Serie TV > Glee
Ricorda la storia  |       
Autore: Medea00    01/07/2012    8 recensioni
Blaine è un pianista, Sebastian un violinista, entrambi studenti al conservatorio Franz Liszt di New York. Si ritrovano costretti a suonare insieme per un concorso importantissimo che, lo sanno bene, se vinto determinerà la loro carriera.
Ma chi lo dice che non determinerà anche qualcos'altro tra loro due?
Tratto dal capitolo 9:
"Per questo Liszt ammirava molto Chopin. Per questo Liszt era l'unico in grado di suonare i brani di Chopin, come diceva lui stesso. Si capivano. Forse erano gli unici in grado di farlo.”
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri | Coppie: Blaine/Sebastian
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


 Liszt&Chopin





Capitolo 1


 

 

Quando sei un musicista sei abituato a prestare attenzione a tutti i suoni.

Come quello di una dissonanza, di una corda danneggiata, di un respiro preso male o di un colpo di tosse timido e spossato; e poi ci sono tutti quei suoni che non desideri davvero sentire, ma che ti arrivano comunque e tu non puoi fare altro che assimilarli. Come la sveglia alle sei del mattino, che ti assorda e innervosisce con il suo do diesis computerizzato, o come quello della voce di tua moglie che si sveglia strillando: nessuno sa esattamente come succede, si sa solo che il fracasso dell’aspirapolvere a confronto sembra la carezza delicata di un’arpa.

E poi si aggiungono all’orchestra nipoti che piangono, cani che abbaiano, tè che fischia, porte che sbattono ed ecco che ti ritrovi a sognare di essere Beethoven. No, non un genio: sordo.

Questo è quello che pensava Robert Cage ogni mattina, dall’angolino del suo letto a due piazze; questo è quello che gli accadeva, fondamentalmente nello stesso ordine; ma lui, in realtà, non se ne lamentava più di tanto: era fatto così, era una di quelle persone che assimilava in silenzio, per poi sfogarsi contro qualche malcapitato studente. Sì, perchè Robert era un professore: era il professore, in verità, quello amato e odiato, dal talento strabiliante e purtroppo mai sfruttato a causa della guerra. Si divertiva sempre a raccontare aneddoti di lui che rimorchiava qualche straniera con il solo uso delle note di un violino. Così, dopo anni e anni di studio, musica e fatiche, gli fu offerto un posto di lavoro al conservatorio “Franz Liszt” di New York, uno dei più rinomati del paese.

Erano ormai trentacinque anni che lui viveva lì, tra ragazzi, spartiti, rimproveri e odio, ma di quello vero: non c’è astio più vivo di quello musicale. Si può percepire con gli occhi, si aggrappa ai muri insonorizzati delle sale prove. E quello sarebbe stato un giorno pieno di competizione, lo sapeva bene: i test di ammissione per il diploma di specialistica, dopo aver conseguito quello per la triennale, erano senza dubbio i più difficili e tormentati di tutti e cinque gli anni. Delle trecento persone diplomate all’anno, meno della metà sarebbero riusciti ad entrare nel corso, per ricevere insegnamenti da alcuni degli insegnanti più qualificati d’America. E per avere una minima possibilità di successo, bisognava essere letali; al Franz Liszt non c’erano amicizie, ma coalizioni. Era sempre stato così, perchè certe cose non cambiano mai. Non potevano cambiare, ed il motivo, poi, era ovvio: chiunque facesse parte di quella scuola aveva un sogno ben preciso: la carriera.

Chiunque uscisse da quella scuola, aveva il cinquanta per cento di possibilità di essere preso in qualche famosa orchestra: esatto, solo il cinquanta. E’ un mondo duro, quello della musica, c’è una bella differenza tra il vivere grazie ad essa e il sopravvivere. Dopotutto, già la preparazione didattica era sin troppo cara: la retta dei migliori conservatori era al pari di università come Harward, Yale o Princeton. Quindi, ovviamente, era molto frustrante studiare per tre anni una materia per poi venire scartati proprio nel momento della resa dei conti, dell’applicazione pratica, ad un passo dal grande lancio.

In realtà, il conservatorio era strutturato in modo più che efficiente: nessun professore di strumento doveva avere più di dodici studenti per corso, e a questi veniva garantito il massimo della professionalità. Le lezioni di teoria, invece, venivano svolte nell’aula magna e frequentate da tutti gli allievi. Era un sistema molto rigido, veniva richiesta la frequenza obbligatoria e concesse soltanto due assenze ingiustificate a semestre, ma alla fine di due faticosi anni di studio nascevano artisti di fama mondiale, e con tecnica impeccabile.

Dopotutto, il conservatorio portava il nome di Franz Liszt: come diceva sempre lui, la pena e la grandezza sono il destino dell'artista. Ogni ragazzo che varcava le soglie di quell’edificio grande ed intimidatorio poteva leggere quella frase, marcata su uno stemma all’entrata; le prime volte si soffermavano, leggevano con una certa emozione sognando in un destino glorioso quanto il suo. Poi, con il passare del tempo, quell’insegna diventava quasi un’utopia che li salutava ad ogni nuovo fallimento, che fosse tecnico, psicologico o morale.

Adesso, il professor Cage osservò quell’insegna con una smorfia, preparandosi mentalmente alla lunga giornata che gli si prospettava davanti: non solo era uno dei giudici incaricati di valutare gli esami di ammissione, ma gli era stato affidato anche un compito molto difficile e, francamente, estenuante. Certo, era meravigliosa l’iniziativa offertagli dalla scuola, ma lui cominciava ad avere una certa età e la fiducia nella volontà e nel talento dei ragazzi diventava sempre meno. Adesso erano semplici, frettolosi: volevano tutto e subito e non si preoccupavano del modo con cui sarebbero arrivati in cima alla vetta; non si preoccupavano di ammirare il suono di un pianoforte, bastava che suonasse quelle note senza troppe stonature. Era colpa della televisione, diceva sempre lui: ai suoi tempi si viveva con la radio, e la radio era molto più libera per l’immaginazione.

Portandosi avanti il suo vecchio bastone di faggio, salutò la gentile ragazza della portineria, ricevette il caffè offertogli dal suo collega di storia della musica e si diresse verso l’aula delle prove, l’ultima in fondo al corriodio: qualche giovane era già lì, che lo aspettava passeggiando avanti e indietro. Continuavano a sfregarsi le mani e saltellare come se stessero per correre una maratona.

“Troppo impazienti”, mormorò con la sua tipica voce ferma e ovattata allo stesso tempo. I ragazzi lo salutarono con riverenza, attraverso dei cenni del capo: senza attendere un secondo di più, Robert aprì la porta e li dispose su delle sedie aderenti al muro, in modo da lasciare il resto della stanza libero, con tutti i suoi strumenti. Il fatto che dovessero essere tutti  spettatori era una sua prerogativa, voleva ricreare una tensione simile a quella di un concerto, con la piccola aggiunta che in quel momento, oltre a dover fare un’ottima esibizione, si valutasse anche il futuro della propria carriera. Niente di più semplice.

Mancavano venti minuti all’ora stabilita per cominciare l’esame, così si sistemò meglio la giacca, sedendosi su uno sgabello del pianoforte a muro e cominciando a stilare tutti i nomi presenti nella lista: centoventi ragazzi. Quindi, aveva da scartarne solo settantadue, perchè ragionava così, lui: bocciava più ragazzi possibili, e sperava che ne restassero almeno dodici per materia. Se avesse effettuato il procedimento contrario, probabilmente, non si sarebbe fermato più.

Era uno dei pochi insegnanti ad essere un polifonista, perchè diceva sempre che, ai suoi tempi, non si poteva campare con un’arte sola; era esperto in violino, pianoforte, violoncello e oboe, senza contare la sua eccellente cattedra di armonia e composizione. Per quel motivo spettava sempre a lui il compito più difficile, quello di esaminare gli ex-studenti del terzo anno interessati alle sue materie.

Erano ormai arrivati tutti, o meglio, tutti quelli con il coraggio di tentare l’esame; stava quasi per chiudere le porte e cominciare a parlare quando una voce da in fondo al corridodio lo pregò di aspettare, facendolo sussultare un attimo.

“Blaine Anderson”, mormorò, squadrando il ragazzo dall’alto verso il basso rivolgendogli un’occhiata accigliata.

“Mi scusi professor Cage, le chiedo profondamente scusa.”

Il ragazzo di fronte a sè ansimava, fu costretto ad appoggiarsi alle sue stesse ginocchia pur di riprendere fiato: aveva i capelli scompigliati, probabilmente perchè schiacciati dal casco che stava stringendo in una mano; i suoi occhi nocciola saettavano da una parte all’altra cercando di controllare che camicia, pantaloni e cintura fossero sempre al solito posto.

“Arriva sempre per il rotto della cuffia, signor Anderson”, gli fece notare il professore con un tono divertito. Conosceva quel ragazzo; lo conosceva bene, per questo non riuscì a trattenere quel suo piccolo sorriso nato sulla punta delle labbra. Ma sparì presto, nel momento in cui il mormorio alle sue spalle diventò quasi inascoltabile e tutto formato dalle stesse parole: Blaine Anderson, il borsista, il lecchino, il fantomatico genio.

Ed era vero: Blaine Anderson era uno dei pochissimi studenti in quella scuola ad aver ottenuto una borsa di studio per merito; lo aveva esaminato proprio lui, il professor Cage, appena tre anni fa. Ma in quella scuola il merito non era visto di buon occhio, significava corruzione, invidia, e anche pietà per uno che non poteva permettersi di pagare la retta intera.

Ma Blaine non era arrivato fino a quel punto per chissà quale favore sessuale, come spesso gli veniva insinuato dal momento che era gay e che il professore sembrava di mentalità piuttosto aperta agli occhi di tutti: lui, quel posto, se lo era meritato. Ma nessuno aveva il coraggio di riconoscerlo, forse, perchè nessuno lo aveva mai sentito suonare: ci fu una sorta di apprensione nel momento in cui entrò nella stanza, il silenzio calò su tutti i presenti e lui si sentì improvvisamente osservato da un migliaio di occhi famelici.

Si sedette in un angolo appartato, lisciandosi i pantaloni e controllandosi timidamente la condizione del suo cravattino: forse non era stata una buona idea quella di andare in moto, soprattutto senza giubbotto e spartiti. Ma no, sarebbe andato tutto bene: lui era pronto e avrebbe superato quel test di ammissione, anche a costo di inventarsi delle note di sana pianta perchè non si sarebbe ricordato il brano a memoria.

Seguì il professor Cage con la coda dell’occhio, lo vide chiudere le porte con cura e richiamare l’attenzione degli studenti; socchiuse gli occhi, emettendo un piccolo sospiro: chissà, magari sarebbe riuscito a tornare a casa per ora di pranzo.

“Allora – esordì Robert maneggiando la penna con cura, che scivolava morbida in mezzo alle sue dita lunghe ed allenate – sapete tutti cosa dovete fare no? Vi chiamerò uno alla volta, vi presenterete qui davanti a me e annuncerete il brano da fare. Se non avete rispettato le regole del bando, ossia, un pezzo di musica classica dalla durata minima di sette minuti, potete anche lasciare questa stanza nell’immediato.”

Nessuno dei presenti si mosse.

“...Bene.”

Almeno i ragazzi di quell’anno sembravano essere relativamente svegli; forse i suoi colleghi del triennio avevano fatto un buon lavoro, quella volta.

Senza ulteriori indugi, chiamò il primo studente, e l’esame cominciò.

Si chiamava Dean, aveva ventitrè anni e suonava il violoncello: il suo secondo movimento di Brahms apparve sconnesso, poco trasportato, c’era troppa emozione in quei respiri e ciò non fece che danneggiare la sua esibizione; nonostante il pianoforte di accompagnamento risultò eccellente, si ritrovò costretto a bocciare il ragazzo, barrando una piccola casella accanto al suo nome. Tuttavia gli sorrise e lo invitò a sedersi: era pur sempre un buon uomo, Robert, e quel giovane avrebbe avuto tutto il tempo di abbandonarsi alla disperazione una volta visti i risultati affissi in bacheca.

Il secondo ragazzo, invece, si occupò del pianoforte: aveva un tocco legnoso, rigido e sin troppo calcolato. Il suono uscì meccanico come se fosse scandito da un metronomo presente solo nella sua testa, e per diversi minuti la stanza si riempì di una strana atmosfera gelida. No, non andava bene: nemmeno lui, in realtà, lo aveva convinto pienamente.

Un altro pianoforte, e poi un violino; un violoncello per niente male – si riserbò il diritto di rivalutare la sua casella sbarrata, al fine della valutazione – e poi un flauto, tutti privi di consistenza, tutti sin troppo inesperti. Quello era il Franz Liszt di New York, e da qualunque triennale venissero, che fosse una statale, o quella stessa scuola, loro dovevano risultare all’altezza; non si pentì di aver barrato la casella di un’ottantina di studenti, tutti quanti con le stesse imperfezioni.

La steccata di un ragazzo al pianoforte gli fece quasi perdere la pazienza, alzandosi dallo sgabello di scatto. “Ti sembra questo il modo di suonare Grieg!?” gli voleva dire. Invece, si limitò a congedarlo, consigliandogli di andarsi a bere uno o due litri di camomilla.

E no, non ce l’avrebbe fatta: era quasi tentato di mandare tutti i ragazzi a casa così da finire una volta per tutte quell’interminabile supplizio.

Incredibilmente, la trentesima ragazza non fu affatto male: era un pianoforte dolce, vivace; il suo tocco era delicato e forse troppo leggero, ma interpretò Mozart con garbo e una certa dolcezza che la resero ancora più affascinante.

“Bene”, le aveva detto una volta terminata l’esibizione, guadagnandosi una piccola riverenza e un grazie sussurrato tra molti sospiri. Quello gli diede la forza di andare avanti a bocciare altre venti persone, senza sentirsi troppo in colpa.

Dopo circa un’ora di diverse esibizioni, si passò una mano trai capelli brizzolati, scorrendo l’indice lungo il prossimo nome della lista.

Ah, bene. Era dunque arrivato quel momento.

“Sebastian Smythe.”

Continuò a fissare il foglio, per una dozzina di secondi affilati come lame: alla fine, il professore alzò lo sguardo, verso la stanza silenziosa.

“Sebastian Smythe?”

Di nuovo, nessuna risposta.

E forse, almeno un poco, se lo aspettava.

 

 

“Insomma suoni il flauto.”

Sebastian stava fissando quella matricola da quasi cinque minuti, prima di uscirsene con quella frase. Il ragazzo apparve timido, esitante, deglutì diverse volte non essendo in grado di sostenere lo sguardo malizioso e penetrante dell’interlocutore; c’era qualcosa, negli occhi di Sebastian, in grado di tenerti incatenato alla sedia. In realtà, forse, faceva tutto parte di quel piano diabolico che erano le sue labbra sottili, i lineamenti affilati del viso, il fisico alto e il portamento elegante. Era come un’arma potente ma pericolosa, che nessuno era in grado di maneggiare.

“I-In realtà suono l’oboe”, cercò di ribattere lui. L’espressione divertita e nemmeno troppo sorpresa dell’altro lo fecero arrossire: “Oboe, flauto, che importanza ha. E’ sempre con la bocca che si lavora, non è vero?”

Non sapeva esattamente cosa dire, quindi sviò lo sguardo verso il tavolino di fronte a sè, sul quale erano posate le mani lunghe e delicate di Sebastian.

“Posso darti una mano, se vuoi”. Il tono con cui disse quella frase non prometteva niente di casto, entrambi lo sapevano bene. Tuttavia, il ragazzo non lo trovò fastidioso: non era certo di riuscire a dire di no alle avance di Sebastian Smythe, il sex symbol del conservatorio, l’uomo che ogni musicista prima o poi si ritrova ad ammirare, anche se non è sessualmente attratto: il motivo, in realtà, è molto semplice.

“Sebastian!”

Una ragazza dalla voce un po’ stridula corse verso i due, con il fiato corto e le gambe tremanti per la lunga corsa; lo avvisò delle audizioni, gli consigliò di recarsi dal professore il più in fretta possibile, e lui in tutto quello si limitò a sospirare; non era minimamente toccato dalla cosa, anzi, sembrava più scocciato per essere stato interrotto da un tentativo già compiuto di rimorchiare qualcuno.

Quando la porta della sala prove si aprì, il professor Cage si aggiustò con cura gli occhialini sulla punta del naso, scrutando dalla testa ai piedi il ragazzo che era entrato dopo la sua studentessa.

C’era sempre stato un rapporto strano tra Robert e Sebastian Smythe: si rispettavano, ma certe volte il ragazzo mostrava una maleducazione senza pari che faceva perdere tutta la stima del professore verso di lui; Sebastian era scaltro, altezzoso e arrogante, tutto ciò che Robert cercava sempre di eliminare in suo allievo, specie se promettente come lui. Tuttavia, la sua fama di abilissimo musicista e playboy lo precedeva: poteva vederlo da come le ragazze avevano cominciato a guardarsi civettuole, e da come alcuni ragazzi sembravano intimoriti o estasiati da lui, a seconda delle proprie preferenze. C’erano diversi omosessuali o bisessuali in quella scuola, non che a lui interessasse: spesso lo capiva dagli atteggiamenti, piuttosto che dalle parole. Si capisce molto di una persona dal modo con cui suona.

“Smythe, quale onore averla tra noi”.

Il saluto del professore fece sogghignare parte dei presenti, mentre il ragazzo scrollava le spalle e scuoteva la testa trattenendo un sospiro: “Una cosa di giorno, d’accordo? Ma non può ammettermi subito così la chiudiamo qui?”

Era quell’arroganza a renderlo così odioso a molti ma affascinante ad altri: Robert lo fissò imperterrito, come se volesse dirgli mentalmente di farla finita e cominciare a darsi da fare.

Blaine Anderson, seduto composto e silenzioso, continuava ad osservare tutta la scena: aveva sentito tanto parlare di Sebastian, e vedere con quanta libertà rivolgeva parola al professore non fece altro che confermare molte dicerie su di lui. Tuttavia non gli era mai piaciuto fidarsi delle apparenze, così cercò di carpire qualche informazione dal suo corpo: indossava una giacca di felpa, che arrivava morbidamente fino ai fianchi, e dei jeans scuri accompagnati con delle scarpe di cuoio piuttosto anonime. Avrebbe detto che un ragazzo così vanitoso indossasse solo camicie e cravatte, invece sembrava quasi più sportivo di lui, così si spostò sul viso, ma trapelava soltanto freddezza e tutta la noia di trovarsi lì.

“Andiamo prof – lo esortò un’altra volta, e Blaine potè sentire il suono melodioso della sua voce insinsuarsi nella sua mente – tanto lo sappiamo tutti quanti che sono il migliore qui, non ho certo bisogno di dimostrarlo.”

“Sì invece. E, di grazia, hai trovato un nuovo accompagnatore?”

Dopo un minuscolo attimo di esitazione, fece segno di no; era strano, giudicò Blaine, perchè per un momento sembrò quasi interdetto. Ma no, probabilmente era solo alla ricerca di qualche frase puntigliosa da tirare fuori.

Sebastian era famoso anche per il suo carattere intrattabile, che lo aveva spinto a litigare con sei o sette pianisti soliti ad accompagnarlo nelle esibizioni: a livello pratico, c’erano ben pochi spartiti che regalavano un efficiente assolo. Questo aumentò ancora di più la curiosità di tutti gli spettatori, che adesso pendevano dalle labbra del ragazzo, mentre si apprestava a preparare il suo strumento.

Nel momento in cui lo vide, Blaine pensò che fosse ovvio: un violino. Che altro poteva suonare, un tipo come Sebastian Smythe? Pensò immediatamente che fosse lo strumento adatto per lui; per un attimo si sentì quasi invidioso, perchè non era sicuro di poter dire la stessa cosa di se stesso.

“Bene Sebastian – proferì il professore - puoi cominciare.”

Sebastian non annunciò il suo pezzo, come invece spettava fare; nel momento in cui il professore glielo fece notare, ne approfittò per ricordargli che il brano doveva essere più lungo di sette minuti, dal momento che, una parte di sè, sapeva già cosa avrebbe suonato.

“Non ho bisogno di cinque minuti – ribattè infatti Sebastian – me ne bastano due.”

Si aggiustò il violino sul mento, maneggiandolo con precisione e cura. Le sue dita accarezzarono dolcemente il legno di mogano, piuttosto pregiato. Il rosso dell’abete rosso di cui era formato l’archetto scintillava sotto alle luci della stanza in netto contrasto con il pallore delle sue dita: erano lunghe, affusolate. Blaine cominciò a desiderare con impazienza il momento in cui avrebbero cominciato a creare il suono, domandandosi di che natura fosse: elegante, gentile?

Sebastian adesso aveva gli occhi socchiusi, il respiro divenuto perfettamente regolare mentre il suo corpo si irrigidiva con la schiena dritta che conferiva al ragazzo un’aria ancora più sicura; chiunque, in quella stanza, avrebbe potuto definirlo soltanto come affascinante.

E quando cominciò a suonare, l’unica parola che scivolò tra le labbra di qualche ragazza fu: bellissimo.

Era quello il motivo per cui chiunque, prima o poi, rimaneva attratto da Sebastian Smythe: se non era per la sua bellezza, era per il suo carisma; se non era per il suo carisma, era per il suo innato talento, che si trasmetteva in esecuzioni assolutamente perfette. Qualcuno dovette chiedersi se a suonare fosse un solo violino; perchè aveva un suono deciso, sicuro; non c’era la minima esitazione, la sua mano era ferma, il suo volto calmo e rilassato mentre ondeggiava come per continuare il movimento della spalla; non sembrava teso, ma non c’era nemmeno l’ombra di un sorriso. Era incolore, proprio come qualche minuto prima: Blaine credeva che vedendolo suonare avrebbe potuto capirlo un po’ di più, invece un’altra volta si ritrovò con un pugno di mosche.

Poi, quasi cogliendolo di sorpresa, quasi facendolo sussultare, Sebastian lo guardò. Nessuno dei due capì come avvenne; forse era stato frutto di un caso, o forse Sebastian si era sentito più osservato del solito. Fatto sta che quando i loro sguardi si incrociarono restarono incatenati per una manciata di secondi, prima che ognuno riprendesse il proprio posto: quelli di Sebastian, sul violino; quelli di Blaine verso un punto inesistente, cercando di decifrare il perchè si sentisse così tanto strano. Era misterioso. In realtà, a lui sembrava soltanto un ottimo violinista, ma niente di più; questo, forse, fu lo stesso pensiero del professore: si scambiarono un’occhiata, che non sfuggì a Sebastian nel momento in cui concluse la sua splendida esibizione ricevendo una valanga di calorosi applausi. Come previsto.

Eppure, il professore non sembrava entusiasta, non gli rivolse un sorriso o un cenno del capo o qualsiasi altro gesto di approvazione; continuava a guardare quel ragazzo pieno di gel, in un dialogo che conoscevano solo loro due. E lo innervosiva: tutte quelle attenzioni mancate, il fatto di non essere stato minimamente considerato dopo una splendida esecuzione, quel ragazzo che non sembrava minimamente toccato o sorpreso.

“Hai qualcosa da ridire?”

Quando Blaine alzò lo sguardo fu molto sorpreso nel vedersi Sebastian a mezzo metro da lui, con il violino ancora in mano e l’archetto nell’altra. Non sembrava nervoso, ma nemmeno tranquillo come prima: Blaine impiegò diversi secondi prima di dire qualcosa per rispondere alla sua domanda.

“No, niente – commentò con tono calmo e sorridente – sei stato bravo.”

“Bravo?” Sebastian lo scrutò, come perforandolo con i suoi occhi chiari. Si poteva percepire il veleno nella sua voce a metri di distanza. “Bravo?” Ripetè un’altra volta, quasi allibito.

“Sì, bravo.”

“Tutto qui.”

“Sebastian”, cercò di richiamare il professore, ma lui non si mosse di un millimetro.

“No no, parliamone.” Si avvicinò ancora di più a Blaine e questo, in risposta, si sentì quasi obbligato ad alzarsi in piedi; si sentiva un po’ in imbarazzo, il verde intenso degli occhi di Sebastian lo disorientava. Aveva fatto qualcosa di sbagliato?

Non riusciva a capire gli atteggiamenti di quel ragazzo; non riusciva a capire niente di lui, a partire da come pronunciò le parole: “Coraggio allora, fammi vedere tu.”

Di fronte a quel silenzio pieno di incomprensione, Sebastian gli indicò il pianoforte: “Coraggio, borsista. Sono proprio curioso di sentire quello che hai da dirmi.”

Blaine stava quasi per dirgli che non avesse niente da dire, soprattutto ad un tipo come lui; tuttavia il nervosismo che gli era scaturito non appena aveva sentito la parola borsista fu più forte.

Era così, allora, pensò tra sè e sè mentre si dirigeva con passo risoluto verso il pianoforte: Sebastian si era sentito offeso solo perchè lui, il borsista, aveva osato guardarlo. Strinse forte i pugni, cercando di scacciare via ogni rigidità nelle dita: dovevano essere sciolte e fluenti, per una buona esibizione.

Era sempre una sorta di calvario ogni volta che doveva suonare qualcosa di fronte ad altri: era tutto troppo teso, troppo importante. Gli piaceva essere al centro dell’attenzione, in un certo senso, era come se si fosse allenato tutta la vita per quello; eppure, in quel momento, voleva soltanto andarsene via. Ignorare gli sguardi di tutti quei ragazzi che dicevano su di lui le cose peggiori, ignorare Sebastian, che era ancora in piedi in un angolo della stanza a braccia conserte facendo roteare appena l’archetto del suo violino.

Nel momento in cui incrociò gli occhi del professore, questo sorrise: era come se volesse incoraggiarlo, dirgli che il resto del mondo adesso non importava.

“Cosa suonerai?”

Blaine non ebbe esitazione nel rispondere: “La ballata numero uno di Chopin”, facendo scaturire un sorriso ancora più ampio nel professore; sapeva bene che era il suo compositore preferito.

C’erano solo lui e il pianoforte, adesso. Scivolò con grazia sullo sgabello, regolandolo appena e sorridendo a se stesso perchè era costretto a farlo tutte le volte, vista la sua altezza; controllò con un’occhiata la distanza dai pedali, giudicando che andasse bene. Posizionò con cura le mani sulla tastiera una prima volta, per poi ritrarle sulle ginocchia: quel gesto confuse un po’ tutti.

Dopodichè, prendendo un bel respiro, cominciò a suonare. Ma no, Blaine Anderson non suonava: scivolava. Si adagiava perfettamente sulle note come se fosse lui a dar fastidio a loro, e non il contrario; la prima nota fu dura e spietata, tolse il fiato a molti dei ragazzi. Poi, il suono divenne più dolce, anzi, opaco: è difficile descrivere le sensazioni scaturite dalla musica, ma quelle di Blaine si potevano toccare con il palmo della mano. Era come vedere un quadro prendere forma, cambiando dall’essere trasparente; man mano che la musica continuava, si aggiungevano dettagli. Dettagli guidati dalle sue pause, dai suoi respiri: quello era un brano di Chopin, ma in un certo senso, era anche un po’ di Blaine. Era esattamente questo che faceva di lui un talento naturale, era questo ciò che il professore amava fino a perdere completamente la cognizione del tempo: guardava il ragazzo con un’espressione di gioia mista a commozione, qualunque amante della musica avrebbe provato le stesse cose.

Blaine non era preciso, non era metodico: era istintivo, sentimentale; prendeva respiri dove non c’erano e accelerava scale che dovevano essere più concise. In questo, probabilmente, si poteva giudicare imperfetto: ma nessuno ebbe il coraggio di fiatare, nel momento in cui, dopo una scala finale, una pausa trattenuta, le ottave suonate con veemenza e passione, pose fine alla melodia.

Non applaudì nessuno: nessuno, forse, voleva rovinare quella sottospecie di atmosfera che si era creata.

Il primo a parlare fu Robert; lasciò a Blaine il tempo di ricomporsi, si alzò in piedi, si passò una mano sui riccioli folti e scuri.

“Ottimo lavoro, Blaine.”

E fu quello, il momento in cui Sebastian si sentì come risvegliato. Perchè Blaine era stato impreciso in molti, moltissimi punti; e allora era quella la sua concezione di bravura? L’eseguire brani in un livello che raschiava a malapena il professionale?

“Sei andato fuori tempo molte volte”, proferì allora. Aveva il suo immancabile ghigno e l’aria saccente. Blaine lo guardò di rimando, apparentemente calmo nel dire: “Sì, lo so.”

Oh, lo sapeva? Sebastian si sentiva sempre più irritato, preso in giro.

“E pensi che questa sia una valida giustificazione per la tua esecuzione mediocre?”

“Beh scusami tanto – replicò allora Blaine, stizzito – se non sono un automa macina note come te.”

“Ma sentiti. Automa macina note. Te li prepari la notte questi insulti?”

Una ragazza – quella che era andata a chiamare Sebastian – ebbe il coraggio di mettersi in mezzo, cercando di farli tacere, ma fu del tutto inutile. Blaine e Sebastian erano completamente uno opposto all’altro in tutto: il primo era calmo, dolce, gentile e romantico; il secondo era impulsivo, freddo, arrogante e virtuoso.

Fu proprio in quel momento che il volto di Robert si illuminò, raggiante: provò quella tipica soddisfazione di aver appena avuto un’idea meravigliosamente geniale.

“Sì, è perfetto!” Esultò battendo le mani, guadagnandosi l’attenzione dei presenti e in particolar modo dei due ragazzi, che per un attimo avevano smesso di litigare. Forse, perchè erano troppo intenti a cercare di decifrare la sua espressione trionfante.

“...Professore?”

“Vecchio?” Fece eco Sebastian, ignorando prontamente l’occhiata di Blaine. “Sembra che stai per avere un infarto. O un orgasmo; non riesco mai a distinguerli quando si tratta di anziani.”

Blaine si mise una mano sulla fronte: era esasperato. Quel ragazzo era incredibilmente seccante, maleducato e-

“E’ perfetto, siete perfetti.”

Un momento: spalancarono gli occhi, convinti di non aver sentito bene. Loro, perfetti?

“E per cosa?” Sbottò Sebastian, ma un attimo dopo si pentì automaticamente di averlo domandato.

Il professore li guardò sogghignante, dando voce all’unica risposta che nessuno dei due ragazzi si sarebbe mai aspettato di sentire.

“Per duettare insieme, ovviamente.”




***




Angolo di Fra: Visto che mi è stato chiesto di mettere anche la Seblaine su EFP, ecco qui.
Penso che il secondo capitolo lo pubblicherò domani, così martedì/mercoledì posso pubblicare il terzo e riprendere con la pubblicazione settimanale. Comunque vi rimando alla mia pagina per ulteriori informazioni.



La targhettina che potete vedere in cima ad ogni capitolo l'ha fatta quello schianto di Ilarina , alla quale devo tutto il mio amore. Grazie donna! Grazie a chi (ri)leggerà :)
Fra
   
 
Leggi le 8 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Glee / Vai alla pagina dell'autore: Medea00