1.
Il
Porto di Città
Pioveva
di nuovo, quella sera, notò non appena vide una piccola goccia di acqua
sul suo
braccio sinistro. Riusciva a sentire l’odore di bagnato e umido.
Succedeva
sempre così: quando decideva di fare una delle sue campatine per i
locali, il
cielo cominciava a ruggire minaccioso, per poi lanciarle addosso litri
di
pioggia.
Scosse
il capo senza speranze, conscia del fatto che, molto probabilmente, si
sarebbe
presa un altro di quei stramaledetti raffreddori, dando a sua madre una
nuova
scusa per rimproverarla.
Sembrava
che Charlotte Dupont si divertisse moltissimo a riprenderla per il
fatto che
non aveva messo in ordine camera sua, non aveva lavato i piatti oppure
perché
era rientrata troppo tardi la sera prima; ma la miglior scusa per
urlarle
contro parole arrabbiate era il suo scarso interesse per lo studio,
nonostante
l’Esame di Maturità in vista.
L’Esame
di Maturità.
Il
solo nome le faceva venire i brividi, per questo evitava spesso di
soffermarsi
sull’argomento, preferendo schivarlo e rimandare di continuo lo studio:
in
fondo aveva ancora qualche mese a disposizione, prima di dover
affrontare le
fatidiche prove.
L’autoconvinzione
è pur sempre
un’arma potente.
Se
ne stava impalata in mezzo al lato della strada, appoggiata ad un
muretto
sporco, in attesa di quel ritardatario di Matteo, che le dava gli
appuntamenti
ad ore che non riusciva mai a rispettare.
La
via sembrava piuttosto trafficata quella sera, forse perché l’evento ̶
a
cui stava per partecipare anche lei
̶ era
previsto come uno
spettacolo mai visto prima d’allora; ma, in fin dei conti, si diceva
sempre che
le serate organizzate erano “da non perdere”, quindi non vi aveva riposto troppe
speranze.
Il
marciapiede su cui era appostata anche lei era gremito di gente
decisamente
stramba: una ragazza, che avrà avuto una ventina di anni, portava una
lunga
gonna nera che le sfiorava le caviglie e dei capelli viola, i quali le
davano
una certa somiglianza ad una mora matura.
Un
tizio rasato, coperto di tatuaggi dalla testa ai piedi, la sorpassò
dandole una
spallata; avrebbe voluto gridargli di fare attenzione, ma non appena
vide la
sua stazza decise che forse era meglio far finta che nulla fosse
accaduto: ci
mancava solo un occhio nero e poi sua madre l’avrebbe spedita dai suoi
parenti,
in Francia.
Charlotte
le ricordava ogni tre per due che sarebbe potuta tornare alle origini,
ovvero
in quel piccolo paesino nelle vicinanze di Parigi, dove abitavano i
suoi severi
nonni; l’idea non le andava per niente a genio, quindi cercava di
evitare lo
scontro decisivo con sua mamma.
A
volte pensava che quella donna fosse così frustrata perché si era
ritrovata
incastrata con un marito e una figlia, in quel buco di fogna che era
Torino; ma
in fondo non era colpa di nessuno se si era innamorata di Paolo Melì,
giovane
contabile per un’azienda di elettrodomestici torinese, e aveva deciso
di
lasciare Parigi definitivamente.
Abbandonò
quei pensieri non appena vide arrivare, in lontananza, una figura alta
e
snella, dai capelli castani a spazzola e il portamento di una diva di
Hollywood.
Matteo
Damiani, suo migliore amico da così tanto tempo che neanche si
ricordava la
prima volta in cui avevano parlato, si avvicinava con la camminata
sicura di sé
e sensuale, che solo lui riusciva ad assumere; quel ragazzo
mediterraneo dallo
sguardo assassino avrebbe fatto innamorare qualsiasi fanciulla, il
fatto era
che non le interessavano le signore.
Matteo
era omosessuale.
Molto
omosessuale, avrebbe
detto lui, con il sorriso malizioso di chi aveva appena passato qualche
ora di
sesso selvaggio, rinchiuso in qualche luogo angusto.
La
cosa che più la mandava in bestia era che Matteo le rubava tutti i
ragazzi più
carini, mentre a lei rimanevano solo gli sgorbi affamati che avrebbero
offerto
da bere anche ad una vecchia di ottant’anni, pur di ricavarci una
scopata; ma
in fin dei conti a lei non importava molto abbordare bei maschioni e
abbandonarsi ai piaceri del sesso, non era mai stata una di quelle
ragazze.
Certo, anche lei aveva fatto sesso, qualche volta, non era di certo
Suor
Claretta, però non desiderava trovare l’uomo giusto per la sua vita.
Lei
aveva altri sogni.
«Anne,
ti prego, non mi uccidere, ho avuto da fare!»
Anne
Melì, un
metro e sessantacinque, trentasette di scarpe, capelli rosso schifo e
così
ricci da non avere alcuna possibilità di domarli, occhi verdi ed un
grande,
immenso sogno nel cassetto: sfondare nel
mondo della musica.
Ecco
chi era, si disse ripassando a memoria la presentazione che avrebbe
dovuto fare
al suo primo provino con una major. Era sempre così bello fantasticare…
Se
solo fosse riuscita a mettere su un gruppo, allora si che avrebbe
potuto vedere
i suoi sogni prendere dei contorni reali e non solo più astratti, come
erano in
quel momento; ma dove li trovava dei ragazzi appassionati di rock, in quella Torino fatta solo di
discoteche?
Certo,
Matteo condivideva il suo amore per Jimi Hendrix, ma non potevano
formare una
band con solo una chitarra basso ed una voce solista: avevano bisogno
di
batteria e chitarra elettrica.
Avevano
discusso così tanto di quella questione che a volte le sembrava di non
avere
alcuna speranza di poter cantare su un palcoscenico internazionale.
Stupidi
sogni da diciottenne.
«Scommetto
che il tuo concetto di “avere da fare” equivale con il mio di “avevo
qualche
cazzo da succhiare”.» così dicendo prese il suo amico sotto braccio e
si
incamminarono verso l’entrata del locale in cui facevano musica live.
Fai
che sia rock n’ roll.
****
Fai
che sia rock n’ roll, pensò
Davide seduto ad uno di quegli squallidi tavoli di legno che il pub Porto di Città aveva messo a
disposizione della fetida clientela; in effetti i frequentatori del
locale non
erano di certo parte dell’alta borghesia torinese, ma membri ufficiali
della
feccia della società.
Ma
in fondo, si disse, anche lui era in quel locale e, a causa della sua
onnipresenza in quel posto, i baristi erano divenuti suoi amici.
Pessimo.
Proprio pessimo.
Era
così preso dalla sua musica che, a volte, si dimenticava di essere una
persona
reale, con il bisogno di una casa, un lavoro. Soldi.
Dannazione,
quelli mancavano sempre, nonostante si facesse in quattro per cercare
di
rimediarli, lavorando in quell’odiosa officina di meccanica in
compagnia di un
datore di lavoro non propriamente cordiale.
Si
spezzava la schiena dalle otto di mattina alle otto di sera, per dover
condividere un appartamento ̶ che non meritava
quell’appellativo ̶ con
quel ritardato di Riccardo che, in quello stesso istante, stava in
piedi su un
tavolo rettangolare cercando di bere un boccale di birra senza prendere
il
respiro.
Riccardo
Sacco.
Il
suo amico dai tempi liceali, che lo aveva accompagnato in quella che
poteva
entrare nella classifica delle “Vite più misere dell’anno” senza mai
lamentarsi
troppo; la cosa che più gli andava a genio di Ricca era che non
riuscivi a
togliergli il buon umore neanche con la notizia più tragica, forse
anche grazie
alla quantità industriale di erba che riusciva a fumarsi.
Ma
chi era lui per dirgli ciò che doveva fare?
Si
guardò intorno in cerca di qualche bella ragazza con cui passare la
serata e
magari andare a letto; tutti i sabato sera era la stessa storia:
adocchiava una
preda, la insaponava per bene e poi la convinceva ad aprire le gambe.
Certo,
non era proprio un granché, però doveva pur sfogare i suoi istinti
maschili in
qualche modo e l’idea di trovarsi una ragazza fissa con cui condividere
esperienze e consigli gli faceva accapponare la pelle: aveva solo
ventitré
anni, non poteva mettere su famiglia.
Qualche
volta, però, quando era nel letto e le luci erano spente, lasciando
spazio al
buio della notte, si chiedeva quando la sua vita sarebbe cambiata, se
avrebbe
mai combinato qualcosa di buono oltre alla musica, che era l’unico suo
vero
amore.
Certi
giorni, quando Ricca era fuori, si sentiva così solo che gli sarebbe
quasi
piaciuto tornare all’infanzia, a casa con una madre e un padre in preda
ad un
chiassoso litigio.
Oh,
se
la ricordava alla perfezione la separazione dei suoi genitori.
Quando
suo padre aveva scoperto che la moglie andava a letto con più o meno
mezza
Torino, tradendolo abitualmente e facendolo passare come il marito
scemo che
non si accorgeva di nulla, era andato su tutte le furie e aveva chiesto
il
divorzio immediato; la madre non voleva Davide tra i piedi, così era
stato affidato
al padre, che non gli dava molta retta, troppo preso a darsi da fare
con ogni
donna che incontrava.
La
solitudine era stata un punto fisso nella sua vita, che non se ne
sarebbe mai
andato, ormai si era rassegnato a quell’idea.
Se
solo fosse riuscito a creare una
band…
Ma
tutti i suoi amici erano buoni ad ascoltare
musica, non a comporla, quindi
il
problema di trovare ragazzi in gamba con cui mettere su un gruppo
diventava
serio; non avrebbe potuto di certo andare al Conservatorio e domandare
se
qualcuno degli studenti voleva fare un po’ di rock.
Lo
avrebbero cacciato a suon di calci, molto probabilmente.
Abbandonò
quei pensieri non appena vide la band salire sul piccolo palco di legno
marcio,
munita di strumenti e amplificatori che Davide agognava più di un
aumento di
stipendio.
Le
luci furono abbassate e l’atmosfera divenne molto underground,
cosa che gli fece volare la mente al CBGB &
OMFUG ̶
il cui nome completo “Country, BlueGrass, Blues and Other
Music For
Uplifting Gourmandizers” lo divertiva sempre
̶ ,
club dove si erano esibiti i
più famosi dei del rock n’ roll: dai Ramones a Patti Smith, i Talking
Heads ,
gli Heartbrakers e tanti altri.
Si
vide nel piccolo pub con una chitarra in mano, intento a suonare un
assolo
impossibile degno di Slash, mentre una folla di persone impazziva per
lui,
chiedendogli di fare il bis.
Davide,
hai ventitré fottutissimi
anni, dovresti smetterla di fantasticare.
Probabilmente
si perse la presentazione di quel favoloso
gruppetto di imbecilli, che sembravano essere appena usciti
da una rivista
per ragazzine adolescenti: portavano jeans così stretti che si chiedeva
come
facessero a non dolergli le palle e le loro magliette avevano delle
stupide
scimmiette disegnate sopra.
Dove
finiremo?
«Sai,
Dav, credo che questi qua abbiamo scambiato il Porto per un saggio
scolastico.»
la voce di Ricca, che sembrava essere sbucato dal nulla, risultava così
bassa e
sbiascicante che era difficile prendere sul serio ciò che diceva: era
sbronzo,
come al solito.
Si
era portato dietro una ragazzetta dai capelli blu, con tutta l’aria di
chi non
vede l’ora di farsi scopare in tutte le posizioni esistenti.
Buon
per Ricca.
In
effetti, Davide non aveva mai visto Riccardo con una ragazza; cioè, il
suo
amico lo aveva beccato più volte a letto con qualche ragazzetta nel
loro
appartamento, ma lui non si era mai trovato di fronte Ricca in
compagnia di una
bella donna.
Lo
vedeva solo pomiciare qua e là per i bar, ma niente di più. Forse quel
bastardo
aveva davvero un minimo di pudore che lui, invece, aveva perso per
strada.
«Mi
avevi detto che avrebbero suonato rock, cazzo! Che diavolo stanno
facendo quei
quattro deficienti?»
Una
voce squillante pronunciò quelle parole, sovrastando il rumore
insopportabile
che il gruppo stava facendo uscire dai loro strumenti.
Davide
si voltò e intravide una ragazza con dei selvaggi capelli rossi farsi
spazio
tra la folla, seguita da un giovane che doveva avere più o meno la
stessa età
della prima.
Cercò
di allungare il collo per vedere meglio, ma li perse di vista del tutto
e
dovette sedersi rassegnato, lanciando un’occhiataccia alla sgualdrina
in
compagnia di Riccardo.
Aveva
appena trovato una persona che, come lui e Riccardo, sperava che il
gruppo
della serata suonasse del rock n’ roll, cosa decisamente rara a Torino.
E
se l’era fatta sfuggire.
Ok,
non aveva senso quella sua mania per le persone che amavano la buona
musica,
come lui, ma aveva proprio voglia di fare due chiacchiere con qualcuno
che
parlasse di Guns N’ Roses e non di odiosi ragazzini in gonnella che
cantavano
stupide musichette commerciali.
Perché
era così ossessionato dalla musica?
Si
lasciò andare sulla sedia, ormai disperato dal suo comportamento
infantile; era
immaturo, lo sapeva, lo era sempre stato, ma ultimamente era così
peggiorato
che avrebbe potuto iscriversi di nuovo all’asilo nido.
Quand’è
che sarebbe diventato un uomo, avrebbe messo da parte i sogni
adolescenziali
per concentrarsi sulla vita reale?
«Andiamocene
Ricca, domani dobbiamo lavorare e questa roba fa così pena che me lo fa
ammosciare.»
L’amico,
invece di protestare per il forzato distacco dalla vogliosa fanciulla,
scrollò
le spalle e la abbandonò senza curarsi degli insulti che quest’ultima
gli stava
lanciando.
Quel
ragazzo era davvero strano.
Spintonò
un giovane ragazzo dai capelli blu che gli rivolse uno sguardo non del
tutto
amichevole, per arrivare finalmente al bancone, dove trovò subito una
ragazza
dal viso dolce presa a lavare bicchieri e riempire boccali di birra.
«Marta!»
La
barista si guardò intorno in cerca della persona che aveva appena
urlato il suo
nome e quando vide Davide e Riccardo, sul suo viso comparve un sorriso
sincero.
Abbandonò
il suo lavoro per un solo attimo e si sporse per baciare i due ragazzi
sulle
guance.
«Delusi,
eh?» scherzò, indicando con la testa la “boy band” adolescenziale, sul
palco.
Deluso
non
rendeva bene come si sentiva, il termine giusto era frustrato.
Il
mondo aveva smesso di interessarsi al suono che fuoriusciva da una
chitarra e
aveva preferito concentrarsi su registrazioni e voci manomesse in
studio.
Frustrante.
«Fa
così schifo che stiamo scappando.» intervenne il suo coinquilino, tutto
preso a
ispezionarsi le unghie, in un comportamento tipico di una donna.
Certe
volte Ricca lo lasciava perplesso.
«Almeno
voi che potete!»
Salutarono
ancora una volta Marta, prima di incamminarsi verso l’uscita, che
sembrava
lontana miglia, se si stava a guardare la marea di gente stipata in
quel buco.
Tutti
venuti a vedere questi
quattro ritardati.
L’aria
fresca gli diede una sensazione di benessere, ormai abituato a
quell’odore
stantio che donava al Porto un marchio di fabbrica.
Era
così tanto tempo che passava le serate in quel pub che si era
dimenticato che
nella vita potevano esserci altre cose, come il cinema, il teatro, una
passeggiata tra i portici di Via Roma…
Ma
continuava ad andare al Porto, sperando di sentire della musica.
«E
io che speravo di ascoltare musica!»
Di
nuovo quella voce forte e determinata, quella che aveva sentito prima
all’interno del locale, quella che aveva usato in una frase la parola
“rock”.
Davide
si voltò incontrando due grossi occhi verdi.
Aveva
trovato qualcuno che
conosceva il significato della parola musica.
****
Note
dell’Autrice:
Questa
mia Storia Originale vuole
trattare ̶ come già si nota in questo
primo capitolo di
introduzione ̶ l’argomento della musica,
in particolare
quella rock.
I
personaggi principali sono quattro,
già presentati in questo capitolo: Davide
Lombardo, Anne Melì, Matteo Damiani
e
Riccardo Sacco.
Il
contesto è la Torino dei giorni
nostri, un po’ priva di quel rock che farebbe piacere ai protagonisti.
Ovviamente,
verranno trattati tanti
altri argomenti, non solo quello della musica, che però farà da
contorno a
tutta la storia. Tema molto importante
sarà anche l’omosessualità.
In
questo primo capitolo ̶
e anche nel secondo ̶ verranno
per lo più presentati i personaggi, in modo che
capiate bene con chi avete a che fare.
Per
ora non voglio aggiungere altro, in
modo da non rovinarvi il prossimo capitolo.
Se
avete letto, vi prego di lasciare un
commentino, così potrò sapere se l’idea vi piace e se vi sembra giusto
continuare.
Un
abbraccio,
Eryca.