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Autore: ImInAcOmA    27/06/2012    2 recensioni
- Sono stanco. Ho suonato tre ore stasera-
- Ho suonato tre ore anch'io. Sai com'è, a rigor di logica pur'io sarei stanco-
- Si, ma io ho ancora un po di adrenalina da scaricare. Mi disturba, non riesco a dormire-
- La mia adrenalina è completamente dissolta stanotte, Matt -
- Non sono problemi miei -
Genere: Erotico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Dominic Howard, Matthew Bellamy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota dell'autrice: *Cucù!* Saluto tutte le pwoper lettrici di questo mio "ingenuissimo" primo esperimento belldom...mmh mmh mmh...O.o Mi scuso per l'eccessiva lunghezza ma era impossibile spezzarla vista la continuità del discorso :/ quindi a chi avrà la benedetta pazienza di leggerla tutta ed esprimere un qualsiasi parere, pisitivo o negativo, awwww tanto di riconoscenza *.* In realtà non so neanch'io cosa diavolo mi sia uscito fuori da questo cervello bacato, so solo che Mattie è un gran bello stronzo e Dom...beh Dom a me sinceramente qui fa piangere...Per come lo immagino io...:') Non vi anticipo più niente, vi lascio immergervi nella lettura, se volete :) immergervi perchè si tratta di un lavoro di taaaanta, taaanta introspezione...Spero di non annoiarvi, aspetto commenti!! ^^
Cheers xxx
Deni :)

Desclaimer: che palle questa burocrazia...-.- "I Muse non mi appartengono, ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale e bla bla bla eibfiqebivhqbvpjnvpiquhgpq..." xD
Naturalmente il titolo...inutile che lo dico, è scopiazzato da una loro canzone, e scopiazzamenti di tal genere sono praticamente ovunque nella fic xD...E che ci posso fare se sono ineguagliabilmente sublimi con le parole...*___* :)))


 


HYSTERIA

 
Era un bastardo, lui. Uno stronzo cronico. Un inguaribile narcisista. Con quel suo infantilismo e quello sguardo blu come un diamante che avesse fatto della notte la sua amante e prigioniera, legittimava ogni passione o capriccio del suo ego.

Ti guardava, con quelle iridi maledette nascoste sotto un bagliore di innocenza e ipnotica perfezione da mozzarti il respiro, con quella pelle d’avorio che giocava al tiro alla fune col tuo sguardo…e niente era più facile che credere che LUI, fosse capace di amare. LUI.

L’uomo è ossessionato dall’idea della gloria, della fama, del successo, del potere. Questa “Onnipotenza di Pensiero” è la linfa vitale del nostro esistere. Ma l’uomo cerca di essere il numero uno quando è convinto che non lo sia. Ci sono persone, invece, che non ne hanno bisogno. Persone che lo sono per natura. Come morbo latente e inesorabile, come nuvola offuscata e in espansione, è il loro stesso ego che invade il mondo, si fa largo nei pensieri razionali di qualche povero cane, e senza fatica, se lo ritrova tra le mani, il mondo, e sono convinti di esserlo essi stessi, e non con presunzione. Come se fosse ciò che di più normale ci possa essere. Perché, semplicemente, sono nati così.

Matthew Bellamy era il mondo. Era il mondo per se stesso, per qualunque persona incappasse nel suo fascino, per Dominic. Lo era soprattutto, maledettamente per Dominic. Era quell’insano veleno che gli scorreva in ogni vena del corpo facendole pulsare di piacere mentre lo trascinava lentamente verso la morte, era aria fantasma, inafferrabile, inconsistente, un miraggio, un’illusione. Era quel maledetto profumo che riusciva ad esserci anche quando LUI non c’era, che aveva rubato l’odore anche alle rose, e al mare, e alla pelle di un bambino, e li aveva inglobati tutti, e Dom no, non riusciva a sentire null’altro. Era quel pensiero fisso che ti strema sino a farti rabbrividire rievocando solo un fottuto, banalissimo ricordo, che ti spinge sull’orlo del precipizio dentro cui perderai quell’insignificante merda di dignità che ti è rimasta, che ti invade del terrore di stare per diventare pazzo. Era tutto questo e tutto ciò che da descrivere rimarrebbe.

Dominic, quel povero cane, era malato. Drogato sino al midollo da un esserino più forte di lui. E lo sapeva. Sapeva che qualche parte della sua mente tentava di difendersi. Come un urlo muto lottava perennemente e costantemente contro quella coscienza che era inebriata e sopraffatta dal piacere, dai brividi di ogni sensazione, dall’idolatria di ogni pensiero. La soluzione necessaria per sfuggire a quell’inevitabile morte era annientarlo, e l’impulso ad eliminarlo dalla faccia della terra c’era pure. Sempre. Dom sapeva anche che sarebbe stato fin troppo facile, sarebbe bastato un soffio di vento a spezzarlo come un fuscello. Il fatto, era che non voleva. Perché ogni volta, proprio quando sembrava sul punto di farcela, improvvisamente qualcosa gli offuscava la ragione…lo ubriacava di luce e calore…e il mattino dopo aveva come la sensazione di aver dormito a lungo dopo una sbornia, e momenti di appena qualche ora prima gli flashavano la mente come sogni allucinatori. Ahi, un dolore al petto. Sentiva sempre anche quello. Come il mal di testa pulsante del mattino post-sbronza colossale. Se gli metteste una mano sul cuore, lo sentireste battere. Piano, forse stanco dopo tutte le volte che ha preso la rincorsa anche solo nell’attesa dell’arrivo di Matt. Ma lo sentireste battere. Dom, invece, si mette una mano sul cuore, e sente il vuoto. Un burrone. Terrificante, senza fine, senza luce e senza suono. Ogni volta che usciva da quella stanza, un pezzo della sua anima si sgretolava, e cadeva giù, in quel burrone, e Dominic non sapeva se sarebbe riuscito più a recuperarla, e Dominic sentiva ogni fibra del suo corpo arrendersi, mentre perdeva se stesso. Per vedere quel burrone, basta che lo guardiate negli occhi. Quegli occhi grandi e grigi, affascinanti e felini, giocosi e vivaci, troppo belli per esser privati della loro luce.
 
Non era innamorato. Lo sapeva bene. Non sapeva neanche quale fosse il suo colore preferito. Non sapeva se avesse dei valori da portare avanti. Non sapeva quali fossero i suoi sogni mai realizzati. No, non poteva essere innamorato. Non lo conosceva, o meglio, LUI non si faceva conoscere. Era perennemente inafferrabile, incomprensibile, dalla personalità indecifrabile, imprevedibile e incoerente come quella di un bambino capriccioso. Dominic aveva provato più volte a comprenderlo. A capire come prenderlo. A decidere cosa fare quando il giorno prima quasi credeva di avercela fatta a farlo innamorare, e il giorno dopo incrociandolo nei corridoi del backstage tutto ciò di cui doveva accontentarsi era un gelido e disinteressato “ciao”. Forse dipendeva da lui, forse doveva farla finita con questa farsa da prima donna, forse a volte aveva solo bisogno che gli si chiedesse come stai, che qualcuno l’ascoltasse.

La verità, ovvero che LUI non stesse effettivamente mentendo quando al suo “C’è qualcosa che non va? A me puoi dirlo, lo sai”, rispondesse con un atono “Oggi non mi fotte di fare niente”, bussava alle porte della coscienza di Dom. Ma lui, tanto per cambiare, chiudeva quella porta, e non ascoltava. Da sei anni, chiudeva quella porta. E decideva di continuare a farsi del male. Perché…? Non era mai riuscito a spiegarselo. Perché non ne poteva fare a meno.

E così, si ritrovava ogni volta ad assecondare il dottor Jekyll e mr.Hyde. Incatenato alla sua volontà, doveva ammettere che, alla fine, non c’era nessun’altra via d’uscita. Era schiavo della sue decisioni, di ogni suo gesto e di ogni suo sguardo, di quelle mani che lo prendevano come nessun altro e gli dicevano “adesso voglio giocare con te”, e lui glielo lasciava fare. Era schiavo maledettamente delle sue stesse passioni. Che lo bruciavano, lo logoravano. E’ possibile provare la sensazione di essere nell’esatto centro dell’inferno e del paradiso contemporaneamente? Era l’unica descrizione che riuscisse ad avvicinarsi lontanamente alle sue sensazioni. Dominic sapeva che cos’era. Dopo sei anni l’aveva capito bene.

Aveva parlato tanto con se stesso. Notti intere con la porta chiusa a chiave, un universo là fuori e lui, piccolo accartocciato, insignificante e raccapricciante essere rannicchiato sul pavimento, in un angolo di quel muro nero di muffa a imbevuto di umidità, le ginocchia al petto e i capelli biondi che mandavano bagliori sotto quel sottile raggio di luna che vi si specchiava attraverso la finestra semichiusa. Pensava. Pensava ed era giunto alla conclusione che il problema non poteva essere Matthew. Lui non aveva colpa se era al mondo ed era fatto così. Il problema doveva essere se stesso. E quello che gli rosicava lo stomaco, e quello che gli si fermava in gola e la stringeva talmente forte da sembrare stesse per soffocare, e quelle cose che gli scendevano giù dagli occhi la sera, quando si tirava il lenzuolo fin sopra le orecchie e si vergognava perché aveva vent’anni, e perché era un uomo, e perché era di sesso maschile, e quelle cose non sarebbero dovuto scendere liggiù a solcargli le guance e a sbarrargli il sorriso; il problema era quel cuore che batteva. E non era vuoto. Dom sapeva benissimo che, fosse stato per lui, ci avrebbe messo un giorno ad innamorarsi. Certo, se Matt fosse stato un’altra persona. Ma era quello che era, e perciò Dominic non era innamorato. Era ossessionato. E Dio sa quanto l’ossessione può essere peggio dell’amore.

“I want you now, I want you now, I feel my heart improve”.

Quando Matthew entrava in camera sua senza neanche bussare e posava la chitarra –non priva di botte, tanto per cambiare- lì, sempre nello stesso angolo.
E lo guardava muoversi, e di quella schiena perfetta e di ogni sporgenza disegnata dalla sublime follia di Michelangelo, ne percorreva ogni millimetro con lo sguardo. E come si muoveva. Con quella camminata leggermente ricurva e quei gesti che parevano flussi di scariche elettriche. Dio, non c’era nessun’altro al mondo che si muovesse a quel modo. E Dominic, tutta la sicurezza che gli mancava, dentro se stesso, LUI riusciva a trasmettergliela così, per una strana specie di infusione, chimica, magnetica, un flusso di energia, e forza indomabile. Eppure, guardandolo, che fosse un innegabile centro gravitazionale di forza ed energia non si direbbe. Dominic avrebbe sfidato chiunque a dire il contrario dopo averlo visto su un palco o dopo esser caduti nella trappola del suo sguardo. Chiunque. Perché non poteva immaginarsi neanche come non avrebbe potuto essere così. Lui ci cadeva sempre, in quella trappola. Ingenua e giovane farfalla intrappolata nella SUA ragnatela dell’illusione.

- Sono stanco. Ho suonato tre ore stasera –

Indietreggia. Dieci passi fra lui e il letto. Le lenzuola della notte prima. Erano ancora un po’ spiegazzate, come la pelle di un vecchio. Forse anche quelle lenzuola erano stanche di essere usate da troppo tempo.

-Ho suonato tre ore anch’io. Sai com’è, a rigor di logica pur’io sarei stanco –

Troppe parole, Dom. Così non va bene.

Indietreggia. Cinque passi fra lui e il letto. Per Matt è il suo secondo habitat naturale dopo il palcoscenico. Avanza. Per quanto gli riguarda, non vede l’ora di raggiungerlo.

- Si, ma io ho ancora un po’ di adrenalina da scaricare. Mi disturba, non riesco a dormire

- Vai a strimpellare al tuo stupido pianoforte. Vai a sfracassare un’altra decina di chitarre, vai a fare bunjee-jumping dal balcone, vattene a fanculo, vai dove cazzo ti pare ma stai lontano da me –

Si Dom, però continui a indietreggiare…

Matt piega di lato la testa, e il batterista sta affogando in quegli oceani blu in tempesta. E il cuore gli batte forte. Com’è piccolo, lì di fronte al mondo.

- Non ti lascerò dormire, Dommy. Sai che ti starò nelle orecchie tutta la notte. Sai che c’è una chitarra e molte altre cose infrangibili in questa stanza, vero…?  -

“Mefistofele. Tu e quel maledetto sorriso. E sprigioni luce come una stella”.

“Starlight, I will be chasing your starlight, until the end of my life…”


Indietreggia. Due passi fra lui e il letto.

- La mia adrenalina è completamente dissolta stanotte, Matt –

- Non sono problemi miei –


Sa essere fulmineo come un serpente a sonagli e usare una lentezza estenuante contemporaneamente. Che ogni centimetro di pelle ti trema d’eccitazione. Che pensi “ecco, merda, ho le mani bagnate”. Che improvvisamente l’aria è solo anidride carbonica e la testa ti gira.

Il respiro caldo del moro gli congela le labbra. Le congela, perché Dom sta tremando tutto. Ed è incapace di muoversi. E brividi di freddo disegnano spasmi quasi invisibili sulle sue membra. E un calore improvviso gli percorre ogni vena e gli infuoca le tempie. Ha caldo e ha freddo. Matt profuma, e la sua ragione si arrende a trovare un motivo per continuare ad esistere.

- Sono problemi miei, infatti. Anche i miei problemi è ora che inizino ad avere importanza, non credi Matt…?! –

- …Mmmhh… -


Gli occhi del moro ormai parlano solo con le labbra dell’altro. Intenti già a pregustare quella danza di lussuria che avrebbe condotto lentamente. Perché così gli piaceva. Perché così ci godeva di più. Perché anche Dom godeva fino alle stelle e perciò gli avrebbe fatto più male al cuore.

Un tonfo. Il letto stanco cigola. La V della camicia nera lucida di Matt, semiaperta, lasciava intravedere quel luogo in cui Dom avrebbe voluto essere amato. A volta voleva chiederglielo, se gli avesse lasciato fare in modo che il suo, di cuore, battesse per entrambi.
 
Non erano altro che ossa, nervi, e una sottile fascia di muscolo tesa sotto quella pelle liscia e vitrea, quelle braccia, eppure sembravano Ali così grandi e forti, che avvolgevano Dom e lo sollevavano su, in paradiso. E Dom gli afferrava i capelli dietro la nuca, e li stringeva tra le dita e li spettinava più di quanto già non lo fossero –oh, come gli piaceva che li portasse così come si alzava dal letto al mattino - , e li imbrattava del suo stesso sudore, i rimasugli delle sue follie da rockstar. E l’altra mano vola sulla schiena di Matt, e scivola verso su, e preme con i polpastrelli, e a Dom piaceva che Matthew fosse così magro perché ogni singolo particolare di lui si esponeva senza inibizioni, e ogni singolo pezzo di lui gi diceva “fai l’amore con me”. L’aveva fatto. Lo faceva sempre. Avrebbe saputo descrivere con la precisione di un chirurgo ogni centimetro di LUI. L’amore, certo. Lui faceva l’amore. Qualcun altro, in quella stanza, forse era capace solo di fare sesso.

- Ti odio, Matthew James Bellamy –

- Non dire cazzate. Se mi odiassi non saresti qui  -


Zittito. Chissà che sensazione doveva essere, VINCERE.

Ancora viaggiavano quelle dita da batterista pallide ma forti, come acqua di ruscello scorrevano sulla schiena di Matt, ne levigavano ogni contorno, ogni sporgenza, e siccome adesso non gli bastava più scivolano e si intrufolano sotto quella seta che sembrava forgiata col carbone. “Dio, Matt, sei fottutamente ridicolo con questa roba giapponese incollata addosso”.

Ed ora i suoi sensi non chiedevano di più, e si apre, il palmo di Dom, e stringe Matthew a se, con le braccia, quasi lo volesse inglobare tutto. Sente i suoi brividi, e LUI che si lascia stringere, e in quel momento il biondino non allenta la presa, no, non se lo sognerebbe mai. Lo tiene più forte, più stretto, come avesse paura da un attimo all’altro di vederlo volare via.

But I still take all the blame, ‘cause you and me are both one and the same, and IT’S DRIVING ME MAD, AND IT’S DRIVING ME MAD”

Una lacrima non chiese neanche il permesso, ed evase dalla sua anima ridotta in frantumi. Luccicava, unica, piccola, trasparente fonte di luce in quella notte senza stelle. Scese, quella lacrima, giù fino all’angolo della sua bocca dischiusa, e forse la labbra sottili e rosse di Matt non se ne accorsero neanche, quando se la portarono via.

Dom voleva ucciderlo. Perché un essere indifferente non aveva scopo in questo mondo. O uccideva lui, o uccideva se stesso. Se fosse stato capace di pugnalarsi il cuore senza morire, l’avrebbe fatto all’istante. Se fosse stato in grado di trovare la forza di dire “NO”, l’avrebbe lasciato lì a bocca asciutta –non sicuro che a Matt fosse importato realmente qualcosa - , ma quella forza era sepolta sotto il macigno del peccato, della lussuria, e dell’illusione, e rappresentava la perenne debolezza umana di fronte alla tentazione. Se avesse ancora dentro se un barlume di ragione, avrebbe fatto della disumanità di quell’altro un motivo più che sufficiente per staccarsene, mandarlo all’inferno, e costruirsi una vita senza quella dipendenza embrionale e parassita. Ma chiudeva gli occhi, squarciava la gola alla coscienza divenendo forse un po’ disumano anche lui, e continuava a baciarlo. Ed era una incessante tempesta di fuoco e luce, di gesti squallidamente incoerenti, e voleva allontanargliele, quelle mani lunghe e perfette dal suo petto, perché non voleva che sentisse il suo cuore battere così dannatamente forte, non voleva…che scoprisse il suo segreto. E voleva allontanarlo, e spingerlo via, ma era inglobato, erano un tutt’uno e ormai non esisteva neanche più il confine tra la sua pelle e la pelle di LUI, e perciò quella forza che serviva a scaraventarlo lontano finisce che inverte solo le posizioni. Matt sbatte con la schiena su quelle lenzuola bianche e Dom gli è sopra. E lo guarda, e gli scalda le labbra col respiro. Matt gli parla con un sorrisetto sghembo di chi già sembra avergli letto nel pensiero ogni minima intenzione. Il biondo lo accarezza con un ciuffo di capelli malandrino che gli cadeva umido sugli occhi, il Sole innamorato che fa dono della sua luce a LUI che è bello come la Luna, e le sue labbra trovano la pace dischudendosi sulla fronte del moro, un tocco tanto leggero, lento e delicato quanto forte, incontenibile, estenuante fosse ciò che in realtà avrebbe voluto dirgli, con quel bacio.
 
Cosa pensavi che avrei fatto, Matt...Non hai capito niente. Sei solo uno stupido coglione.
Sei un coglione quando mi lanci le chitarre in testa sul palco e tutto ciò che sai dire dopo esserti accorto che ho uno squarcio di tre centimetri sulla fronte è “sorry, man”. Sei un coglione quando ridi come un coglione e pensi di non avere effetto su di me con quella risata da coglione. Lo sei quando ti passi una mano tra i capelli, lì, dietro il collo, ed io non so se lo fai apposta e sei un grandissimo coglione lo stesso perché mi fai impazzire. Lo sei quando vieni da me che puzzi di sudore e alcool e sigaretta e Dio solo sa cosa diavolo hai combinato quella notte, e io ti accolgo tra le braccia, ti reggo in piedi perché neanche ce la fai più, ti faccio stendere sul mio letto e spengo la luce, perché per me sei bellissimo anche così, perché tu in quelle condizioni ti ci sei ridotto nella tua camera d’albergo con una troupe di almeno cinque groupie, mentre io ero qui ed aspettavo solo te. 
 
Sei un coglione e basta. Lo sei sempre stato e lo sei ancora in quest’istante quando pensi che le mia mani stanno viaggiando su quelle timide sporgenze che madre natura si ostina a chiamare presuntuosamente addominali solo per farti godere, o per goderci io. Io godo perché è meraviglioso che ogni pezzo del tuo corpo mi ricordi qualcosa. E’ come una mappa magica in cui mi perdo a pensare, a rievocare, a immaginare, e sorrido.
Ora, ecco. Ora ricordo quella pelle tesa, sottile e immacolata quattro anni fa. Era invasa da macchie violacee e scure, altre più rossicce, la porta di camera mia era sempre aperta a te che due giorni si e uno no tornavi con ematomi e lividi coperti, per quel che bastava, da quella felpa dove ci stavi tre volte che ormai era impregnata di sudore e salsedine e ghiaia. Sceglievano i posti naturalmente più isolati, quei bastardi, anche se a Teignmouth non aveva tanto senso nascondersi, visto che la criminalità in quella fogna marcia e a misura di terza età in cui il destino ci aveva mollati a vivere la nostra adolescenza, è un hobby. Ti massacravano perché ancora una volta sei un coglione e chissà in quali porcherie ti andavi a immischiare, in quel buco di teppisti disastrati. Ti buttavano a terra e si divertivano come animali perché tu, mio ometto coraggioso e con l’orgoglio che ti scoppiava dentro, ti alzavi e ti mettevi contro cinque, sei di loro, con i tuoi occhi blu che non sapevo se scintillassero di rabbia, di umiliazione o di dolore, e non facevi altro che rendergli il gioco più spassoso, perché loro ti ributtavano giù, e tu ti alzavi, ti affondavano la punta delle scarpe nello stomaco e nella schiena, e tu ti rialzavi ancora, fino a quando inevitabilmente l’avevano vinta, perché sei un insignificante ammasso di nervi e ossa, e il tuo viso magro e pallido era contratto in una smorfia di Dio solo sa quali sentimenti ti ribollivano dentro quando ti tamponavo le ferite e mai, mai una lacrima ho visto uscire dai tuoi occhi se non il giorno in cui hai capito che i tuoi presentimenti sul futuro della tua famiglia erano reali.
Tuo padre se ne andò di casa, e tu cominciasti a riflettere su quale grande, ineguagliabile fregatura fosse l’amore. Vedevo te perdere fiducia in ogni singolo pezzo di questo mondo, e me ubriacarmi al pub per ragioni neanche lontanamente simili alle tue. Perché io la facevo senza ragione. Vedevo te amare tua madre come se ti sentissi in dovere di donarle, oltre al tuo affetto, anche quello che tuo padre le aveva negato, e me passare il natale tra i sorrisi e la gioia di tutti i miei cari. Non sono neanche sicuro che tu abbia più ricevuto regali di natale, dopo quell’evento. Non sei mai stato uno normale, ma so che prima amavo dei tuoi occhi quello scintillìo che pareva il riso di un bambino, dopo il mondo ti ha violentato, ti ha preso a calci e a pugni e ti ha detto “cresci immediatamente, ingenua testa di cazzo”, e quell’alone di mistero che ha sostituito la spensieratezza in quei diamanti blu, da allora mi ossessiona.
Mi sono sempre sentito in dovere di proteggerti, perché nonostante tutto e in sei anni hai continuato a venire sempre da me, e da me continui a tornare. Non mi è mai importato di essere usato, buttavo ogni interrogativo razionale nel cesso perché ti ho visto soffrire, e forse tu sei solo tutto una dannatissima, stramaledetta copertura, e fai lo stronzo, ma forse…forse poi in fondo sei innamorato di me. E se ancora non lo sei io tento, con tutte le mie forze, di farti innamorare, di non sparire, di non abbandonarti, di esserci sempre per te, di essere il tuo punto di riferimento. Sto continuando a provare, da un tempo che mi sembra lungo una vita, e che non basta mai. Quello scudo infrangibile di sicurezza che la vita ti ha obbligato a forgiare per sopravvivere ti ha permesso di portare la nostra band alla vetta del successo, del clamore, del sublime, da ogni lato. Senza di te, la band non sarebbe neanche esistite. Senza di me, forse si. L’unica possibilità che rimane in gioco è la consapevolezza che quella maschera di sicurezza, alla fine, sia diventata la tua faccia. E che non hai alcun bisogno di me, ora non più, perché non nascondi un bel niente sotto quella maschera, perché sei stronzo, mi hai usato, ed io ti ho rincorso per tutta una vita; per tutta la vita, o per quella parte che conta, almeno, sono stato incatenato a te, e di me ho perso ogni traccia. Forse è ora che mi cominci a voler bene un po’ anch’io. Perché sin’ora ho amato TE più di quanto ami me stesso, più di quanto ami ogni cosa del mondo, più di quanto ami la mia stessa vita. Amo il cibo giapponese perché in tour ne mangiavamo insieme così tanto sino a vomitare, amo la mia prima, stupida chitarra di nylon perché è quella con cui ti ho insegnato a strimpellare i primi accordi, amo quella maestosa chitarra elettrica che manda bagliori sotto la luce della luna, lì, sul pavimento dove l’hai mollata tu, perché mi ricorda quanto fottutamente grande e geniale sei diventato ora; amo ficcare la faccia nel cuscino fino a soffocare ed annusare i vestiti la sera, perché il mondo intero sa del tuo odore. Amo questo preciso istante che scorre lento imprigionato nella notte, perché non ti accorgi che sto sorridendo guardandoti dormire,  e perché se faccio abbastanza silenzio da non respirare riesco a sentire il tuo cuore battere.
Mi hai lasciato con la verità più straziante che si possa conoscere. Una verità nichilista, maligna e deludente, imbevuta di una tristezza che mi sta dilaniando il cuore. Quella che alcune persone non sono capaci di amare.
L’unica cosa che mi viene da fare, come se fosse la più naturale di questo mondo, un bisogni irrefrenabile che sono costretto a soddisfare, è quello di pregare quel Dio che forse neanche esiste di renderti un’altra persona. So che non sarò più tormentato dalla tua presenza ne dalla tua assenza, se diverrai un altro. Perché è la maledizione che porti dentro che mi ha stregato, e mi ha ucciso. Ma allora sarò abbastanza felice da sapere che tu sarai diventato capace di amare, e che tu sei felice, perché la tua felicità è e sarà sempre la mia.
Prego che il tuo cuore un giorno batterà d’amore, non riesco a chiudere gli occhi…e penso che pregherò tutta la notte.”

 
Mattina. Per Dominic Howard era la prima volta che vedeva un tramonto e un’alba separarsi lentamente dai lunghi e affascinanti tentacoli della notte. Due occhiaie leggermente scure gli coloravano quel viso più pallido del solito, più pallido delle mattine eredi delle follie col Jake ‘n Coke. Piegò leggermente la testa di lato spostandola da quel solco di cinque ore incavato nel cuscino, e mai come quella mattina il non aver disfatto i bagagli gli venne comodo. Ma non gliene importava.
Mai si era sentito così. Perché mai si era trovato a dover prendere una decisione. Gli era stato sempre tutto messo davanti al naso, tutto servito su un piatto d’argento, la carriera, il successo, i soldi, le soddisfazioni. Ora quella decisione lo straziava a morte perché ripagava tutta la difficoltà di quelle scelte che non aveva mai accettato di compiere, da cui era scappato, codardo, vigliacco, tragicamente cieco di fronte alla verità. Quella era la decisione che gli avrebbe cambiato la vita.
 
Mosse quei muscoli intorpiditi, si levò sui gomiti e il letto stanco cigolò. Ciuffi neri e scompigliati macchiavano il bianco candido delle lenzuola nella parte opposta del letto.
 
Eccoti. Oh, si, hai sempre avuto la fissa di dormire al contrario, tu. Stupido coglione, Matteh.”
 
Cigolò ancora, quando Dom vi affondò le ginocchia, e avanzò carponi, silenziosamente, con quella premura che Matt nella sua vita non avrebbe mai potuto ricevere da nessun altro che non fosse lui.
 
Una lacrima, piccola, l’ultima…venne catturata dai raggi del primo sole, e brillò. Brillava ancora, quando si posò sulla tempia di Matthew, e decise di fissare lì il suo eterno riposo. Le labbra di Dom la sigillarono, e l’ultima cosa che desiderò fu di poter portare il ricordo di LUI, lì inerme come un bambino, sublime nel suo essere, nella sua mente per il maggior tempo possibile. Fino a quando se ne fosse dimenticato, e avrà imparato ad amare se stesso più di LUI. Fino a quando Dominic Howard avesse ritrovato finalmente la strada di casa.
 
Nessun segno di risveglio quando il biondo lo lasciò per sempre tra quelle lenzuola e le sue sicurezze, ancora niente quando la tela del borsone con il logo della band frusciò alzandosi dal pavimento, e nulla quando la maniglia scattò sotto quella mano che si concesse ancora un ultimo istante di indecisione del batterista.
 
Si chiuse la porta alle spalle, e se ne andò.
 
 
 
  
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