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Autore: Yuri_e_Momoka    07/07/2012    2 recensioni
Avevo iniziato a sedermi al suo posto, nella sua poltrona: vederla vuota mi riempiva di malinconia e, inoltre, speravo che qualche traccia della sua intelligenza fosse assorbibile attraverso quella fodera in pelle sintetica; speravo che il mio cervello potesse lavorare più in fretta.
Se fossi stato al suo posto, mi avrebbe trovato in poche ore, e questo soltanto perché la polizia avrebbe dovuto ultimare tutta la burocrazia e mettere in atto tutte le procedure prima di agire. Se fossi stato al suo posto, a quest’ora mi sarei già trovato a Baker Street a sorseggiare caffè caldo.
La verità era che ero spaventato a morte perché stare seduto su quella poltrona non faceva di me Sherlock Holmes.
Genere: Angst, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Lestrade , Quasi tutti, Sherlock Holmes , Sig.ra Hudson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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TSS - 1

Nota: Questa fanfiction partecipa al concorso 'Don't be boring' indetto da Rosedub.89 e ha dovuto soddisfare questi requisiti:

Crimine: Pezzi di cadaveri umani vengono inviati per posta alle maggiori cariche politiche europee
Prove: Un appartamento completamente svuotato; Floris eaux de parfum “Sirena”
Impedimento: Il caso dovrà essere risolto da John, senza l’ausilio di Sherlock

Questa storia prende ispirazione da alcuni dei casi contenuti nel canone, quali: 'L'avventura della seconda macchia', 'L'avventura della scatola di cartone', 'L'avventura del detective morente', e 'L'avventura degli omini danzanti'.
Il rating è giallo a causa di alcune immagini e situazioni violente.




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Le ombre si accorciano, la luce vira dall’oro al grigio, il pulsante calore di una tazza che svanisce dalle dita.
 
**
 
Ci trovavamo a trascorrere l’inizio della primavera nel nostro appartamento di Baker Street. La pioggia che da giorni batteva pigramente e insistentemente alla finestra aveva avuto un ruolo decisivo, accompagnata da un periodo di silenzio da parte della comunità criminale di Londra, nel trascinare l’umore del mio coinquilino a un livello pericolosamente basso.
Osservando il cielo plumbeo, che sembrava tentare di entrare nell’appartamento, mi pareva di scorgere i pensieri cupi di Sherlock Holmes.
Sapevo bene che in quei momenti era inutile, se non anche dannoso e pericoloso, tentare di instaurare un dialogo con lui, perciò da giorni lo avevo lasciato a vegetare sul divano, con l’unica compagnia del suo violino e della sua vestaglia blu, gli unici al mondo che, essendo oggetti inanimati, potessero sopportare la sua irascibilità senza protestare.
Tuttavia non potevo biasimarlo completamente. Ero piuttosto sicuro circa la causa del suo malumore, tanto da poterci addirittura attribuire un nome: James Moriarty.
Erano trascorse meno di due settimane dal nostro incontro alla piscina, due settimane trascorse nella più totale incapacità di comprendere esattamente ciò che era accaduto e le sue implicazioni. O almeno per me. Senza dubbio la mente di Sherlock si muoveva in modo del tutto diverso.
«Nutro comunque ancora qualche speranza positiva nei confronti del tuo cervello» fu quello che disse dopo due giorni di totale silenzio, come se stesse riprendendo una conversazione appena interrotta.
Rinunciai in partenza a cercare di capire ciò che volesse dire. «Buon per me, allora.»
«Possiamo ancora fare in modo che non finisca la sua desolata esistenza nell’ignoranza quasi totale.»
Sebbene fossi abituato ai suoi commenti malevoli e cinici, specialmente quando si trovava nei suoi periodi di astinenza dal crimine – e da Dio solo sa quali altre sostanze molto più concrete – non sono mai riuscito a sopportare gli insulti gratuiti, anche se velati da una dialettica intelligente.
«C’è qualcosa che ti infastidisce particolarmente nel mio cervello o posso liberarmene del tutto senza troppi rimorsi?»
«Ora come ora farebbe poca differenza, ma siamo ancora in tempo per porvi rimedio.»
Stanco di quelle affermazioni mi alzai dalla sedia in salotto per andare a ritirarmi nella mia stanza. Mentre gli passavo davanti, Sherlock alzò gli occhi al soffitto.
«Sono le persone come te che non accettano i consigli altrui a non evolversi mai.» 
Mi fermai ancora prima di imboccare il corridoio, puntandogli il dito contro. «Perdonami, grande maestro, ma le tue non sono affermazioni, sono solo insulti gratuiti a un’intelligenza nella media!»
Non si premurò di nascondere una smorfia. «Le persone credono che sia un genio.»
«Meno male che non vengono a riferirtelo, altrimenti ti sentiresti al di sopra di chiunque!»
Si mise a sedere con uno scatto, puntando le mani in avanti come chi deve attirare l’attenzione di una persona tarda di mente.
«No, ascolta. Non si tratta di genialità, ma di saper usare il proprio cervello. La gente comune non sa farlo.» Non avevo intenzione di starlo a sentire, per cui ripresi la via verso la mia stanza. «Ma si può imparare! Almeno un minimo, qualcosa di adatto alle tue capacità.»
«Perché continui a tirarmi in ballo? Stai parlando di me o degli altri poveri mortali?» No, per quanto volessi fare la persona matura non mi era possibile abbandonare quella conversazione da sconfitto.
«La differenza è minima. Ora!» sottolineò appena vide che stavo per protestare. «Sai perché quei compatiti di Scotland Yard mi consultano per un caso su tre, anche se avrebbero bisogno di me per un caso su due? Perché nessuno di loro si è mai preso il disturbo di farsi una cultura in materia di crimini. I crimini sono come le mode, sono ciclici.»
«Come i pianeti» comparai, per prendermi una sicura rivincita. Sherlock apparve molto seccato e io molto appagato.
«Basterebbe» continuò, cercando di nascondere la sua irritazione, «leggere tutti i crimini compiuti negli ultimi duecento anni per trovare sempre un precedente. Ma nessuno lo fa. Fanno tutti troppo affidamento sulle loro menti brillanti, quando invece basterebbe passare un po’ di tempo in biblioteca».
Girai i tacchi. «Fenomenale. Vado a dire a Lestrade di trasferire il dipartimento alla British Library e di sostituire gli agenti con i bibliotecari. Sai che risparmio per i contribuenti!»
Invece, mi avviai definitivamente verso la mia camera al piano di sopra. Dalle mie spalle provenne ancora la voce insistente di Sherlock: «È l’esperienza che genera l’abilità! Nient’altro che l’esperienza e una mente allenata. Non certo come la tua, che viene sprecata in un blog dalla sintassi deludente».
Fu lo squillo del suo cellulare a coprire l’imprecazione che uscì senza riserbo dalla mia bocca.
«Sherlock Holmes» rispose, poi qualche istante di silenzio. «Chiamate un macellaio, dunque, potrà esservi utile.» Un altro silenzio si unì al mio sconcerto. Vidi Sherlock sorridere ironicamente. «Fratello caro, com’è andata dal dentista? Due carie? Anzi, tre. Ti avevo detto di stare attento alla dieta.» Si appoggiò lentamente allo schienale come chi si sta preparando ad ascoltare una lunga conversazione, invece    riattaccò subito dopo aver detto velocemente: «Cercherò di liberarmi dagli impegni pressanti».
Lasciò cadere il telefono sul divano e rimase a fissare il vuoto. Dopo un minuto buono azzardai un passo avanti.
«Dunque era Mycroft? O Lestrade?»
«Tutti e due.»
«Abbiamo un caso?» domandai, ansioso di porre fine a quelle giornate demoralizzanti.
«Può darsi.»
Questo bastò a far passare in secondo piano la nostra sgradevole conversazione.
 
La bella signora Hilda Trelawney Hope era seduta in corridoio, su una consunta sedia in plastica verde, con un fazzoletto di stoffa premuto sulla bocca, come se fosse sul punto di vomitare. Ero convinto, in realtà, che ciò fosse già accaduto nel momento in cui aveva aperto il pacchetto. Sally Donovan le aveva poggiato una mano sulla spalla e muoveva le labbra. Probabilmente le stava dicendo che un fatto del genere non era poi così raro.
Le osservavo dall’altra parte del vetro che fungeva da parete della stanza della stazione di polizia dove ci trovavamo riuniti. Sherlock ed io, Lestrade, il signor Trelawney Hope e persino Mycroft Holmes, l’unico attualmente seduto in un angolo buio: com’era suo solito, osservava la situazione prima di compiere qualunque sforzo.
L’oggetto della nostra attenzione era appoggiato sul tavolo in mezzo alla stanza. Sembrava un innocuo pacchetto, avvolto in una semplice carta da pacco gialla spiegazzata. Sherlock ne aveva sicuramente dedotto che il pacco era stato aperto e poi richiuso con la sua stessa carta, prima di essere portato alla stazione, confermando la storia dei due famosi coniugi. Il signor Trelawney Hope, infatti, altri non era che il Segretario degli affari europei. Il fatto che lui di persona, accompagnato dalla moglie, si fosse preso il disturbo di recarsi alla polizia era di per sé un fatto curioso. Ma mai come il contenuto di quel pacco: adagiato su un morbido supporto di cotone pulito si trovava un orecchio umano.
«È andata così» iniziò il signor Trelawney, con l’espressione impaziente di chi è costretto a raccontare i fatti per l’ennesima volta, «mi trovavo già in ufficio quando mia moglie mi ha telefonato. Non accade spesso, solitamente le sue chiamate mi arrivano tramite la segretaria…»
«Quindi l’ha chiamata sul cellulare» puntualizzò Sherlock. Non era affatto una domanda.
«Sì. Mi ha chiamato sul cellulare e quando ho risposto ho capito che si trattava di qualcosa di grave. Era molto agitata e preoccupata. All’inizio non sono riuscito a capire di cosa stesse parlando.»
«Le ha detto di aver ricevuto un orecchio per posta» completò Sherlock. Era difficile capire chi dei due fosse più impaziente.
«Esatto» rispose Trelawney stizzito. «Tuttavia non sono tornato a casa subito, credevo si trattasse di uno scherzo. Avevo da fare e così me la sono presa comoda. Sono arrivato all’ora di pranzo e così ho scoperto che, effettivamente, si trattava di un vero orecchio umano. Mia moglie voleva assolutamente chiamare la polizia, ma io ero restio: essendo un personaggio di rilievo sulla scena politica, simili scandali è meglio trattarli con delicatezza.»
«Lei voleva risolvere le cose privatamente ed ecco lo sfortunato motivo per cui mi trovo qui» terminò Sherlock dalla sedia in cui era pigramente sprofondato, le mani nelle tasche del cappotto. Poi si rivolse a Lestrade e a suo fratello: «Esiste un reale motivo per cui sono stato scomodato?».
«Il Segretario ha chiesto di te e non posso biasimarlo per questa scelta» rispose Lestrade, mentre Mycroft ignorò la domanda, intento a rigirarsi tra le mani il suo telefono. «Siamo comunque soliti lavorare assieme, quindi gli interessi di tutti possono coincidere: la polizia può usare i suoi mezzi per risolvere il mistero, mantenendo comunque la faccenda privata e ufficialmente assegnata a te.»
«È la polizia che lavora con me. Non è un rapporto simbiotico» disse Sherlock, ignorando completamente la spiegazione di Lestrade. Si alzò all’improvviso e rigirò la carta da pacchi.
«Spedita da un uomo francese» concluse. «Persino la polizia saprebbe dedurlo visto che il francobollo e il timbro postale sono inglesi, la scrittura è quella di un uomo colto, ma non laureato, verso la trentina, di origini francesi o che parla prevalentemente il francese, visto l’errore nello spelling della parola ‘Trelawney’, che è diventata ‘Trelaweny’. Quindi una sola persona o, più verosimilmente, un gruppo di due o tre. Certamente non occorro io per dirvi di analizzare il DNA dell’orecchio e dell’eventuale saliva sotto il francobollo. Chiamatemi se ci sarà un vero caso da risolvere.»
Senza attendere una risposta, Sherlock spinse la pesante lastra di vetro che fungeva da porta, facendo alzare la testa al sergente Donovan e alla signora Hilda.
«E se ti dicessi che altre parti del corpo sono state recapitate contemporaneamente ad altri Paesi europei?» La provocazione di Mycroft catturò l’attenzione di tutti coloro si trovavano nella stanza, Sherlock compreso. Evidentemente il maggiore degli Holmes era l’unico a conoscere quel risvolto.
«Non ne sono stato informato!» sbottò Trelawney.
«È una notizia fresca» rispose Mycroft, accennando al cellulare. «Senza offesa, Robert…» Alzò gli occhi su Trelawney. Non terminò la frase, ma il significato era ovvio.
Sherlock studiò per un istante la porta semi aperta, poi proseguì con decisione. «Penserei a controllare i recenti movimenti del gruppo anarchico.» Uscì senza aggiungere altro. Prima di seguirlo, gettai un’occhiata a Lestrade, sulla via dell’esasperazione, all’offeso signor Trelawney e al sogghignante Mycroft.
 
Sul taxi del ritorno rimanemmo in silenzio. La mia fu più che altro una scelta dettata dal buon senso e dell’esperienza, anche se in verità avrei voluto discutere di quello strano pacco.
«Cosa ne pensi dell’orecchio?» Finalmente la domanda. Quando Sherlock chiedeva la mia opinione ero sempre scettico; ero sicuro che trovasse le mie goffe risposte un divertimento in quei momenti di noia che un semplice caso gli procurava. Ero già stato oggetto delle sue critiche, quella mattina, ma il suo sguardo penetrante fisso su di me era in assoluto la motivazione più convincente che potesse darmi per rispondere.
«Uhm… non ho avuto tempo di analizzarlo accuratamente» iniziai, tendando di costruirmi una giustificazione per il mio probabile fallimento. «Era un orecchio destro.»
«Bene» mi incoraggiò.
«Sembrerebbe maschile, viste le dimensioni, ma c’era il buco di un orecchino nel lobo, quindi… una donna con le orecchie grandi?»
«O, più probabilmente, un uomo che portava un orecchino. Vai avanti.»
Imprecai mentalmente per non aver pensato a una soluzione così ovvia. Il mio entusiasmo iniziale subì un improvviso arresto.
«Non credo…»
«John, non ho una tale sfiducia nelle tue osservazioni.»
Un complimento che celava una critica, come suo solito.
«Ho sentito odore di formaldeide.»
«Ovviamente, altrimenti non si sarebbe potuto conservare.»
«Ma era sulla superficie, non è stata iniettata. Qualunque imbalsamatore o una persona con qualche competenza medica saprebbe che, per funzionare a dovere, la formaldeide va iniettata.»
«Bene.» Sherlock annuì. «Poi?»
«Carnagione scura. Ispanico?» azzardai.
Annuì di nuovo. «Proprio come il signor Trelawney.»
Mi illuminai. «Credi che lui sia coinvolto?»
«Non credo niente per ora.»
«Però pensi che sia un caso interessante.» Cercai di riguadagnare punti trasformando quella domanda in un’affermazione.
«Neanche lontanamente.»
Incassò la testa nel colletto del cappotto e si ammutolì di nuovo.
 
Fummo a casa per l’ora di pranzo e Sherlock non volle più parlare del caso. Ero abbastanza deluso dalla piega inutile che stava assumendo il mio giorno di riposo e stavo considerando l’ipotesi di fare una passeggiata prima che calasse il buio, quando qualcosa arrivò a interrompere la mia noia.
Il campanello suonò e la signora Hudson fece accomodare l’ospite al piano di sopra. Si trattava di Hilda Trelawney, nello stesso trench grigio, macchiato dalla pioggia, che indossava alla stazione di polizia. Stringeva forte i manici della borsetta come se questa fosse il suo ultimo appiglio.
«Ho qualcosa da aggiungere alla storia» disse, senza attendere di essere interrogata.
«Si sieda pure» la invitai, accennando alla sedia vicino al tavolo. Sherlock era nella sua poltrona e non aveva accennato ad alzarsi, né ad accogliere la signora.
«Vuole raccontarci la sua versione?» esordii. Lei scosse la testa.
«Quello che ha detto mio marito corrisponde alla verità. Però c’è qualcosa che ha tralasciato.»
«Lei voleva chiedere aiuto alla polizia, è stato suo marito a volermi consultare» la interruppe Sherlock.
«Sì. Ma ho pensato solo ora alla possibile connessione con un altro fatto che preferirei rimanesse privato, almeno finché non ne sapremo di più.»
«Continui» le concesse Sherlock distogliendo lo sguardo.
«L’assistente di mio marito è scomparso da un paio di giorni.»
«Ne ha denunciato la sparizione?»
La signora Hilda indietreggiò col busto in posizione di difesa. «In realtà no. Non siamo sicuri che sia scomparso. Intendo dire che non ne abbiamo più avuto notizia.»
«Questo assistente è ispanico e porta un orecchino all’orecchio destro?»
La signora annuì mestamente, senza sorprendersi: sapeva di cosa stava parlando. «Proprio così.»
«E perché vuole che la faccenda rimanga segreta? Il DNA confermerà comunque a chi appartiene quell’orecchio.»
La signora Hilda gettò un’occhiata alla finestra, mordendosi un labbro in un momento di indecisione. «Lui e mio marito hanno avuto una discussione due giorni fa. Una brutta discussione. Ma so che mio marito non c’entra niente con la sua sparizione. Signor Holmes!» Il tono della sua voce si era alzato gradualmente. «Lei è capace e intelligente, vorrei che trovasse le prove dell’innocenza di mio marito prima che la polizia ne faccia uno scandalo!»
«Una discussione a proposito di cosa?»
«L’assistente – il suo nome è Eduardo Lucas – ultimamente non teneva un comportamento professionale, arrivava sempre in ritardo, un paio di volte era ubriaco. Questo non è da lui, mio marito ha provato a parlargli, ma lui era troppo irascibile e mio marito non è molto paziente. Hanno finito con l’insultarsi e il signor Trelawney gli da detto di non scomodarsi a tornare se fosse stato di nuovo in quelle condizioni.»
«Chi ha sentito questa discussione?»
«Molte persone. Mio marito tiene alcune riunioni a casa e quel giorno ne era in corso una.»
Nonostante quelle rivelazioni Sherlock non sembrava più interessato di prima. La luce grigia di quel pomeriggio primaverile enfatizzava il suo pallore.
«Che compiti aveva il signor Lucas in qualità di assistente?»
«Aiuta mio marito nei rapporti con la Francia. Gli fa anche da interprete.»
«Perché parla al presente, signora Trelawney?» domandò con quella che parve una nota di rimprovero.
La donna ne rimase negativamente colpita. «Io spero sia ancora vivo!»
«Che rapporti aveva con Lucas?»
«Era spesso a casa nostra, qualche volta si fermava per cena.»
«Quando hanno iniziato a manifestarsi quei comportamenti insoliti?»
«Circa due settimane prima del litigio.»
Finalmente Sherlock si alzò dalla poltrona e si diresse alla porta. «Bene, signora Trelawney, lasci l’indirizzo di Lucas e vedremo cosa possiamo fare.»
Nella sua voce non c’era un briciolo di interesse. Hilda Trelawney uscì dalla stanza con qualche esitazione, dopo aver posato un biglietto sul tavolo.
«Si è ritrovata un orecchio mozzato tra le mani e ora cerca di difendere suo marito. Cos’è che ti infastidisce così tanto di quella donna?» Ero rimasto in silenzio tutto il tempo, lasciando pazientemente Sherlock al suo interrogatorio, ma ora che non potevo più metterlo in cattiva luce potevo cercare di capire il motivo della sua scortesia.
«Ordinaria. Impulsiva. Sentimentale.»
Colsi al volo quella frecciata e non fu affatto piacevole.
Come a sottolineare il suo disappunto, prese in mano il suo telefono e se lo accostò all’orecchio. «Lestrade. L’orecchio appartiene ad Eduardo Lucas, assistente personale e interprete di Trelawney.» Una pausa, la sua espressione rimase immutata. «L’ho letto nella mia sfera di cristallo, come faccio con tutti i casi. Andiamo a casa di quest’uomo.» Riagganciò, mentre dall’altra parte del telefono Lestrade parlava ancora.
 
Mentre salivamo le scale che portavano all’appartamento di Lucas in Godolphin Street, riflettei: era un caso insolito, almeno per me. In un semplice pacchetto sembravano convergere ben tre Paesi: mittente francese, francobollo e timbro postale inglesi, oggetto del pacchetto di origini spagnole. Come aveva affermato Sherlock, anch’io ero portato a credere al coinvolgimento di più persone. Se un francese aveva impacchettato il contenuto e un inglese l’aveva spedito, forse lo spagnolo poteva essere il mandante? O si trattava semplicemente di un lungo procedimento per confondere le tracce? O entrambi?
Entrammo nell’appartamento: era un casa vecchia, più che antica, con il soffitto alto e parquet lucido a rivestire il pavimento. Le testimonianze dei viaggi dell’inquilino in giro per l’Europa erano visibili nei numerosi cimeli mal accostati appesi alle pareti e appoggiati sui mobili in legno, tra cui una collezione di armi antiche, non troppo ben tenute. La casa sembrava più o meno in ordine, il letto era rifatto, niente sembrava essere stato risistemato velocemente. Pensai che Lucas non fosse stato sequestrato lì, oppure che non avesse opposto nessuna resistenza.
Lestrade aveva portato con sé due agenti e insieme a loro stava setacciando ogni angolo alla ricerca di indizi. Sherlock, d’altra parte, sapeva dove osservare. Diede un’attenta occhiata alla libreria molto fornita, aprì un quaderno che – spiai – sembrava pieno di disegni fatti da un bambino e lo fotografò col cellulare, sollevò le coperte sul letto e aprì i cassetti del comodino lì accanto. Ne estrasse un piccolo sacchetto bianco e raffinato, con un nastro di seta su un lato. Mi avvicinai incuriosito quando fui investito da uno spruzzo umido che mi mozzò il respiro. Tossii mentre Sherlock leggeva: «Floris eau de parfum. Sirena. Oh, un regalo lussuoso.»
Lanciò la boccetta in aria e io l’afferrai, rigirandomela tra le mani e rileggendo l’etichetta, con gli occhi che mi lacrimavano.
«Ho visto abbastanza» disse Sherlock approssimandosi all’uscita. «Non credo che il signor Lucas tornerà, quindi voi della polizia avrete tutto il tempo che vi serve per i vostri…» Agitò la mano in cerca di un termine pittoresco. «Tentativi.»
 
Era buio da un pezzo quando rientrammo. Sherlock non volle cenare, pensai che volesse sfruttare ogni sua cellula per la soluzione del caso. Eppure non aveva dato segno di interessarsi all’orecchio mozzato o alla scomparsa di Lucas. Anzi, seppur abituato ai suoi stati d’animo poco incoraggianti, ero rimasto colpito dalla sua ingiustificata irascibilità. Ingiustificata per me, quanto meno.
La pioggia aveva cessato di cadere, Baker Street era silenziosa, fuori era buio, eccetto per la luce paglierina del lampione che tentava di illuminare la strada. In conclusione, non c’era nulla di interessante subito al di fuori di quelle mura. Ciò che mi incuriosiva, invece, era lo sguardo spento di Sherlock rivolto verso i vetri.
«Non ti senti bene, per caso?»
«Non saprei, come ci si sente a non sentirsi bene?» rispose lui, parlando più lentamente del solito.
Gli risparmiai la mia incredulità e tirai a indovinare. «Caldo? Freddo? Brividi e formicolii? Dolore alle giunture?»
«Le ultime due, sì.»
Annuii. «Dev’essere influenza. Oppure è colpa di questa pioggia fredda. Ad ogni modo dovresti riposare.»
Ero preparato a una risposta saccente e sprezzante, invece Sherlock si alzò e si diresse lentamente verso la sua stanza. «Forse dovrei.»
Fui decisamente sorpreso, nonostante non lo avessi mai visto malato e quindi non sapessi com’era solito comportarsi. Ero rimasto vagamente stordito dalla sua docilità, quindi accennai qualche passo dietro di lui.
«Ti… serve qualcosa? Vuoi che ti porti qualcosa?»
«No.» Entrò nella camera.
«Cosa vuoi che faccia con il caso dell’orecchio?»
«Quale caso?» Chiuse la porta. Rimasi interdetto.
«Se hai bisogno…»
«John.» Udii la sua voce, resa ovattata dalla porta chiusa, eppure mi sembrò comunque troppo conciliante per essere la sua. «Non ti preoccupare.»
   
 
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