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Autore: Mary P_Stark    06/07/2012    11 recensioni
Un incubo. O una premonizione. La giovane Brianna, studentessa modello di Glasgow, si sveglia di soprassalto, nel sangue un obbligo insopprimibile. E, nel modo più impensabile, si scontra con una realtà che non avrebbe mai pensato di scoprire. Né di vivere sulla propria pelle. Per Duncan, fiero licantropo e Alfa del suo branco, avviene la stessa cosa e, dal loro incontro, si scateneranno forze che neppure loro immaginano. Il mito di Fenrir, di ancestrale memoria, tornerà per avvolgere nelle sue spire Brianna, facendole comprendere che neppure lei, contrariamente a quanto pensa, è una comune umana. PRIMA PARTE DELLA TRILOGIA DELLA LUNA.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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‘Io sono alfa e omega
neve rossa d'ignare prede,
soffio di nuova vita
chiusura del naturale anello.
Io sarò forse ucciso,
mai disperso, cancellato
come immortale spirito del bosco
di nuovo vigore sarò creato.
Io sono il lupo.’

Autore ignoto


 

 

‘Tutto contina e si estende, niente si annulla,
e morire è qualcosa di diverso da quello che si suppone,

qualcosa di più fortunato.’
Canto VII da Il canto di me stesso

Walt Whitman


 
 

 I.

 
 
 

 



 
 
 
 
 
 
 
Il vento sibilava tra le fronde incupite dall’oscurità della notte, scivolando tra gli alberi come uno spettro e portando con sé i profumi umidi e potenti della foresta.

E il grido di uomini e bestie.

Una macchia indistinta tra le ombre, nulla più di una evanescente presenza, si mosse lesta tra i tronchi degli alberi decennali.

Si muoveva con grazia di movimenti, e una velocità tale da renderla quasi invisibile all’occhio umano.

Quasi.

Uno sparo, un uggiolio e un tonfo sordo sul sottobosco madido di umidità e ricoperto di fogliame e fango.

La nivea figura scivolò a terra, ringhiando ferita nella direzione da cui era giunto lo sparo.

Grida sempre più forti e passi sempre più concitati raggiunsero le sue orecchie sensibili, aumentando l’ansia e la rabbia della creatura stesa a terra.

Le zampe del bianco animale ferito si rizzarono sul terreno soffice mentre il suo respiro, reso spasmodico dal dolore provocato dalla lacerazione sanguinante alla spalla, sibilò tra le zanne scintillanti e pronte a colpire.

La consapevolezza che i suoi nemici erano ormai vicini, lo rese audace e temerario, ma non incauto.

Uno, due tre … dieci uomini. Del traditore, nessuna traccia. Ma, per lo meno, i maledetti avevano seguito lui, non gli altri.

Morire così, sarebbe valso a qualcosa. Morire così, andava bene.

Ergendosi in tutta la sua considerevole altezza, il niveo lupo dalla fiera figura fronteggiò i cacciatori pronti a ucciderlo, lui già proteso verso la Madre e verso il divenire.

Fu, perciò, con sorpresa e irritazione, che le sue nari percepirono qualcosa che mai si sarebbero aspettate. E che, per lui, significava qualcosa di molto peggio della morte.

L’umiliazione.

Uggiolando nervosamente, ormai circondato dai cacciatori e già preda dei primi spasmi che precedevano la perdita dei sensi, il lupo si chiese quale sarebbe stata la sua sorte e se gli sarebbe stata concessa una fine onorevole.

Con un rantolo si accasciò e tutto divenne freddo e buio come una notte d’inverno.
 
***

Mi svegliai di soprassalto, spaventata e ancora preda degli ultimi residui dell’incubo.

Il viso era ricoperto da un sottile strato di sudore appiccicoso e il respiro, affannoso, era spezzato da brevi sospiri.

Gli occhi, spalancati e dolenti, osservarono confusi il mondo attorno a me cercando di mettere a fuoco le pareti familiari che mi circondavano.

Rammentai urla e sangue.

Questo, mi aveva destato.

Solitamente non facevo sogni così brutti da portarmi a risvegli tanto drammatici ma, come spesso si dice, c’è sempre una prima volta.

Quando riuscii a focalizzare la mia stanza, spostai lo sguardo verso le finestre dalle imposte socchiuse, da cui giungevano i deboli bagliori del sole del mattino.

A giudicare dall’inclinazione dei raggi che penetravano all’interno della stanza, doveva essere molto, maledettamente molto presto.

Imprecai tra me, già decisa a voltare le spalle al sole ingrato, quando un rumore proveniente dal cortile dietro casa mi portò a rizzare le orecchie.

La curiosità ebbe il sopravvento sul mio desiderio di tornare a dormire così, in punta di piedi, mi avvicinai alla finestra per capire cosa stesse succedendo.

Attraverso le imposte socchiuse, che offrivano una scarsa visione del cortile, scorsi alcuni pick-up scuri e sporchi di terriccio, oltre a parecchie persone in tenuta da caccia.

Sbuffai, immaginando fossero gli amici del mio patrigno, Patrick Smithson.

Non mi piaceva rimuginare sul suo discutibile hobby, e meno ancora mi piaceva vedere tutti i suoi compagni di scorribande aggirarsi per casa armati di tutto punto.

Il fatto che fossero in azione di prima mattina me li fece odiare ancor di più, visto e considerato che avevano contribuito ad allontanarmi dal mio comodo lettuccio.

Feci per tornarci, quanto il ringhio strozzato di un animale  sfiorò le mie orecchie, attirando definitivamente la mia attenzione e cancellando del tutto la possibilità di un ritorno a letto.

In fretta, tornai alla finestra per capire cosa stesse realmente succedendo là fuori e, sconvolta, intravidi la sagoma di un animale, tra quei corpi di uomini massicci.

Il colore singolare del pelo mi lasciò interdetta. Era bianco come la neve.

Il mio primo pensiero fu chiedermi che razza di animale fosse ma, dopo un attimo di distratta riflessione, un secondo e più drammatico pensiero si materializzò nella mia mente appena destata.

Aveva portato in casa un animale per ucciderlo?!

La sola idea mi fece accapponare la pelle e, nel contempo, fece sorgere in me una rabbia così feroce da portarmi a lanciare alle ortiche ogni prudenza e prendere la via della porta.

Sapevo fin da quando avevo messo piede lì assieme a Gordon, mio fratello, di non poter assolutamente avvicinarmi alla cantina di casa, e ora cominciavo a comprenderne i motivi.

Patrick macellava per caso degli animali, in quell’antro segreto? E sua moglie Mary Beth, il cui appellativo di matrigna stonava tremendamente con la sua dolcezza, era a conoscenza dei suoi deprecabili hobbies?

Dischiusi la porta per scrutare il corridoio al primo piano della casa e, nulla trovando a ostacolare il mio passaggio, scivolai fuori e percorsi la sua lunghezza in punta di piedi.

Mentalmente, ringraziai Mary B per la sua passione per i tappeti persiani.

Non appena raggiunsi le scale, trattenni il fiato e misi un piede sul primo gradino.

Sperai ardentemente che il legno non cigolasse, rendendo così chiaro al mondo intero che qualcuno, in casa, si era svegliato.

Sempre che il mio cuore impazzito dall’ansia non mi tradisse per primo.

Per mia fortuna, la scala si comportò egregiamente, reggendo il mio peso senza emettere alcun suono al mio passaggio.

Questo mi consentì di raggiungere il pianerottolo dabbasso senza essere scoperta da mio fratello e Mary B, che dormivano ancora placidamente nelle loro stanze.

Beato il loro sonno pesante!

Il cuore continuava a martellarmi nelle orecchie come un tambuo.

Questo rendeva difficile ascoltare con chiarezza i rumori della casa ma, in ansia com’ero visto quello che mi stavo accingendo a fare, difficilmente la situazione avrebbe potuto essere diversa.

Scrutai a destra e a manca, accertandomi che non vi fossero cacciatori nel salotto o in cucina dopodiché, messa mano alla maniglia della porta che conduceva alla cantina, presi un gran respiro e la abbassai.

Il metallo risultò essere ben oliato – niente di strano, Patrick era un maniaco dell’ordine – e la maniglia non emise alcun suono, come pure i cardini.

Presi un breve respiro per farmi coraggio e, nel contempo, per cercare di togliermi di dosso la paura strisciante che stava risalendomi la schiena come una serpe pronta a mordermi al primo passo falso.

Non ero fatta per l’azione sul campo, lo sapevo. Prima di arrivare in cantina sarei morta lungo il percorso per la troppa paura.

Ma dovevo scoprire cosa mi stava spingendo a infrangere ogni regola di casa Smithson, o sarei impazzita di sicuro.

Dovevo dare un nome all’ansia e alla tensione che mi avevano portato fuori dalla mia stanza.

Richiusi perciò la porta alle mie spalle e, afferrato il poco coraggio che avevo con entrambe le mani, mossi i primi passi in quell’oscurità quasi totale.

Le rade grate di metallo che davano sul cortile, erano l’unica fonte di luce a me concessa, ma bastarono a impedirmi di non cadere.

Da quelle misere feritoie penetrava un fioco chiarore, che mi permetteva di mettere un piede davanti all’altro senza inciampare nei gradini della scala che conduceva alla cantina.

Naturalmente, il mio cuore non aveva smesso di pompare come un pistone impazzito; riempiva la mia testa con il suo tum-tum assordante, impedendomi di concepire anche un solo pensiero coerente.

Una volta raggiunta la cantina, cos’avrei fatto?

Sarei entrata scatenando il putiferio tra i cacciatori? Avrei origliato per comprenderne le intenzioni? Sarei filata via al primo accenno di pericolo? Cosa?

Raramente prendevo iniziative simili, ero molto più abile a programmare che a fare.

Per quello, c’era la mia amica Nancy. Era lei la donna d’azione, l’inarrestabile uragano che sbaragliava ogni cosa. Io, piuttosto, ero colei che guidava l’uragano.

Sogghignai, immaginandomi Nancy al mio posto e, subito, me la vidi in mezzo a un branco inferocito di uomini accigliati, ritta in piedi con insolenza e l’aria di voler comandarli a bacchetta.

Dovetti reprimere una risata, di fronte a uno spettacolo mentale di quel genere. Sì, Nancy sarebbe stata la più adatta per un’incursione di quel genere.

“Che diavolo ci sto andando a fare, io?” sussurrai tra me, prima di trasalire.

Un rombo di motori mi fece tremare come una foglia abbandonata al vento, facendomi rattrappire su me stessa.

Spaventata come poche altre volte, mi guardai intorno turbata, chiedendomi convulsamente il perché di quel rumore improvviso.

In fretta, mi aggrappai al muro e poggiai il naso contro la grata metallica di una delle feritoie.

Scrutai fuori attraverso il vetro sporco – in quel momento utilissimo – e, sorpresa sorpresa, vidi i pick-up andarsene dal cortile. E Patrick era compreso nel gruppo!

Sempre più confusa, ma sollevata dalla loro partenza, tornai a posare i piedi a terra e raggiunsi in tutta fretta la porta che dava sulla cantina, decisa a scoprire cosa stesse succedendo.

Paura o non paura, ormai ero giunta fino a quel punto e non avevo intenzione di tirarmi indietro.

Mamma e papà non ci avevano insegnato a essere pavidi, e non volevo venire meno a quel precetto proprio in quel momento.

Sorrisi tristemente pensando a loro e, come sempre, fu difficile pensare all’idea di non averli più al fianco.

Tenendo perciò bene a mente gli insegnamenti di mia madre, poggiai l’orecchio alla porta della cantina per cercare di capire se, dall’altra parte, ci fosse qualcuno.

Il tamburellare del mio cuore si era chetato un poco, permettendomi di ragionare con più facilità – nonostante non mi sentissi ancora al massimo.

Dopo aver chiuso gli occhi per concentrarmi meglio, tentai di percepire eventuali rumori provenienti dalla cantina.

Ascoltai attentamente per diversi minuti, il respiro pacificato e la mente finalmente sgombra da pensieri vorticosi e confusi.

Dischiusi allora la porta per quanto mi fu possibile, e infilai la testa per controllare cosa vi fosse in quell’ambiente tenuto così gelosamente nascosto.

Una serie di rastrelliere, colme di attrezzi da giardino, chiavi inglesi e cacciaviti rivestivano la parte di fronte a me.

Contro quella rivolta a nord – la più lontana rispetto al mio nascondiglio improvvisato – un paio di enormi mobili in vetroresina ricoprivano per intero il muro di mattoni, imbiancati di fresco.

Una cassettiera, alta circa un metro e mezzo, era sistemata proprio dinanzi alla porta dietro cui mi trovavo.

Questo mi impedì di scorgere agevolmente il centro della cantina, dove riuscii solo a intravedere un’enorme gabbia, di uno strano metallo lucido. Forse era d’acciaio.

Storsi il naso, indispettita da quella precauzione.

Perché barricare una porta, se non per tenere fuori i curiosi? E perché, poi?

Quella visuale parziale non mi concedeva il lusso di aver un quadro d’insieme, impedendomi di fatto di farmi una chiara idea di ciò che si nascondeva dentro la cantina.

Detestavo muovermi senza sapere bene cosa ci fosse di fronte a me, ma l’urgenza che avvertivo dentro la mia testa – che ora sembrava essere sintonizzata su un’unica parola, ‘sbrigati’ – mi impedì di agire con la consueta calma e prudenza.

Dovevo sbarazzarmi delle mie paure, e terminare ciò che avevo iniziato.

Decisa quindi a capire cosa vi fosse dentro quella gigantesca trappola lucente, feci per muovermi.

Di colpo, però, un basso ringhio di gola si librò nell’aria leggermente stantia, bloccandomi sul posto.

Rabbrividii, e la paura tornò a divorarmi, raggelandomi le mani come se fossero divenute due pezzi di ghiaccio.

Turbata, mi chiesi cosa avessero catturato di così pericoloso, da doverlo sistemare in una gabbia dalle sbarre così grosse.

Ero davvero sicura di volerlo scoprire, a quel punto?

Il secondo suono che udii non fu più animalesco, assomigliava più al rantolo di un uomo.

Colta alla sprovvista e rinfocolata la mia curiosità, così come la mia ansia di scoprire la verità, trovai il coraggio di sospingere la cassettiera con tutta la mia forza per poter passare.

E lì mi bloccai, gli occhi spalancati al pari della mia bocca.

Dinanzi a me, disteso in posizione fetale e dandomi le spalle, se ne stava un uomo dalla pelle bronzea, con capelli ricci e neri come ali di corvo e … completamente nudo!

Solo un rozzo panno a quadretti lo riparava dal freddo pavimento di cemento, che ricopriva la cantina, ma la sua pelle non sembrava dar segno di patire per quel trattamento indecoroso.

Cercando di non far caso alla sua nudità, che non aiutava di certo a tranquillizzarmi, avanzai passo passo con aria guardinga, non sapendo bene cosa aspettarmi.

Sbuffai contrariata, quasi desiderando prendermi a schiaffi, desiderosa di scoprire se, un sistema così brutale, avrebbe potuto risvegliarmi dal sogno a occhi aperti in cui ero finita.

Già pronta a farlo, l’uomo volse a mezzo il capo, fulminandomi con due occhi d’ambra screziata, così furenti che avrebbero potuto tagliarmi in due senza problemi.

Anch’io li avevo di quel colore – un’autentica rarità – ma i suoi avevano qualcosa di così … diverso, di così inumano, che rabbrividii nel fissarlo.

Non avevo mai scorto in nessuno, uomo o donna che fosse, uno sguardo del genere ma solo …

Beh, mi sembrava assurdo anche solo mettere insieme un pensiero simile, eppure, gli unici occhi in cui avevo scorto quella luce ferale, erano quelli dei lupi nei documentari della National Geografic.

Occhi che sapevano di selvatico, di bosco, di carne e sangue, di freddo e patimento. Occhi che sapevano stregare per la loro bellezza ferina. Occhi che tentavano e spaventavano assieme.

Deglutii, cercando di distogliere lo sguardo da quelle profondità ambrate che continuavano a fissarmi con un’intensità bruciante.

Sollevando le mani perché fosse chiaro che non avevo armi nascoste con me, esordii dicendo sommessamente: “Non voglio farti del male.”

Lui grugnì, rattrappendosi su se stesso e stringendo i denti.

Solo allora notai il sangue che macchiava il panno sotto di lui.

A giudicare da come la macchia si stava allargando, sarebbe morto dissanguato. E forse era proprio quello che volevano Patrick e i suoi.

Quello che non riuscii a capire fu perché. E l’animale che gli avevo visto portare dentro a forza di braccia, dov’era? Non lo vedevo da nessuna parte.

Imprecai tra me, lasciando perdere per il momento il pensiero dell’animale per focalizzarmi sull’uomo che giaceva ferito nella gabbia.

Digrignando i denti per la rabbia, fissai ciò che avevo davanti agli occhi provando pena e furia al tempo stesso.

Era indubbio che quel tizio si fosse trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, e che gli amici di Patrick lo avessero conciato male, ma perché rinchiuderlo, nudo e ferito?

Cosa volevano farne, di lui?

Non volevano certo macchiarsi di un delitto?!

Sperai davvero di no. Di Patrick detestavo un sacco di cose, ma non pensavo fosse davvero in grado di uccidere un essere umano.

Eppure … beh, quello che avevo davanti smentiva in pieno ciò che avevo sempre ipotizzato su di lui, portandomi a chiedermi quanto brava fossi a comprendere le persone.

Di sicuro, non riuscivo a capire il perché di quell’uomo nella gabbia. Ma non me ne sarei andata, finché non avessi scoperto i motivi di quella prigionia assurda.

Mi avvicinai guardinga, quasi temendo di veder comparire qualcuno da dietro i mobili della cantina.

Tornai con lo sguardo agli occhi infuocati dell’uomo che avevo innanzi e, sopresa delle sorprese, mi bloccai a metà di un passo quando vidi solo laghi smeraldini a frapporsi alla mia occhiata.

Dov’erano finiti i diabolici e ferali occhi ambrati di prima? Che diavolo stava succedendo?

Cominciando a tremare, mio malgrado, per la paura e la confusione crescenti, appoggiai una mano alle sbarre di metallo della gabbia.

Lo fissai come un’ebete, mentre i suoi occhi di gelido smeraldo mi trapassavano da parte a parte come se fossero stati due raggi laser.

Pur avendo cambiato colore – già di per sé cosa assurda, visto che ero più che certa della loro iniziale tinta ambrata – quello sguardo restò selvaggio.

Era del tutto privo dell’umanità che avrebbe dovuto avere; c’era un animale, celato dietro quelle iridi così meravigliosamente scintillanti.

Era come se una bestia vibrasse sotto la sua pelle, smaniosa di uscire allo scoperto e di divorarmi.

Sbattei le palpebre, cercando a fatica di liberarmi da quello sguardo, che mi teneva avvinta a sé con una forza inusitata e che non riuscivo a comprendere.

Lasciandomi scivolare a terra, mi inginocchiai accanto alla prigione dell’uomo domandandogli: “Perché ti tengono qui dentro?”

Sprezzante, la sua voce roca e profonda vibrò contro le pareti della cantina, e dentro la mia testa, mentre replicava rigido e fiero: “Una Cacciatrice dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro!”

“Cacciatrice? Che intendi dire? Io … non caccio! E, di sicuro, non mi sarei mai permessa di ferire e rinchiudere un essere umano dentro una gabbia!” replicai piccata, stringendo con maggiore forza le sbarre tra le mani.

Umano…” ribatté a sua volta, ironico e sfrontato. “… neppure nella morte, vorrei essere un umano. Non offendermi, fingendoti all’oscuro di tutto, ragazza!”

Strabuzzai gli occhi di fronte a quella frase sconcertante e, di per sé, assurda.

Basita, esalai confusa: “Scusa la domanda idiota; ma chi pensi di essere?”

La sua fronte liscia e priva di imperfezioni si corrugò sensibilmente mentre la voce, da sprezzante che era, divenne orgogliosa nel dirmi: “Sono un licantropo! Cosa credi che sia?!”

Dovetti sembrare davvero una stupida – e stupita – perché la sua espressione ombrosa lasciò il posto a qualcosa di molto simile alla sorpresa.

La fronte si rilassò, la bocca perse di colpo quell’espressione imbronciata che aveva avuto fino a quel momento e la voce, ora dubbiosa, sgorgò dalle sue labbra dicendomi: “Non lo sapevi sul serio.”

Crollai col sedere a terra, le mani tremanti premute sul pavimento di cemento gelido e, scuotendo scioccamente il capo, esalai: “Sapere … cosa? Chi piglia per cretino chi?”

I suoi occhi smeraldini cercarono i miei, che erano sgranati fino all’inverosimile e, nuovamente, scorsi la bestia in lui, una parte animalesca che, normalmente, non avrebbe dovuto esserci.

In quell’uomo, però, sembrava premere contro le pareti della sua pelle abbronzata, quasi sforzandosi di non dilaniare ogni centimetro di carne disponibile per eruttare con un ringhio feroce.

Tremai – sentii i miei denti sbattere tra loro, preda di una paura atavica – e l’uomo, calmandosi completamente, mi disse: “Come vedi, non devi temere nulla da me, fanciulla. Sono ben più che inerme.”

“Come puoi … non puoi essere davvero … ciò che dici” balbettai, stringendomi le braccia al petto e massaggiandole con forza per cercare di bloccare il tremore che mi scuoteva.

Di tutte le cose che avrebbe potuto dire, per spiegare la sua presenza all’interno di quella gabbia, quella era di sicuro la più assurda, la più inverosimile, la più …

Beh, la più vicina a quello che mi stava martellando la testa, fin da quando quegli occhi mi avevano sfiorato per la prima volta, pochi minuti prima.

Una bestia.

Avevo avvertito questo, in lui. Non un uomo violento, o qualcosa di simile.

No, la mia anima, il mio cuore, il mio cervello avevano iniziato – e continuavano –  a urlare a squarciagola questa verità fuori da ogni tipo di logica, e io alla logica mi ci aggrappavo sempre!

Da quando l’irrealtà la faceva da padrone, nella mia testa? Era Gordon il fanatico del fantasy, non io!

Eppure sapevo, percepivo la cruda realtà nelle sue parole, pur avendo un terrore folle di credervi.

“Sfortunatamente, è la pura verità. O non mi troverei qui, bloccato da catene d’argento, e con un proiettile che mi sta avvelenando poco per volta il sangue” mormorò, scrollando appena le spalle prima di piegare in una smorfia la bella bocca carnosa.

Mi passai nervosamente le mani sul viso, come per schiarirmi le idee e cercare di tacitare il mio cervello ora iperattivo, prima di tornare a guardare l’uomo steso a terra, ma nulla cambiò.

Nulla di ovvio, o razionale, venne in mio soccorso.

Sentivo che qualcosa, in lui, non andava.

Quelle urla silenziose nella mia testa non avevano smesso di ossessionarmi, spingendomi a credere in quello che lui aveva appena sostenuto con così tanta convinzione.

Era come se, sulla mia pelle, avvertissi la morbidezza del pelo della bestia che lui sosteneva di essere.

In ogni caso, folle o meno che fosse, bugiardo o meno che fosse, credulona o meno che fossi, quell’uomo non poteva continuare a rimanere bloccato in quella gabbia, o sarebbe morto dissanguato.

Sarei tornata in un secondo momento a pensare a ciò che il mio Io razionale si rifiutava di credere, mentre il mio subconscio accettava con fervore.

Mi guardai perciò intorno alla ricerca di qualcosa che potesse fungere da leva, per fare pressione sul lucchetto che teneva chiusa la gabbia, e l’uomo mi disse: “Hai addosso l’odore di uno dei Cacciatori… eppure dici di non esserlo.”

“Non so di che parli” brontolai, prendendo un piede di porco da una delle rastrelliere, dopo aver cercato inutilmente altri attrezzi più idonei.

“Faccio fatica a credere che tu non sia una di loro. Perché ti troveresti qui, sennò?” mi disse l’uomo, fissando a terra lo sguardo, forse affaticato da quella posizione forzata.

Meglio così. Non volevo ritrovarmi i suoi taglienti occhi addosso, per quanto essi fossero belli.

Mi distraevano troppo, e rendevano la mia mente più dinamica di quanto non potessi sopportare in quel momento.

Dovevo poter ragionare con freddezza su cosa fosse meglio fare in quel momento, non concentrarmi sugli sconcertanti segreti usciti dalla bocca di quell’uomo!

“Ribadisco, non so di che parli. In quanto all’odore, penso di non puzzare per nulla, visto che ho fatto il bagno prima di andare a dormire, ieri sera” sbuffai, piegandomi su un ginocchio e infilando il piede di porco nel pertugio offerto dall’arco metallico del lucchetto.

Feci forza con entrambe le braccia e, stupendomi non poco quando esso cedette al primo colpo, osservai il lucchetto cadere a terra e tintinnare fastidiosamente sulla superficie di cemento.

Storsi il naso dubbiosa – perché avevano messo un lucchetto così piccolo? – e dissi: “Ti libero subito. Abbi pazienza.”

Lui non disse nulla, limitandosi a scostare un poco le gambe per facilitarmi l’entrata nella gabbia.

Cercando di concentrarmi sul compito che mi ero auto imposta, misi mano alle catene sulle caviglie, notando con dispiacere quanto il metallo le avesse arrossate e lese in più punti.

“Non avresti dovuto cercare di forzare le catene. Hai combinato un disastro” brontolai, dispiaciuta per il dolore che senz’altro stava patendo.

La pelle arrossata sembrava essersi gonfiata a causa dello sfregamento e, senz’altro, presto sarebbero apparse le prime vesciche.

Rabbrividii al solo pensiero, sapendo quanto avrebbero fatto male.

“Non ho tentato di forzarle. E’ l’argento” disse per contro lui, come se la sua fosse una spiegazione sufficiente a spiegare il danno causato alle sue carni.

Sbattei le palpebre, confusa, e lui sbuffò, aggiungendo: “L’argento è come veleno, per noi.”

La sua esternazione mi fece accapponare la pelle – pensava davvero di essere quel che mi aveva detto? E io ero davvero convinta di volergli credere? – e, sempre più interdetta, esalai: “Ma come è… possibile?”

Rassegnato e, forse, preoccupato che scappassi a gambe levate una volta che mi avesse spiegato per filo e per segno la verità, mi disse roco: “Sono davvero un licantropo. Non mento. Ti proverei ogni cosa, se l’argento non mi avesse indebolito così tanto.”

La situazione non mi piacque affatto, e sentirlo parlare di fesserie come i licantropi, mi fece pensare con dispiacere che quel bell’uomo fosse matto da legare.

Ma come spiegare, allora, l’argento?

Come spiegare la sua presenza lì?

Come spiegare le strane sensazioni che avevo provato in precedenza?

Come spiegare il disagio che percepivo, come se qualcuno mi stesse graffiando ogni centimetro del corpo?

E come spiegare il mutare del colore dei suoi occhi?

Datti una calmata, Brianna, e fai una cosa per volta. Primo, tiralo fuori, secondo, curagli quella benedetta ferita, terzo, portalo da un bravo psichiatra.

Restare lì, in ogni caso, era troppo pericoloso… per entrambi.

Lasciai quindi perdere le mille domande che mi affollavano la mente in quel momento – avrei chiesto spiegazioni più dettagliate una volta che fossimo stati fuori – per concentrarmi sulle catene che cingevano le sue caviglie.

Sommessamente, gli chiesi: “Hai sentito se e quando torneranno?”

Nuovamente sprezzante, l’uomo ringhiò con la sua voce roca e profonda: “Non prima di aver raccolto tutti i membri titolati della loro spregevole cricca. Nessuno vorrebbe perdersi l’uccisione di uno di noi.”

Un brivido mi percorse la schiena a quelle parole, le mani bloccate sulle catene e lui, chetando il tono di voce, aggiunse: “Hanno parlato di un club a Glasgow. Forse, dove si ritrovano per bere. Non so di più.”

Annuii, prima di mettere nuovamente mano alle catene e, aggrottando la fronte, sbuffai dicendo: “Ma è peggio di un nodo gordiano!”

“Spero tu non voglia tagliarmi le caviglie, per risolvere il problema alla radice” commentò lui, cercando di ironizzae sulla mia scelta metaforica.

“No di certo” replicai, cercando di sciogliere l’intricata rete, formata dalla sottile ma lunghissima catena argentata che lo teneva bloccato. “Non capisco proprio come l’argento possa averti lasciato delle bruciature simili. So che le allergie possono essere tremende, ma così?”

“Solo i Cacciatori sanno dell’argento” ringhiò l’uomo, mettendo a voce tutta la sua ira.

“Quando dici cacciatori, non intendi quelli che hanno la regolare licenza rilasciata dalla Corona Inglese, vero?” gli domandai, liberando le caviglie.

Lui scosse il capo nell’allungare verso di me i polsi martoriati da abrasioni, evidentemente causate dall’argento.

Mordendomi un labbro nell’osservare le carni lacerate, oltre alla macchia di sangue che si stava allargando sotto di lui, chiesi: “Dove ti hanno ferito?”

“Appena sotto la clavicola destra”  mi disse, osservandomi mentre mettevo mano al secondo nodo di catene argentee.

“Pensi di resistere? Posso rattopparti, ma prima vorrei tirarti fuori da qui” mormorai, cercando di affrettarmi a liberarlo.

Lui annuì, restando in silenzio mentre io finivo di sciogliere il pesante nodo metallico.

Lasciai cadere anche la seconda catena prima di guardarmi in giro nervosamente, alla ricerca di qualcosa che potesse indossare.

Non potevo medicarlo in quello stato! Non ne sarei di certo stata in grado.

Ed era fuori discussione salire in camera di Patrick per cercare qualcosa, visto che Mary B era ancora all’interno, placidamente addormentata.

Uscii perciò dalla gabbia e mi affrettai a controllare l’interno dei mobili in fondo alla cantina, trovando a sorpresa la tuta da meccanico che Patrick soleva usare ogni tanto.

Sollevata, me ne tornai da lui e, dopo aver posato l’indumento accanto all’uomo, volsi le spalle per non guardarlo e dissi: “Dovrebbe andarti bene. Patrick è abbastanza alto e robusto.”

“Chi è?” mi chiese l’uomo, mentre un fruscio di stoffa mi giungeva alle orecchie.

“Il mio patrigno” specificai.

Volevo fosse chiaro fin da subito che io non avevo il suo stesso sangue. Beh, più o meno, insomma.

“Patrigno?”

Annuii, restando voltata, e mi spiegai meglio. “Io e mio fratello Gordon siamo stati adottati dagli Smithson tre anni fa, circa tre mesi dopo la morte dei nostri genitori. Patrick è un cugino di mio padre.”

Nel sentirlo sbuffare, mi volsi a mezzo e, non senza un certo apprezzamento, lo osservai in piedi fuori dalla gabbia, a torso nudo, con i pantaloni della tuta diligentemente abbottonati, ma nulla di più.

Di certo, non erano della sua taglia.

Deglutii a fatica, maledicendo i miei ormoni impazziti di sana ventenne e, indicando la parte superiore della tuta, legata in vita, chiosai: “Troppo stretta?”

“Già. Ma almeno salvo le apparenze” mormorò, tastandosi la spalla sanguinante per poi stringere i denti.

Sobbalzando nel vedere, per la prima volta, la causa prima dell’enorme macchia di sangue sul pavimento, dissi lesta: “Vado a prendere il necessario per medicarti, poi ce ne andremo da qui e mi racconterai qualcosa di meno assurdo di quel che mi hai detto. Non voglio che ci trovino, o potrebbero pensare di fare spezzatino della sottoscritta, e di te uno scendiletto, ammesso e non concesso che tu dica il vero, cosa di cui dubito fortemente.”

Lui sogghignò, prima di asserire: “Non mi fiderei neppure io, ma ti metterai nei guai, portandomi via di qui. Inoltre, ti ho detto la verità.”

“Mi sono già messa nei guai quando ho messo il naso qui e ti ho liberato. Neppure dovrei starci, nella cantina” replicai per contro, facendo l’atto di andarmene.

Lui mi afferrò un braccio, gli occhi non più verdi come smeraldi, ma cangianti e macchiati di gocce dorate.

Immobilizzata dal suo sguardo come un gatto abbagliato dai fari, non seppi né muovermi, né proferir parola.

La forza con cui mi aveva afferrata non era quella di un uomo.

E quegli occhi cangianti non potevano appartenere a un essere umano.

Quindi, cos’era realmente?

Possibile che quello che continuavo a negare così strenuamente, fosse vero?

Dovevo sul serio dare retta alla parte più illogica di me che, solitamente, ascoltavo ben di rado?

Scorgendo il mio panico, allentò la presa e mormorò: “Scusa. Volevo solo sapere cosa volevi fare.”

Presi un gran respiro – dopotutto non mi avrebbe ammazzata, era un buon inizio – e dissi: “Prendo il necessario per andarcene di qui e, eventualmente, per approntare un piccolo campo per medicarti con più sicurezza. Tornerò tra un paio di minuti, te lo prometto.”

Non so se fu il mio sguardo sincero a convincerlo, o il mio tono di voce, ma lui annuì, intrecciando le braccia nerborute sul torace abbronzato e solcato da una scia di peluria sottile.

Sorrisi di fronte alla sua posa abbastanza rilassata, nonostante quella fosse una situazione tutt’altro che piacevole, e asserii: “Due minuti.”

“D’accordo.”

Mi chiusi la porta della cantina alle spalle, risalendo i gradini a due a due e, con passo felpato, rientrai in casa e raggiunsi lo sgabuzzino dove tenevo il necessario per il campeggio.

Lì, raccolsi il mio zaino della McKinley, già debitamente equipaggiato grazie a Nancy e alla sua decisione di uscire in campeggio quel week-end.

Ne estrassi uno dei cambi d’abito – non potevo continuare a girare in pigiama – e me lo infilai alla svelta, prima di mettere in tutta fretta nello zaino quello che mi ero appena tolta.

Dopo aver afferrato scarponcini e tenda, sgattaiolai nel vicino bagno a pian terreno e dilapidai le scorte di medicinali nell’armadietto fissato al muro.

Non avevo ancora idea di dove avremmo potuto andare, né di come avrei spiegato tutto quel gran casino a Patrick.

Di certo, però, non avrei permesso a nessuno, neppure a lui, di infierire su un uomo, pazzo o meno che fosse, licantropo o meno che fosse.

Non limitarti a porgere l’altra guancia, difendila, quella guancia.

Sorrisi, quando mi tornò alla mente la frase che mia madre era solita usare, quando tornavo a casa lamentandomi dei miei compagni di classe.

Beh, quella volta, avrei difeso la guancia di quell’uomo da Patrick e i suoi. A costo di passare un brutto quarto d’ora.

Mi sarei fidata di quella parte solitamente poco utilizzata di me che ora, invece, sosteneva a gran voce la tesi che, qualsiasi cosa fosse successa, io dovevo tirar fuori di lì quell’uomo.

E lo avrei fatto.

Una volta fatta scorta di medicinali, presi le chiavi della mia auto e tornai dabbasso, ben decisa a non perdere un secondo di più.

Non appena rimisi piede in cantina, l’uomo mi guardò con occhi sgranati, esalando confuso: “Avevi intenzione di scappare di casa prima ancora di incontrare me?”

Io ridacchiai, replicando: “No, avevo solo in previsione una gita nei boschi con le mie amiche. E’ stata una fortuna, perché così non ho dovuto perdere tempo a preparare lo zaino. Andiamo, allora…”

Notando la mia indecisione nel proseguire il discorso, lui sorrise – il primo sorriso che scorsi dacché i nostri sguardi si erano incrociati – e disse, allungandomi una mano: “Duncan… Duncan McKalister.”

Stringendo l’ampia e possente mano – che avrebbe potuto triturarmi la testa senza sforzo – replicai: “Brianna Ann Spencer… cioè, Smithson… beh, insomma, hai capito.”

Lui ridacchiò e annuì, prima di portarsi la mano sinistra alla spalla. “Dobbiamo fare in fretta. L’argendo comincia a farsi sentire.”

“Tampona la ferita con queste bende” gli dissi sbrigativa, passandogliene un sacchetto.

Fosse allergico o meno all’argento, era evidente che qualcosa non andava, perché il suo pallore si stava facendo più evidente a ogni secondo che passava. “Dovrebbero bastare, per il momento.”

Detto ciò, mi diressi verso il portone della cantina, tallonata dappresso da Duncan.

Soprendentemente, non mi turbò l’idea di averlo alle spalle – ero più che convinta che non mi avrebbe fatto del male – e la cosa mi stupì parecchio.

Perché, con Patrick, non mi ero mai sentita a mio agio mentre con Duncan, un perfetto sconosciuto e un potenziale malato di mente, sentivo di potermi fidare?

Di certo non poteva solo essere a causa della sua bella faccia. O almeno, così speravo. Volevo credere di essere un poco più pignola di così.

Sbirciai fuori dopo aver aperto il portone di legno e, fattogli segno di seguirmi, ci avviammo verso la mia Mini Minor verde del ’95, che si trovava sotto un olmo all’altro capo del cortile inghiaiato.

Aperte le portiere con la chiave, sistemai in fretta lo zaino e gli scarponi nel baule, mentre Duncan mi raggiungeva con passo stanco e l’aria di essere quasi allo stremo.

“Dobbiamo tenerci lontani dalle vie trafficate, o potrebbero avere qualcosa da ridire sul mio stato” ridacchiò stentatamente Duncan, salendo a fatica in auto.

“Direi proprio di sì” ammisi, controllando che riuscisse ad allacciare la cintura nonostante il dolore alla spalla.

Dopo aver annuito nel vederlo pronto a partire, guardai spiacente la casa dalle imposte ancora chiuse e, tra me, chiesi scusa a Gordon.

Ero certa che la mia fuga improvvisa lo avrebbe sicuramente mandato in paranoia, per non dire fuori di testa. Così come sarebbe successo a Mary B.

Ma non me la sentivo di lasciare solo Duncan, specialmente dopo quello che Patrick e la sua cricca gli avevano fatto e, soprattutto, per quello che avevano avuto intenzione di fargli.

Misi in moto e uscii dal cortile col motore al minimo, prima di immettermi sulla Birdston Road e dirigermi verso sud.

Fui grata per la strada deserta, e la totale assenza all’orizzonte di quei maledetti pick-up che avevano assediato la nostra casa di prima mattina.

Restai testardamente sotto le trentacinque miglia orarie, nonostante le occhiatacce di Duncan che, a più riprese, mi chiese urgentemente di aumentare l’andatura.

Io, più che decisa a non attirare l’attenzione, replicai in più di un’occasione: “Conosco la zona, e so dove si mettono le pattuglie. E poi, sto guidando io.”

Le mani ben salde sul volante, fissai il mantello scuro della strada di fronte a me, cercando rilassare i tratti del mio viso e il ritmo del mio respiro.

Le mie nocche, sbiancate dalla stretta convulsa, smentivano comunque  la mia apparente calma.

Come un ciclista impegnato in una estenuante gara di resistenza, cercai di impormi un certo grado di pace mentale.

Usai l’orizzonte per raggiungere una leggera trance, che mi sarebbe servita per uscire indenne dal panico che si stava mangiucchiando un pezzo alla volta il mio cervello.

Non potevo permettermi di strepitare come una pazza o mettermi a piangere per la paura – sebbene ne avessi una gran voglia – ; mamma e papà ci avevano insegnato a non aspettare la cavalleria.

E, in quel caso, di certo non sarebbe arrivata. Anzi, tutt’altro.

Io ero l’unica cavalleria a disposizione, perciò, niente attacchi di panico.

Oltrepassammo l’interland di Glasgow in meno di mezz’ora, mezz’ora in cui il sedile della mia Mini divenne un miscuglio inguardabile di tinte indefinibili.

Il rosso cupo del sangue di Duncan che continuò a scivolare copioso dalla ferita, nonostante la pressione esercitata dalle bende.

Piansi mentalmente all’idea di quel che avrei speso per ripulirla – e soprattutto di come avrei spiegato tutto quel sangue al titolare dell’autolavaggio.

Prima di tutto, però, dovevo pensare a salvarlo dal dissanguamento, o tutto sarebbe stato vano.

A Eaglesham, svoltai in una stradina sterrata, verso sud-ovest, inoltrandomi nella campagna coltivata in direzione di una serie di bacini idrici poco distanti e fuori mano.

L’ideale, come nascondiglio per curare la ferita di Duncan, sempre che il suo fisico avesse retto fino a laggiù.

Badandovi solo marginalmente – i miei occhi corsero sempre più spesso alla figura del mio compagno di fuga, timorosi nello scorgere i segni del suo cedimento fisico – mi lasciai alle spalle diverse fattorie.

I trattori, già in movimento, non mi turbarono tanto quando la vista del pallore spettrale del viso di Duncan.

Erano già parecchie miglia che non diceva più nulla, e mi chiesi turbata se sarebbe sopravvissuto il tempo necessario per permettermi di estrarre il proiettile.

Era mai possibile che non mi avesse mentito e che, in effetti, l’argento lo stesse uccidendo?

Se si fosse trattata di un’allergia, avrebbe già avuto uno shock anafilattico, invece il suo corpo non si era né gonfiato, né si era coperto di pustole.

Sembrava, semplicemente, che stesse smettendo di vivere poco alla volta.

Allungai una mano per tastargli la fronte e, mordendomi un labbro per l’apprensione, la sentii calda sotto le mie dita. Brutto segno davvero.

Come poteva essere così pallido e avere la febbre? Che diavolo gli stava succedendo?

“Ci siamo quasi. Resisti” mormorai, cercando di rincuorare anche me stessa, e non solo lui.

Lui annuì, sussurrando: “Ti ho messa davvero in una bella situazione. Scusa.”

“Tranquillo, sono un’esperta di situazioni incasinate. Come vedi, in questa mi ci sono infilata da sola, e con gran classe” cercai di ironizzare, mentre il bacino artificiale dove avevo intenzione di nascondere l’auto si avvicinava sempre più.

Lì, avrei avuto tutto il tempo per curarlo e decidere sul da farsi.

Raggiunto il bacino, inchiodai l’auto con uno stridore sordo di pneumatici sulla ghiaia della mulattiera, e lì nascosi la Mini sotto un gruppetto di piante di noce dal tronco nodoso e robusto.

Fatto ciò, inforcai lo zaino sulle spalle e mi misi gli scarponi ai piedi, dopodiché aiutai Duncan a scendere dall’auto per dirigerci nel boschetto vicino.

Il suo peso gravava sulle mie spalle – non ero abbastanza alta per fornirgli un appoggio eccellente, ma non potevo far di meglio.

Il suo respiro affannoso mi fece capire che, i suoi sforzi di rimanere cosciente, erano ormai vani e prossimi a venire meno. Dovevo sbrigarmi.

Indicandogli uno stretto sentiero boschivo, gli chiesi: “Come può, l’argento, farti reagire a questo modo? Se fossi semplicemente allergico, ti dovresti gonfiare come un pallone e avere uno shock anafilattico.”

Lui sogghignò, scosse il capo e infine mormorò: “Non è allergia. E’ come ingoiare veleno, per noi. Ci divora poco alla volta e, se non interverrai alla svelta… io…”

“Duncan? Ehi, non mi mollare così, eh?” esalai, sicuramente impallidendo al pari suo, notando il sudore profuso sul suo viso innaturalmente cereo.

“Farò… del mio… meglio… ma non so se…” cercò di dirmi qualcosa, prima di appoggiarsi al primo albero utile per riprendere fiato.

“Merda!” esclamai, guardandomi intorno freneticamente.

Non eravamo lontani dalla carreggiata come avrei voluto, ma non potevo più aspettare, perché ormai le condizioni di Duncan non permettevano ulteriori indugi.

Dovevo estrargli quel maledetto proiettile dalla spalla, e dovevo farlo subito, o lo avrei perso.

La sola idea mi fece venir voglia di imprecare, prendere a calci tutto quello che mi circondava, unitamente a un gran desiderio di inginocchiarmi e mettermi a gridare di paura.

Ma non mi era concesso né l’uno ne l’altro sfogo.

Proteggila, quella guancia.

E l’avrei protetta, mi dissi, stringendo i denti per non mollare.

Tornai a fissare Duncan, ansimante e preda di un dolore che potevo solo immaginare, un dolore che mi faceva sentire inutile e impotente ma che, al tempo stesso, mi diede la forza per non cedere.

Sfiorandogli il braccio con una mano, sussurrai: “Ce la faremo, vedrai.”

Lui annuì, non potendo fare altro e il mio sguardo, turbato, andò ai bendaggi madidi di sangue.

Nuovamente, mi chiesi cosa stesse succedendo all’interno di quel corpo apparentemente invulnerabile, ora però preda di  un avvelenamento davvero singolare.

L’argento che, fino al giorno prima, mi era sembrato solo un metallo innocuo e carino, ora stava uccidendo un uomo che, fino al giorno prima, non mi sarei mai immaginata di incontrare.

E salvare.

 
 
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N.d.A. benvenuti nel mio nuovo universo. Spero che la storia che ho da offrirvi possa essere di vostro gradimento. Buona lettura e, se volete, commentate! Mi fareste davvero cosa gradita

  
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