and Other Music For Uplifting Gourmandizers” lo divertiva sempre  ̶  , club dove si erano esibiti i più famosi dei del rock n’ roll: dai Ramones a Patti Smith, i Talking Heads , gli Heartbrakers e tanti altri.

Si vide nel piccolo pub con una chitarra in mano, intento a suonare un assolo impossibile degno di Slash, mentre una folla di persone impazziva per lui, chiedendogli di fare il bis.

Davide, hai ventitré fottutissimi anni, dovresti smetterla di fantasticare.

Probabilmente si perse la presentazione di quel favoloso gruppetto di imbecilli, che sembravano essere appena usciti da una rivista per ragazzine adolescenti: portavano jeans così stretti che si chiedeva come facessero a non dolergli le palle e le loro magliette avevano delle stupide scimmiette disegnate sopra.

Dove finiremo?

«Sai, Dav, credo che questi qua abbiamo scambiato il Porto per un saggio scolastico.» la voce di Ricca, che sembrava essere sbucato dal nulla, risultava così bassa e sbiascicante che era difficile prendere sul serio ciò che diceva: era sbronzo, come al solito.

Si era portato dietro una ragazzetta dai capelli blu, con tutta l’aria di chi non vede l’ora di farsi scopare in tutte le posizioni esistenti.

Buon per Ricca.

In effetti, Davide non aveva mai visto Riccardo con una ragazza; cioè, il suo amico lo aveva beccato più volte a letto con qualche ragazzetta nel loro appartamento, ma lui non si era mai trovato di fronte Ricca in compagnia di una bella donna.

Lo vedeva solo pomiciare qua e là per i bar, ma niente di più. Forse quel bastardo aveva davvero un minimo di pudore che lui, invece, aveva perso per strada.

«Mi avevi detto che avrebbero suonato rock, cazzo! Che diavolo stanno facendo quei quattro deficienti?»

Una voce squillante pronunciò quelle parole, sovrastando il rumore insopportabile che il gruppo stava facendo uscire dai loro strumenti.

Davide si voltò e intravide una ragazza con dei selvaggi capelli rossi farsi spazio tra la folla, seguita da un giovane che doveva avere più o meno la stessa età della prima.

Cercò di allungare il collo per vedere meglio, ma li perse di vista del tutto e dovette sedersi rassegnato, lanciando un’occhiataccia alla sgualdrina in compagnia di Riccardo.

Aveva appena trovato una persona che, come lui e Riccardo, sperava che il gruppo della serata suonasse del rock n’ roll, cosa decisamente rara a Torino.

E se l’era fatta sfuggire.

Ok, non aveva senso quella sua mania per le persone che amavano la buona musica, come lui, ma aveva proprio voglia di fare due chiacchiere con qualcuno che parlasse di Guns N’ Roses e non di odiosi ragazzini in gonnella che cantavano stupide musichette commerciali.

Perché era così ossessionato dalla musica?

Si lasciò andare sulla sedia, ormai disperato dal suo comportamento infantile; era immaturo, lo sapeva, lo era sempre stato, ma ultimamente era così peggiorato che avrebbe potuto iscriversi di nuovo all’asilo nido.

Quand’è che sarebbe diventato un uomo, avrebbe messo da parte i sogni adolescenziali per concentrarsi sulla vita reale?

«Andiamocene Ricca, domani dobbiamo lavorare e questa roba fa così pena che me lo fa ammosciare.»

L’amico, invece di protestare per il forzato distacco dalla vogliosa fanciulla, scrollò le spalle e la abbandonò senza curarsi degli insulti che quest’ultima gli stava lanciando.

Quel ragazzo era davvero strano.

Spintonò un giovane ragazzo dai capelli blu che gli rivolse uno sguardo non del tutto amichevole, per arrivare finalmente al bancone, dove trovò subito una ragazza dal viso dolce presa a lavare bicchieri e riempire boccali di birra.

«Marta!»

La barista si guardò intorno in cerca della persona che aveva appena urlato il suo nome e quando vide Davide e Riccardo, sul suo viso comparve un sorriso sincero.

Abbandonò il suo lavoro per un solo attimo e si sporse per baciare i due ragazzi sulle guance.

«Delusi, eh?» scherzò, indicando con la testa la “boy band” adolescenziale, sul palco.

Deluso non rendeva bene come si sentiva, il termine giusto era frustrato.

Il mondo aveva smesso di interessarsi al suono che fuoriusciva da una chitarra e aveva preferito concentrarsi su registrazioni e voci manomesse in studio.

Frustrante.

«Fa così schifo che stiamo scappando.» intervenne il suo coinquilino, tutto preso a ispezionarsi le unghie, in un comportamento tipico di una donna.

Certe volte Ricca lo lasciava perplesso.

«Almeno voi che potete!»

Salutarono ancora una volta Marta, prima di incamminarsi verso l’uscita, che sembrava lontana miglia, se si stava a guardare la marea di gente stipata in quel buco.

Tutti venuti a vedere questi quattro ritardati.

L’aria fresca gli diede una sensazione di benessere, ormai abituato a quell’odore stantio che donava al Porto un marchio di fabbrica.

Era così tanto tempo che passava le serate in quel pub che si era dimenticato che nella vita potevano esserci altre cose, come il cinema, il teatro, una passeggiata tra i portici di Via Roma…

Ma continuava ad andare al Porto, sperando di sentire della musica.

«E io che speravo di ascoltare musica!»

Di nuovo quella voce forte e determinata, quella che aveva sentito prima all’interno del locale, quella che aveva usato in una frase la parola “rock”.

Davide si voltò incontrando due grossi occhi verdi.

 

Aveva trovato qualcuno che conosceva il significato della parola musica.

 

 

 

****

 

 

 

Note dell’Autrice:

 

Questa mia Storia Originale vuole trattare  ̶  come già si nota in questo primo capitolo di introduzione  ̶  l’argomento della musica, in particolare quella rock.

I personaggi principali sono quattro, già presentati in questo capitolo: Davide Lombardo, Anne Melì, Matteo Damiani e Riccardo Sacco.

Il contesto è la Torino dei giorni nostri, un po’ priva di quel rock che farebbe piacere ai protagonisti.

Ovviamente, verranno trattati tanti altri argomenti, non solo quello della musica, che però farà da contorno a tutta la storia. Tema molto importante  sarà anche l’omosessualità.

In questo primo capitolo  ̶  e anche nel secondo  ̶  verranno per lo più presentati i personaggi, in modo che capiate bene con chi avete a che fare.

Per ora non voglio aggiungere altro, in modo da non rovinarvi il prossimo capitolo.

Se avete letto, vi prego di lasciare un commentino, così potrò sapere se l’idea vi piace e se vi sembra giusto continuare.

 

Un abbraccio,

Eryca.

   
 
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