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Autore: Airaly    06/07/2012    7 recensioni
"Lo sguardo che seguì la mia domanda, ce l'ho ancora davanti agli occhi, in questo momento. Era a metà tra il sorpreso e il divertito, qualcosa di indecifrabile, quasi come il Jazz.
-Non te l'ho mai detto John? Io non sono mai sceso da questa nave.
Rimasi senza fiato, iniziai addirittura a ridere.
-Non è possibile! Non sei mai sceso dalla nave? Non hai mai messo piede sulla terraferma?
-No. Mai, neanche una volta, neanche per mezzo minuto.
-E perché? Non hai mai avuto la voglia di scendere, di conoscere una bella donna, avere dei figli?
-Donne?- mi rispose con una smorfia -non mi interessano donne e bambini. Io suono. Questo basta.
Non riuscì a cavargli di bocca altro, non mi disse perché non era mai sceso dalla Virginian, ed io dal canto mio, non glielo chiesi più. Accadevano sempre troppe e bellissime cose perché il problema potesse tornare a tormentarmi. O almeno così credevo."
AU - Sherlock/La leggenda del pianista sull'oceano
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jim Moriarty , John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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We were in the Ocean together

 

 

 

Guardai ancora una volta la nave, carico di nostalgia. Guardai la chiglia arrugginita, lambita dall'oceano per più di trent'anni. Guardai la U.S.S. Virginian adagiata sulla superficie liscia del cantiere, dove pian piano gli operai le stavano riempiendo la pancia metallica di esplosivo.
Buffo, pensai, come un'oggetto inanimato e morto come quello potesse rappresentare con tanta audacia gli anni più belli della tua vita. Sei per l'esattezza. Sorrisi al ricordo.
Mi chiusi per bene nel cappotto di cammello, mani in tasca, ed io, John Watson, iniziai a passeggiare su e giù per la banchina deserta, lasciando fluire i ricordi come acqua salata tra gli scogli.
All'epoca quel piroscafo rappresentava per me il futuro. Non avevo un vero e proprio lavoro, sapevo fare una sola cosa, una sola dannata e bellissima cosa: suonare la tromba. Dio, quanto mi riusciva bene! Fu grazie a quel piccolo ottone che m'imbarcarono sulla Virginian, sissignore.
Non so bene che genere di musica fosse, quella che suonavo io. Ricordo però qualcuno che mi rispose così:

"Se non sai cos'è, allora è Jazz"

Non mi soffermai molto su quell'affermazione, fatto sta che poco dopo mi convinsi che la musica che facevo io, era proprio Jazz. Si capiva quando la suonavi, la leggevi negli occhi e nei sorrisi della gente che ti ascoltava, era qualcosa che davvero non potevi spiegare. Era veramente Jazz, senza alcun dubbio.
La prima sera che passai sulla Virginian per poco non vomitai anche l'anima. Quel cazzo di mare mi accolse con un'orribile, bagnata e violenta tempesta.
Grazie al beccheggio spietato della nave riuscivo a malapena a tenermi in piedi, avevo l'intenzione di dare un'occhiata alla sala dove avrei passato il tempo a suonare per buona parte della mia vita, ma dopo aver visto la situazione lungo i ponti, decisi che forse era meglio aspettare il giorno dopo. Ma fu troppo tardi.
Penso che nessuno si realmente cosciente della forza con cui una nave riesce a spingerti in su e in giù durante una tempesta. Beh, vi posso garantire che non puoi opporti in alcun modo, sul serio, vai dove le onde ti dicono di andare, che la tua direzione sia una vetrata o un cameriere o una parete. Ed io ero lì. In mezzo a quel caos, a cercare di avanzare sul ponte per raggiungere il salone, mentre mi aggrappavo a qualsiasi cosa mi capitasse sotto le mani. Poi, quando raggiunsi la sala, non resistetti più. Presi il primo vaso vuoto che mi capitò sottomano, e ci sputai dentro tutto quello che avevo in corpo e che ribolliva per uscire.
Fu allora che lo vidi.
Era in piedi davanti a me, le mani in tasca, la lunga figura perfettamente in equilibrio nonostante il beccheggio incessante della Virginian.
-Ehi Conn- fu la prima parola che mi rivolse -sembra che tu abbia un problema con le onde- disse, la voce atona che risuonava nel silenzio del ponte.
Rimasi stupefatto, non mi chiesi nemmeno perché mi aveva chiamato in quel modo.
-Come diavolo fai?- gli chiesi, madido di sudore.
Lui rispose alzando le spalle.
-Vieni con me- fu la sua risposta.
Non so perché decisi di seguire quello sconosciuto, cosa mi spinse ad arrancare dietro la sua elegante figura che entrava silenziosamente nel salone deserto, dirigendosi verso un bellissimo e solitario pianoforte a coda in un'angolo della sala. Lo seguì, senza un reale motivo, un pò come la storia del Jazz.
Lo guardai sedersi sul seggiolino del piano, sfiorare delicatamente i tasti e chiedendomi di togliere i freni.
Gli dissi che era pazzo, che non sapeva cosa diavolo stava facendo, ma lui alzò lo sguardo di ghiaccio, dicendomi di nuovo:
-Togli i freni.
Di nuovo non so cosa mi spinse ad ascoltarlo, a dargli retta. Ma levai i freni, e mentre il pianoforte iniziava a scivolare sul pavimento mi sedetti accanto a lui, che intanto aveva cominciato a muovere le dita lunghe ed agili sui tasti d'avorio, riempiendo l'aria con una melodia meravigliosa.
Quella sera danzammo con l'oceano. Sembrerà una cosa stupida da dire, ma fu proprio così. Mentre il pianoforte viaggiava per il salone, sfiorando colonne, sedie e lampadari lo sconosciuto suonava, suonava e suonava.
Iniziai a ridere quella sera, e lo ammetto, sto ridendo anche adesso, quando capì che quel ragazzo mi aveva reso partecipe di una cosa meravigliosa. Le note che si mescolavano alla risacca del mare agitato, danzare con l'oceano. Fu meraviglioso.
Poi ricordo che la magia finì. Il pianoforte si schiantò contro la vetrata della sala in un fracasso di vetri rotti, e si schiantò proprio contro la cabina del comandante, il signor Mycroft. Cavoli, sicuramente quello non era il modo migliore per presentarsi ufficialmente al capitano! Ma capì dal suo sguardo verso il misterioso pianista che quella non era la prima volta che succedeva qualcosa del genere.
Ci ritrovammo a spalare carbone nelle caldaie, e proprio in quelle caldaie, nel cuore pulsante della Virginian, il ragazzo mi disse il suo nome, un nome che non scorderò mai più.
-Tutti mi chiamano Novecento- mi disse, accasciato sul mucchio di carbone davanti alla caldaia.
-Perché ti chiamano Novecento?- chiesi ridendo -non è un nome! E'... un numero, un'anno, il titolo di una canzone!
Lui mi guardò, sorridendo appena.
-Sono nato su questa nave- mi disse -il primo giorno del primo mese del primo anno di questo secolo. Nemmeno io so il mio vero nome, sulla culla in cui mi ha trovato il vecchio Danny erano incise le iniziale SH, ma non so a quale nome corrispondano, potrebbero esserci milioni di nomi e cognomi che iniziano con S e con H, non trovi? Cos' mi chiamano Novecento.
Ricordo che rimasi leggermente allibito a quell'affermazione, nato su una nave? Ma stiamo scherzando! Eppure Novecento continuava a guardarmi, più serio che mai. Cazzo, finì col credergli sul serio.

Da quel giorno vidi così tante cose, sentì così tante sensazioni, brividi e sentimenti intorno a quello strano ragazzo, nato e cresciuto su un piroscafo che traghettava anime verso il Nuovo Mondo, parole e note che si perdevano tra le grida dell'oceano, portate verso nuovi orizzonti e tramonti.
Ancora oggi, mentre ci ripenso, credo che gran parte delle nostre conversazioni sarebbero risuonate folli alle orecchie della gente. Ma la gente non sapeva, la gente parlava e basta, mentre io ebbi il privilegio di ascoltare e di vedere Novecento e la sua musica, partorita tra le onde del mare.

 

Ricordo quel giorno in cui mi raccontò un'aneddoto che lo divertiva molto, a proposito della fitta nebbia che spesso ricopriva New Orleans. Quando ebbe concluso, gli occhi di ghiaccio ancora estasiati al ricordo di quell'esperienza, gli domandai:
-Hai visto così tanti posti, in soli trent'anni. Dove hai trovato il tempo di scendere e visitarli tutti?
Lo sguardo che seguì la mia domanda, ce l'ho ancora davanti agli occhi, in questo momento. Era a metà tra il sorpreso e il divertito, qualcosa di indecifrabile, quasi come il Jazz.
-Non te l'ho mai detto John? Io non sono mai sceso da questa nave.
Rimasi senza fiato, iniziai addirittura a ridere.
-Non è possibile! Non sei mai sceso dalla nave? Non hai mai messo piede sulla terraferma?
-No. Mai, neanche una volta, neanche per mezzo minuto.
-E perché? Non hai mai avuto la voglia di scendere, di conoscere una bella donna, avere dei figli?
-Donne?- mi rispose con una smorfia -non mi interessano donne e bambini. Io suono. Questo basta.
Non riuscì a cavargli di bocca altro, non mi disse perché non era mai sceso dalla Virginian, ed io dal canto mio, non glielo chiesi più. Accadevano sempre troppe e bellissime cose perché il problema potesse tornare a tormentarmi. O almeno così credevo.

 

Ricordo che rimasi stupito, quando venni a conoscenza del fatto che Novecento non suonava solamente nel grande salone in prima classe con in bellissimo e lussuoso pianoforte a coda. Mi dissero che sulla nave c'erano due pianoforti, uno in prima classe, l'altro in terza, più piccolo e modesto, di quelli verticali, da parete.
Gli chiesi il motivo di quella decisione e lui mi rispose in un'alzata d spalle.
-Si vedono molte più cose giù in terza classe John. Mi hai chiesto come faccio a sapere tutte quelle cose sul mondo là fuori, le imparo guardando la gente laggiù, come qui- disse, indicandomi la folla di ricconi intorno a noi.
Quella sera stavamo intrattenendo come al solito la sala da ballo in prima classe con il nostro piccolo gruppetto Jazz, e per la prima volta il mio amico mi mostrò di cosa era capace. Novecento era capace di vedere.
-Vedi quella signora laggiù? E' la classica donna passionale e astuta che fugge dal marito, nonostante questi si trovi sulla nave con lei, per divertirsi con qualche amante a bordo.
-Come diavolo fai a dirlo?- sussurrai alle sue spalle, e mentre lui continuava a suonare mi rispose con un mezzo sorriso.
-Tutti piccoli indizi e un pò di osservazione. Prima ho visto la donna insieme ad un'uomo, leggermente sovrappeso. Hanno parlato per un pò, bevuto un drink insieme e infine si sono congedati l'uno dall'altra con un rapido bacio sulle labbra. In quel momento la donna indossava la fede, ma se le guardi la mano ora, vedi che non ce l'ha più. Perché una moglie fedele ed innamorata dovrebbe togliersi la fede? Tra l'altro era anche una vera abbastanza nuova, quindi il matrimonio dev'essere piuttosto giovane. Però adesso, come vedi, oltre a non indossare la fede è in compagnia di un'altro uomo e- Novecento s'interruppe, guardando i due che avevano iniziato a baciarsi con passione. Mi scoccò uno sguardo divertito, poi aggiunse - adesso John, basta parole, ho un pubblico da intrattenere!
Detto questo partiva sempre con uno dei suoi assoli strabilianti, che concentravano l'attenzione del pubblico su di lui e basta. Dio com'erano belli quei suoi assoli! Il povero direttore francese del gruppetto si incazzava come sempre, minacciando ogni volta Novecento di buttarlo fuori. Ma il povero disgraziato si ricredeva sempre, quando vedeva i volti stupiti ed estasiati del pubblico. E facevano bene ad essere estasiati.
La musica di Novecento sembrava un vestito di seta che scivolava via leggero e silenzioso dal corpo di una donna meravigliosa, ti passava dolcemente fra le dita, e contemporaneamente ti pugnalava il cuore lasciandoti senza fiato.

 

Ricordo di quella volta in cui Novecento fu sfidato dal creatore del Jazz in persona, James Moriarty.
A quanto pare qualche bravo idiota era andato a dirgli che su un certo piroscafo suonava un tale, e che quel tale era molto più bravo di lui. Ovviamente Moriarty non se l'era fatto ripetere un'altra volta, sfidò il mio amico ad un duello musicale, anche se allora non sapevo neanche cosa fosse, un duello musicale. Io ero rimasto alle pistole dei cowboy.
Tempo una settimana, la sera stessa del 24 marzo James Moriarty, l'inventore del Jazz, fece il suo ingresso nel nostro salone. Subito il silenzio calò fra tutti i presenti, la tensione e la riverenza scaturiti da quella geniale figura fecero rabbrividire tutti, perfino me, che avevo scommesso un'anno di paga a favore di Novecento.
Lui invece era tranquillo. Lo vidi osservare con quei suoi occhi di ghiaccio il nuovo arrivato, la curiosità era l'unico sentimento che potevo leggere nel suo volto pallido.
James Moriarty si avvicinò al pianoforte, mentre si accendeva un sigaro e squadrava Novecento con degli occhi fissi, grandi e neri. Dal canto suo il mio amico continuava a ricambiare il suo sguardo, sempre con quella buffa espressione curiosa.
Quando i due furono abbastanza vicini, Moriarty parlò:
-Permetti?- disse, indicando il seggiolino del pianoforte.
-Le è quello che ha inventato il Jazz?- disse il mio amico, che immediatamente fece posto al rivale.
-E tu sei quello che suona solo con l'oceano sotto al culo?
-Così dicono.
Il duello durò quattro o cinque round appena, se la memoria non m'inganna.
James Moriarty si rivelò subito il fenomeno che si raccontava in giro, per tre incontri dominò il duello, tirando fuori da quel pianoforte musica così bella e ritmata come non ne avevo mai sentita. Il mio amico invece, per quei tre round si limitò a ripetere le stesse composizioni del rivale, guadagnandosi gli insulti del pubblico.
-Novecento!- gli dissi sottovoce mentre Moriarty si cimentava nella sua quarta esibizione, a metà tra il disperato e l'incredulo -che cazzo stai facendo? Tu puoi suonare cento volte meglio di quel babbuino laggiù! Lo sai che mi toccherà lavorare per un'anno alle caldaie? A spalare carbone per un'anno intero Novecento!
-Stai tranquillo- mi rispose -non che mi daresti una sigaretta?
-Cos... Una sigaretta? Ora?! Stai scherzando spero! Ne fumi anche troppe di quelle, forse ti hanno annebbiato il cervello!
Lui roteò gli occhi.
-Ti dico di darmi una sigaretta.
-Oh, andiamo, ti sembra il momento giusto per fumare?!
-Mi dai quella cazzo di sigaretta?- disse, in un tono così tranquillo ma perentorio che non potei fare a meno di dargli retta, così gli consegnai la sigaretta.
-Spero tu sappia quel che stai facendo- gli dissi.
-Non preoccuparti- mi rispose con un'occhiolino.
Quando fu il suo turno gli spettatori avevano già iniziato a fischiare, e mi dispiaceva vedere quell'alta figura elegante insultata così ingiustamente. Repressi l'impulso di gridare contro tutta quella massa di ignoranti ricconi, ed iniziai a sperare nel miracolo.
Quando arrivò davanti al pianoforte Novecento si voltò, mostrando a tutto il pubblico la sigaretta spenta. Molto lentamente la posò sul bordo dello strumento, in bilico. Poi si accomodò al seggiolino, iniziando a suonare. E non riuscì a credere alle mie orecchie.
Nella frazione di pochissimi secondi Novecento era stato in grado estrarre da quel pianoforte una sequenza di note impressionate, strabiliante, forse, fu la parola migliore. I Do, i Fa, i Si Bemolle sgorgavano da quella tastiera come un fiume in piena, e nessun argine riusciva a fermarlo. Allo stesso tempo era una sinfonia così melodica e travolgente che tutti in sala, compreso me, non riuscivano più a render conto delle proprie azioni. Novecento mi raccontò dopo che vide persone a cui era cascato il sigaro acceso nei pantaloni più immobili di un manichino. Dio che serata!
Quando finì di suonare il pezzo, il mio amico prese in mano la sigaretta, che in tutto quello scrosciare di note era rimasta perfettamente in bilico sul bordo del pianoforte, e la posò sulle corde dell strumento. Rimasi strabiliato quando vidi la sigaretta accendersi grazie al calore, e ancora più strabiliato quando, lentamente, Novecento raggiunse il suo rivale, esterrefatto come il resto della sala.
Gli disse soltanto poche parole mentre gli porgeva la sigaretta, ma che mi rimasero impresse per un bel pò.
-Fumala tu. Io ne fumo già troppe.
L'unica cosa che quel giorno poté fare James Moriarty, l'inventore del Jazz, fu girare i tacchi e andarsene dignitosamente con la sigaretta in bocca, accompagnato dalla cacofonia di applausi che riempivano la sala.

 

Ricordo quella volta in cui il mio amico incise il suo primo ed unico disco, ed anche la prima volta in cui qualcuno incise il suo cuore di ghiaccio.
In via del tutto eccezionale, una compagnia discografica era riuscita a far salire a bordo uno di quei grossi macchinari per la registrazione dei dischi, evitando a Novecento di dover scendere dalla nave. Assistetti anch'io al grande evento quella mattina.
Il mio amico aveva accettato di buon grado la proposta, e anche se non ne era entusiasta (difficilmente qualcosa era in grado entusiasmarlo) sembrava felice di incidere il suo primo disco che avrebbe fatto il giro del mondo.
Quando fu tutto pronto, il macchinario in funzione, Novecento iniziò ad accarezzare i tasti d'avorio, mentre una delle suo bellissime melodie si diffondeva per la sala. Guardava il mare mentre suonava, come se le onde gli sussurrassero le note da premere. Poi all'improvviso, accadde qualcosa.
Davanti all'oblò si piazzò una donna. Una donna bella, matura, i capelli scuri raccolti in un'elegante pettinatura, le labbra rosse e belle che si aprivano in un delicato seppur aggressivo sorriso mentre guardava all'interno dell'oblò. Parve non notare il mio amico, che dal canto suo rimase a guardare la donna, mentre continuava a suonare la sua melodia, che ora aveva assunto un ritmo più lento, sincero e quasi malinconico. I suoi occhi di ghiaccio continuavano a seguire la donna, mentre questa si allontanava e spariva alla vista.
Piegai le labbra in un mezzo sorriso, accorgendomi della piccola "distrazione" che aveva catturato il mio infallibile amico.
Quando la canzone fu conclusa, il rappresentante della compagnia discografica proruppe in un'esclamazione estasiata, subito troncata da Novecento, che alzatosi dal seggiolino aveva preso con eccessiva flemma la matrice del disco dal macchinario, e si dirigeva fuori dalla stanza come se nulla fosse.
-Dove sta andando? Non può portarsela via! Quella matrice farà il giro del mondo!- piagnucolò il rappresentante, vedendosi allontanare fior di milioni.
-No invece- rispose il mio amico.
-No?!
-La mia musica non va da nessuna parte senza d me.
Detto questo, ci lasciò accanto all'inutile macchina, stupiti come non mai.
Non le sentì più parlare di quella donna, in futuro. Ma una volta ne parlammo a cena.
-Hai più rivisto quella donna?- gli chiesi all'improvviso. Ovviamente il mio brillante amico non si lasciò cogliere di sorpresa.
-Un paio di volte.
-E quindi?
-Quindi cosa?
-Le hai parlato?
-Certo che no.
Sospirai, all'incredibile ingenuità che Novecento manifestava nelle situazioni più semplici della vita.
-Perché non sei sceso insieme a lei?
-Come fai a dire che è già sbarcata?
-Vi ho visti, l'altra mattina alle scalette, sai? Non sei riuscito nemmeno a regalarle la matrice del disco. Devi uscire da qui Novecento! Farti una vita, trovare una bella moglie, dei figli!
Per un'altra settimana intera Novecento non accennò più all'argomento. Poi, come un quadro che sta appeso per anni e in un momento cade, ci fu la svolta. Cadde anche il mio amico.
-Domani scendo a New York.
Sorrido tutt'ora a pensare alla sorpresa che mi lasciò quell'affermazione, per poco non mi andava di traverso il thé.
-Scendi?!
-Esatto- annuì tranquillo, sorseggiando caffè dalla sua tazza.
-Perché, così all'improvviso?- immaginai che dietro a quella caduta dal chiodo ci fosse la Donna, come avevamo deciso di chiamarla, non conoscendo neppure il suo nome. Ma la risposta di Novecento mi stupì, se possibile, ancor di più.
-Voglio sentire il mare.
-Vuoi sentire il mare? Novecento lo senti tutti i giorni il mare! Ogni cazzo di giorno!
-No, no, no- scosse la testa riccioluta -io voglio sentire la voce del mare. Da qui non la senti, è diverso. Da terra invece, riesci a sentirla la sua voce. E' diverso John, capisci? Un contadino una volta mi ha raccontato che aveva sentito la voce del mare che gli gridava addosso, che gridava addosso all'umanità 'banda di cornuti, la vita è una cosa immensa, avete capito? Immensa!'. Voglio sentirla anch'io quella voce John. Ma qui, sulla Virginian, non è possibile.
Gli addii non sono mai stati il mio forte, ma proprio mai. Novecento salutò tutto l'equipaggio, uno per uno, con pacche a abbracci affettuosi. Scorsi anche qualche lacrima su alcuni volti. Il mio amico lasciava la Virginian, dopo trentadue anni passati su di essa. Novecento scendeva a terra.
Lo vidi per la prima volta indossare un lungo cappotto nero, accompagnato da una morbida sciarpa blu. Non gli avevo mai visto quegli indumenti addosso, ma non me ne curai. Quando arrivò a salutare me lo abbracciai fortissimo, trattenendo le lacrime. Lui ricambiò il mio abbraccio, sorridendo. Poi raggiunse le scalette.
Iniziò a scendere gli scalini metallici. L'equipaggio iniziò pure a gridare per incoraggiarlo, ed io, sorridendo, mi unì a loro. Il mio amico sembrava deciso ad arrivare fino in fondo, le mani in tasca, il mento affondato nella sciarpa, lo sguardo deciso.
Ma a metà della scaletta si fermò. Si fermò, e rimase fermo a lungo. Lo vidi scrutare l'orizzonte, i palazzi e le strade di New York. Rimase lì, sospeso fra la terra e l'oceano, fermo come una statua. Poi fece dietrofront, e tornò a bordo.
Nessuno seppe, neppure io, come mai Novecento decise di rinunciare. Non parlammo più dell'argomento, ed il mio amico, dopo una settimana di solitudine, tornò ad essere lo stesso di sempre.
Io comunque so solo una cosa: Scendere da un nave è facile, è dannatamente facile. Ma quando devi scendere dall'oceano, beh, quella è tutta un'altra storia.

 

Ricordo che i giorni passavano senza che me ne accorgessi, ricordo che la guerra stava arrivando, che il mondo stava cambiando. E che per me era giunta l'ora di scendere dalla Virginian. Di cambiare vita. Mi arruolai nell'esercito. Abbandonai la mia tromba, il Jazz, Novecento.
Il giorno in cui scesi dal piroscafo quasi non riuscivo a parlare dalla commozione. Il mio amico lo sapeva, e si limitò ad abbracciarmi come feci io il giorno in cui scese quasi a terra. Mi disse soltanto poche parole, a cui ripenso adesso con un peso sul cuore.
-John, in guerra e nella vita, che è un pò una guerra, non sei veramente fregato finché hai una bella storia da raccontare a qualcuno.
Ma nessuno credette alla mia storia. O perlomeno, nessuno si convinse appieno del fatto che ciò che raccontai era vero.
Quando in quel negozio di musica sentì la melodia di Novecento, il mio cuore si strinse in una morsa terribile da sopportare.
Il vecchietto mi disse che l'aveva trovato dentro ad un pianoforte, preso dal rigattiere. Mi salirono le lacrime agli occhi quando riconobbi il pianoforte a coda della Virginian.
Sono senza soldi e con un bel po' di debiti sul collo, ma feci tutto quello che era in mio potere per avere quella dannata matrice.
Il mio cuore si strinse ancora di più, però, quando il vecchio mi disse che la nave aveva finito la sua carriera.

 

Ed eccomi qui, a ricordare mentre guardo il relitto del piroscafo Virginian e della mia vita, le mani in tasca e un peso sul cuore, che viene trainato in mare inesorabilmente verso il suo destino.

"In questo mondo non sei veramente fregato finché hai una buona storia da raccontare a qualcuno"

Nessuno aveva creduto alla mia storia. Neanche l'armatore, quando l'avevo convinto a salire a bordo insieme a me per cercare qualcuno che non esisteva, che non era mai esistito.
Come ultimo favore gli chiesi di lasciarmi solo per qualche minuto. Avevo in mano la matrice ed un grammofono, erano la mia ultima speranza.
Andai nella sala macchine, mi sedetti su un tubo arrugginito e feci partire la melodia, gli occhi in lacrime.
-Ehi Conn- sentì, in un'angolo buio vicino alle macchine ormai arrugginite.
Ci abbracciamo come si abbracciano due vecchi amici, e parlammo, parlammo tantissimo.
-Com'è la guerra John?
-Un'inferno. Mi hanno sparato sai! Alla spalla. Ora vado a giro con un bastone, non mi riconosco più.
-Io ti riconosco invece- disse più serio Novecento. Lo guardai, spettinato e sporco di fuliggine.
-Tu cos'hai fatto?- chiesi, serio anch'io.
-Ho suonato. Per chi arrivava e per chi partiva. Anche da questo mondo, sai? A volte l'ultima faccia che vedevano era la mia. "Potrebbe suonare questa canzone per favore?" e lasciavano questa di terra con un'espressione felice. Ho suonato, come ho sempre fatto, John.
Lo guardai intensamente, iniziavano a prudermi gli occhi. Il mio grande e acuto amico capì al volo, pensai con una morsa al cuore.
-John- disse sorridendo appena -sai perché quella volta non scesi dalla nave? Perché rimasi a metà su quella scaletta, in quel grande cappotto nero?
Rimasi in silenzio, era la prima volta che me ne riparlò dopo l'accaduto.
-All'inizio ero convinto. Ero deciso a scendere dalla Virginian, a sentire la voce del mare!- disse emozionato -ma... A metà di quella scaletta ho guardato l'orizzonte. L'orizzonte John, era infinito. Palazzi, strade, persone, auto, lampioni a perdita d'occhio. E la fine? Dove sarebbe la fine? Si potrebbe vedere una fine, per favore? Ma lì non c'era la fine, nessuno me l'ha presentata davanti John. Nessuno.
Io iniziai a capire, iniziai a scuotere la testa, le lacrime che iniziavano ad inondarmi gli occhi, offuscandomi la vista.
-Io non ho bisogno di vedere il mondo. Il mondo è qui, su questa nave, vedo tantissimi mondi. Ma non più di duemila per volta, mi capisci? Come fate a vivere in mezzo a questa infinità, questa confusione di pensieri, vite e lampioni? A non vedere una fine all'orizzonte? Io ho avuto paura John! Paura di quel mondo senza fine, di quella nave troppo grande con troppi passeggeri a bordo. Dove finivano le mie note? Chi le avrebbe ascoltate? La mia musica nasce sul mare, fra le onde dell'oceano. Per quanto grande possa essere, anche l'oceano ha una fine, una spiaggia cui approdare quando il viaggio giunge al termine. Mi sarei perso, la mia musica si sarebbe persa. Hai presente un pianoforte? ha ottantotto tasti e nessuno di può dire il contrario, è così per forza. Tu sei infinito fra quegli ottantotto tasti. Ma la tastiera del mondo la fuori... Quella conta infiniti pezzi d'avorio, infinite note che io non posso suonare. Quello è il seggiolino sbagliato per me, quello è il pianoforte di Dio.
John- mentre parlava poggiò le mani sulle mie spalle, scosse dai singhiozzi ed io lo guardai a mia volta, guardai quegli occhi azzurro ghiaccio così trasparenti -io non posso scendere dalla Virginian. Perderei me stesso là fuori, non ci riuscirei. Tu scendi da questa nave John, vivi la tua vita, e racconta questa storia. Racconta di un pianista mai esistito, che ha suonato musica mai suonata.
Ci abbracciamo di nuovo, poi raccolsi grammofono e matrice, iniziando a salire le scalette arrugginite.
-Io invece me ne andrò in paradiso- gridò verso di me, la voce profonda che rimbombava tra le vecchie pareti di metallo -già immagino la scena sai?
"Salve, sono S.H. Novecento"
"S.H. Novecento? Non esiste un nome simile!"
"Oh si, è proprio il mio"
"Beh, cosa vuoi S.H Novecento?"
"Un posto, da qualche parte. Sa, sono morto"
"Ah si, si, certo. Ne abbiamo uno laggiù, vedi?"
"E mi servirebbe anche un braccio, l'ho perso nell'esplosione"
"Naturalmente! Quale?"
"Il sinistro"
"Oh, mi dispiace, abbiamo solo braccia destre"
Iniziai a sorridere tra le lacrime, mentre continuavo a salire.
"Va bene allora, vada per un braccio destro"
"Ne abbiamo un paio, uno bianco ed uno nero"
"Uhmmm, no grazie, preferisco la tinta unita"
Raggiunsi la porta che dava sul ponte, la aprì.
-Ehi John- sentì dal fondo -sai che musica con due bracci destri?

 

S.H. Novecento si sedette per terra, alzò le mani a mezz'aria. Chiuse gli occhi. Ed eccoli lì, gli ottantotto tasti. Iniziò a suonare con delicatezza, le note che scaturivano e sussurravano nella sua testa.

 

Adesso non so cosa fare. A dire il vero sono indeciso. Il botto della Virginian mi rieccheggia ancora nelle orecchie. Pezzi di metallo che saltano ovunque, lo scheletro arrugginito che si ripiega su se stesso e su... Basta. Concentrati.
Dopo l'esplosione ho fatto tutto quanto era in mio potere per tenere la matrice della canzone di Novecento. Sono riuscito a convincere il vecchietto del negozio di musica in qualche modo, penso di avergli fatto pena.
Mi ha pure consegnato una lettera, dicendomi di leggerla da solo, in una stanza tranquilla magari.
Sono in questa squallida stanza di motel, e rigiro la lettera fra l mie mani. Rileggo la grafia elegante e un po' antiquata, indeciso sul da farsi, anche se dentro di me penso di aver già preso la mia decisione.


Salve mio caro Thompson,

Le scrivo perché avrei una questione urgente che potrebbe aiutarmi a risolvere.
Ho da poco comprato un'appartamento da affittare in pieno centro, vedesse che posticino! E' arrivato un'inquilino, un bravo ragazzo silenzioso. Come suona bene il violino! Fa una musica strana, non saprei come definirla. Mi ha detto che cerca un coinquilino con cui dividere l'affitto. Magari laggiù conosci qualcuno? Non so, un disperato con pochi soldi e nessun posto dove andare? Magari che sa pure suonare uno strumento! Se lo trovi ti prego di fargli scrivere una lettera a questo indirizzo, mi preoccuperò di svolgere tutta la parte burocratica a suo nome e di aspettarlo.
Devotissima,
                                              
                                                                                                                                                                                                                  Mrs. Hudson

P.S: L'indirizzo è Baker Street, 221B, Londra.


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Ho visto di recente "La leggenda del pianista sull'oceano" e ne sono rimasta affascinata <3 Questo è un piccolo tributo, ovviamente linee temporali, dialoghi e quant'altro sono differenti! Non ho molto altro da dire in realtà, sarà questo caldo allucinante che sta facendomi liquefare il cervello già compromesso di suo xD
Recensioni sempre benvenute! Spero vi piaccia :)

Airaly

  
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