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Autore: Elle Sinclaire    08/07/2012    15 recensioni
Quando il silenzio fa paura, quando si tenta di riempirlo di suoni e rumori, quando persino compiere i passi verso la vita sembra difficile, l'unico conforto che sembra trovare Martina è quello di rintanarsi in un angolo di se stessa, senza parole da dire né capacità di afferrare il tempo che gli scorre veloce di fianco.
Stefano, il dj di una delle serate più famose della città, sembra avvicinarsi con la stessa lenta apatia al suo mondo fatto di rumori, tenta di penetrare quell'anfratto buio. Poi c'è Rebecca, la sorella di Stefano e amica di Martina, studentessa di filosofia che tornerà a scontrarsi con il suo primo amore, Leonardo. E Irene, una pessima amica senza alcun interesse al di fuori di se stessa, Roma vista attraverso gli occhi di chi la vive ballando, attraverso i suoi vicoli e la sua musica, il rumore del traffico e il vociare di Trastevere.
Questa è una storia fatta di suoni e realtà che collidono, dell'incapacità di affrontare la morte, ma anche la vita.
[Dal primo capitolo: "Giorgia mi sorrideva e basta. Non era una bambina di molte parole, la loquacità l’ha sviluppata verso i tredici anni; all’epoca si limitava a poche frasi e a leggere ad alta voce per me.
Avrei dovuto capire che la sua natura taciturna non era stata solo cancellata con un colpo di spugna, durante un’adolescenza turbolenta. Avrei dovuto capire che Giorgia non diceva quasi niente di tutto quello che in realtà avrebbe voluto e dovuto dire.
Forse se lo avessi capito ora tutto sarebbe diverso."]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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La cacofonia del silenzio.

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A chi riempie i miei
silenzi.

Il primo giorno delle elementari non volevo allontanarmi dal fianco di mia sorella Giorgia, per paura che una volta entrata nell’aula al piano terra della scuola Tosi la maestra Adriana mi prendesse e portasse via per sempre da quella che a soli otto anni era già la mia eroina.
Alla fine nostra madre mi aveva spinto con poca gentilezza attraverso la soglia della porta su cui era appiccicato un foglio con scritto a caratteri cubitali I^A e da lì era iniziata la mia vita da studentessa.
Imparai presto a leggere e scrivere, Giorgia mi aiutava ogni sera, sul balcone di casa, mentre guardavamo sopra di noi il cielo scurirsi. Lei leggeva già i primi libri, il primo in assoluto era stato una versione per bambini dell’Odissea e io l’avevo presa in giro per settimane. Non aveva mai letto libri del Battello a Vapore né le fiabe dei Grimm illustrate. Quelle ce le leggeva nostro padre, di solito, quando metteva un panno bruciacchiato sulla lampada vicino al comodino, per creare l’atmosfera giusta, e cominciava a raccontare di principi e cigni, rospi e streghe cattive.
Alla fine quel primo giorno non era stato così brutto e avevo raccontato a Giorgia con entusiasmo di aver conosciuto tanti bambini interessanti, soprattutto Luca Presto, il mio compagno di banco, un bambino con i capelli neri ricci e due grandi occhi azzurri.
Giorgia mi sorrideva e basta. Non era una bambina di molte parole, la loquacità l’ha sviluppata verso i tredici anni; all’epoca si limitava a poche frasi e a leggere ad alta voce per me.
Avrei dovuto capire che la sua natura taciturna non era stata solo cancellata con un colpo di spugna, durante un’adolescenza turbolenta. Avrei dovuto capire che Giorgia non diceva quasi niente di tutto quello che in realtà avrebbe voluto e dovuto dire.
Forse se lo avessi capito ora tutto sarebbe diverso.

○○○

Ci sono giorni in cui respirare è più difficile del previsto.
Sono i giorni che odia di più perché imprimono la loro disperazione a fondo nella pelle e scavano le sue ossa e i suoi tendini, con violenza impetuosa.
Martina, quei giorni, si nasconde sotto strati di fondotinta per coprire le occhiaie sotto gli occhi verdi e si arma di sorrisi finti e della pazienza di chi sa di non poter commettere passi falsi. Si alza da letto con sospiri di sconforto, beve il caffè con apatia e abbandona il caldo rifugio della sua abitazione per avventurarsi nel traffico romano e raggiungere il blockbuster dietro i Granai.
Lavora lì da quando ha lasciato la casa dei genitori e si è trasferita all’eur, lontano dai ricordi di infanzia, dai sorrisi falsi dei genitori, da una colpa che sembra non aver motivo di essere lavata via.
È solo una macchia sulla sua camicetta bianca su cui è appuntato il suo nome, nessun cognome, una signorina Nessuno in un negozio in cui al giorno non entrano più di trenta persone.
Una videoteca, nel duemiladodici non ha più senso, lei lo sa, il suo capo lo sa, i pochi clienti che ancora noleggiano vecchi film di Ingmar Bergman lo sanno. Finché rimane aperto però lei non si lamenta, perché significa che può pagarsi le spese della casa in cui è andata ad abitare, quella che era dei suoi nonni e che avevano lasciato a lei e Giorgia.
La sorella non aveva fatto in tempo a trasferircisi ed era stato meglio così, perché altrimenti lei non avrebbe avuto il coraggio di vivere tra le mura del bilocale al secondo piano di una palazzina color pesca.
Vive al risparmio da mesi, sei per la precisione, e l’unica spesa superflua è la benzina per la vespa con cui si muove per Roma, con le cuffiette dell’ipod incastrate tra i capelli e attorcigliate intorno alle cinghie del casco verde metallizzato.
Anche in quei giorni, però, Martina si riveste di sorrisi cortesi, strizza gli occhi sempre freddi, anche con l’arrivo della prima vera, porta fiori tra i capelli, mimose, margherite, rose finte, e sembra comunque solo la pallida eco di chi vorrebbe essere. Nessuno fa più domande da tempo, perché ha capito che Martina non risponderebbe, scuoterebbe solo la testa e il suo sorriso diventerebbe più falso.
 “Va tutto bene.”
Risponde a Rebecca che la chiama durante la pausa pranzo come ogni ventiquattro del mese. Quella mattina Martina ha venduto due film di Tarantino e dato in prestito una commedia romantica che lei non guarderebbe mai, qualcosa di melenso e poco credibile; uno di quei film che piacciono tanto a Irene.
Rebecca è sveglia e, anche se la conosce da poco, ha capito che un tempo sorrisi più sinceri avevano illuminato il suo volto, ma Martina non le ha mai spiegato perché ora non ci sono più. Ha solo ignorato un’altra domanda, sorriso di nuovo, strizzato di nuovo gli occhi e cambiato discorso.
“Stasera vengo a cena da te.”
Rebecca non ribatte, perché sa che in fondo la paura più grande dell’amica è la solitudine durante la notte tra il ventiquattro e il venticinque di ogni mese. Si presenta sempre a casa sua con In The Mood For Love, un film che lei odia, lento e pesante, ma che sembra essere l’unica cosa capace di tirare fuori Martina dal suo bozzolo e allora lei non si lamenta. Solo, a metà film, si addormenta.
“Torna Stefano stasera.”
Martina annuisce. Stefano è il fratello di Rebecca e lei non si sente a suo agio con lui vicino.
“Porto giapponese pure per lui.”
Sa che non potrà piangere, se c'è anche lui, quando a metà film Rebecca si addormenterà, perché invece Stefano guarderà ogni fotogramma del film con attenzione maniacale. Non si lascerà sfuggire neanche una lacrima, perché lui sembrerà concentrato sul televisore e invece con la coda dell'occhio osserverà lei.
Lui la osserva sempre.

Martina odia il silenzio: lo sente urlare e premere tra le sue pareti craniche con una pressione che potrebbe ucciderla, se lei non si ostinasse a riempirlo di suoni, musica, parole e movimenti concitati.
Parla, parla continuamente, sopraffatta dalla voracità con cui la sua lingua ingolla pensieri e li risputa in parole. Non svela niente, Martina, che nelle parole non trova senso né conforto, solo l'assenza della paura del silenzio, un silenzio che inspiegabilmente ogni volta proietta nella sua mente un tonfo, sordo. Uno solo.
Non svela neanche quello, quando a cena chiacchiera con Rebecca che però la guarda preoccupata e quando rivolge frasi di circostanza a Stefano che sembra amare il silenzio meno di quanto faccia lei.
Quando si siedono sul divano ad angolo, Martina è attenta a posizionarsi il più lontano possibile da Stefano e per farlo è costretta ad accucciarsi contro il bracciolo. Il silenzio prima dei titoli di apertura è intenso e Martina strizza gli occhi per concentrarsi sul suono del respiro di Rebecca, sul battito ritmico del proprio cuore, sul piede di Stefano che tamburella sul parquet nocciola. Piccoli e flebili rumori che non coprono l'urlo che nella mente riecheggia forte, ma che presto viene smorzato dall'inizio del film.
In The Mood For Love è tutto ciò che le fa paura: è la fiera dei silenzi assordanti riempiti di tutto, in una cacofonia resa reale da movimenti lenti, sentimenti forti, musiche e poche incisive parole.
È l’unica cosa che aveva avuto la forza di fare il ventiquattro settembre precedente: sedersi sul proprio divano, mentre la madre si imbottiva di sonniferi e il padre si sdraiava su un materasso lasciato in salotto, muto, senza più lacrime. Non ha dormito nella stanza sua e di Giorgia per due settimane, dopo quella notte.
Non aveva più rivisto quel film, nonostante non ricordasse altro all’infuori dei primi minuti: aveva passato le ore fino all’alba a guardare il video sul computer portatile che ripartiva in loop ogni novantotto minuti. In realtà le immagini che scorrevano davanti ai suoi occhi erano diverse, frammenti di flash, di macchine e luci, sirene; con lo sguardo vitreo, aveva solo osservato uno schermo che proiettava nella sua testa una melodia che da allora avrebbe ricondotto per sempre a quella notte.
Ogni mese il rituale ricomincia da capo, ma la solitudine non è qualcosa che è in grado di affrontare Martina. Anche solo il vociare indistinto di Stefano e Rebecca che commentano il film è confortante.
“Non capisco come faccia a piacervi.”
Il plurale usato dall’amica incuriosisce Martina, perché non ha mai conosciuto qualcuno empatico tanto da carpire la bellezza del film.
 “È evocativo.” Risponde Stefano.
“Non parlano.”
Martina sorride e vorrebbe rispondere per l’ennesima volta a Rebecca, ma è interessata alla risposta che darà il fratello. Lei sa perché ama il film, non sa perché qualcuno come Stefano dovrebbe amarlo.
“A volte non c’è bisogno di parole,” dice e per un attimo la guarda negli occhi. “a volte abbiamo solo bisogno del silenzio, senza però rimanere soli con i nostri fantasmi.”
Martina sgrana gli occhi e distoglie lo sguardo e l’attenzione. Spegne di nuovo il pulsante che la tiene ancorata al mondo, chiude gli occhi per un istante quando il tonfo torna a farsi sentire nella sua testa.
Dieci minuti dopo Rebecca si è distesa sul divano e dorme, Stefano è attento alle immagini che scorrono sullo schermo e lei sente qualcosa di bagnato pungere le pupille e affacciarsi sulle ciglia, aggrapparsi a esse, non scendere giù.
Respira a fondo.
“Puoi piangere.”
È solo un sussurro quello di Stefano, ma lei lo sente come un grido amplificato da casse invisibili.
“Non lo farò.”
“Ok.”
Per un attimo si chiede chi sia, il trentunenne che lavora alla radio e fa scatenare masse sconosciute al ritmo di dance anni ’90 ogni lunedì notte. Dj Stez, Stefano Mengacci, il fratello di Rebecca, un archeologo.
Non che le interessi, è solo curiosa. Una domanda che per una notte ronza nella sua testa abbastanza forte da cancellare il silenzio.

 

Quando Stefano la mattina dopo si sveglia, ancora sul divano, la stanza è illuminata da una tenue luce che proviene dalla finestra accanto a lui. Non c’è alcun rumore intorno, nessuna musica lontana e proveniente da cuffiette sconosciute, nessun dito che ticchetta sul duro bracciolo, nessun passo strascicato in altre stanze, ante chiuse con delicatezza.
Martina non è più in casa.
Stefano si alza indolenzito, accende la radio a un volume basso, perché svegliare Rebecca di domenica mattina gli avrebbe fatto guadagnare la sua furia perpetua.
Si prepara con un caffè, sbatte il mignolo del piede contro la gamba del tavolo in cucina, si affaccia alla finestra: il vicolo brulica di persone indaffarate e vestite di giacche primaverili colorate, i san pietrini stridono contro i tacchi delle donne e lui sente il rumore sin dal quarto piano, quando apre la finestra.
Chiude gli occhi e ascolta il silenzio interrotto dal vociare ritmico dei negozianti, costretti a lavorare pure di domenica mattina, a Trastevere, dal verso di un gabbiano che plana sopra il palazzo, dal motore di una macchina che arranca prima di partire.
Confusi, i suoni vagano nella sua testa e formano una melodia rassicurante.
Sa che la pace non può durare a lungo, tra poco dovrà andare in radio, parlare due ore e lasciare gli ascoltatori con successi più o meno recenti della musica internazionale e il tempo per pensare si annullerà.
Tenere fuori qualsiasi preoccupazione dalla cabina radio è un mantra, un obbligo a cui non può rinunciare per non cominciare a balbettare davanti al microfono.
Dj Stez non esita. Stefano lo fa ogni volta che si ritrova davanti gli occhi inscuriti di Martina, ogni ventiquattro del mese. Di solito esce di casa dopo un fugace saluto, pochi minuti dopo il suo arrivo. Abbastanza tempo comunque per notare che quei giorni sembra sempre più triste di quanto non sia quando la incontra per strada o alle sue serate il lunedì notte.
C’è ancora la custodia del film, sul tavolino di legno davanti al divano, il telecomando abbandonato sopra, dai tasti smangiucchiati e i numeri sbiaditi; il televisore è spento, ma non il decoder. Una tazza è abbandonata accanto all’elettrodomestico, il tè dentro ormai è freddo, il cucchiaino ci annega dentro e sembra abitare lì da tutta la vita, tanto quella scena gli sembra familiare. Un deja vù.
La tazza è bianca, c’è disegnato sopra un gatto siamese e nessuna traccia di rossetto. Il manico è scheggiato e lui ci passa il dito sopra e gratta via un po’ di pelle.
La radio gracchia, una donna all’esterno urla qualcosa contro il marito, alcuni passi risuonano per il corridoio.
“Almeno di domenica mattina, potresti evitare tutto questo macello.”
La sorella appare sulla porta, in un pigiama dai pantaloni larghi a righe e una canottiera verde, i capelli rossi schiacciati da una parte e gli occhi assonnati.
Stefano le sorride e le augura il buongiorno, prima di tornare alla finestra e chiuderla e posare le tazze nel lavello.
“Devo andare. Il caffè è pronto.”
La bacia su una guancia, la ascolta parlare, sente il suono del suo sorriso infrangersi contro le pareti dei suoi timpani. Sa che tornerà a casa, dopo pranzo, e ci sarà Rebecca che parlerà, che farà rumore, ciabatterà per l’appartamento, guarderà la tv, canterà.
Non vivrà nel silenzio.
Per un fugace attimo, prima di chiudersi nella cabina del dj, si chiede come fa Martina a vivere nel silenzio di una casa vuota.

○○○

Il sushi è difficile da digerire e il sakè ancora gorgoglia in un punto imprecisato tra il mio fegato e il mio stomaco. Forse a voi di questo non frega un cazzo, d’altronde come passa i propri sabati sera di ritorno dalle trasferte Dj Stez non è la curiosità principale di nessuno.
Oggi voglio parlarvi del perché sono qui, in radio, perché lavoro nell’ambito della musica, perché spesso mi sentite dire che la musica mi ha salvato. Non c’è niente di romantico in questa frase, non sono un fottuto eroe di romanzi rosa per ragazzine, e non c’è niente di poetico.
La musica mi ha salvato dai silenzi densi, da quelli che fanno paura, di quelli che a volte la notte mi tengono sveglio e mi costringono a tenere accesa la televisione al buio, con mia sorella incazzata nell’altra stanza che impreca contro il mio bisogno di rumore. Ieri notte, il silenzio è stato riempito da una melodia nuova, fatta di piccole cose, come il respiro regolare di mia sorella che dormiva sul divano mentre guardavo un film, il sospiro di una sua amica durante una scena particolarmente intensa, il tamburellare del mio piede sul parquet e di un dito sul bracciolo del divano.
È  una nuova sinfonia, la stessa che mi accoglie ogni giorno quando ritorno a casa e ogni notte, quando fatico ad addormentarmi. Non potrei vivere nella solitudine di un silenzio tanto fitto da parlare con la mia coscienza.
Quella canzone oggi vorrei farvela ascoltare qui, questa domenica mattina, ma ero troppo impegnato a godermi l’orgasmo di piccoli suoni per poterli registrare. Ho comunque qualcosa che fa per voi, se il silenzio vi spaventa, ma se a volte sentite il bisogno di rifugiarvi in qualche anfratto scuro e vuoto, circondati dal nulla, pur avendo paura di voi stessi.
Dj Stez vi aspetta domani notte al Brancaleone come ogni lunedì, per oggi è tutto da Radio Cacofonia.

# In the mood for love.

 

Le note di una persona triste.

*si schiarisce la voce con imbarazzo crescente*
 Vorrei raccontarvi la storia di una ragazza che prometteva di non scrivere altro finché non avesse finito Der Himmel; ella scrisse addirittura un post nel suo gruppo, chiedendo pazienza per il ritardo di Sequins e scusandosi per l'infinito procrastinare di tutto, dicendo anche però che doveva trovare il tempo di ragionare sull'ultimo capitolo dell'altra sua storia. Aveva anche smesso di scrivere una oneshot tanto inquietante. Venti minuti dopo, aprendo word, ha cominciato a scrivere questa cosa, sotto velate minacce di più di una persona.
La fanciulla vorrebbe dedicare questa storia - che sarà triste, sarà molto personale e sarà molto introspettiva, tanto che non sono sicura rimarrà a lungo nella sezione romantico - a chi appunto l'ha spronata a tirare fuori pezzi di sé dal frigorifero e scioglierli un po' in pillole in una storia ambientata nella sua città - i Granai sono un centro commerciale, il blockbuster credo lo abbiano chiuso da qualche anno ma esisteva, la Tosi era la mia scuola elementare e la maestra Adriana la mia prima maestra, a Trastevere i negozi sono aperti anche la domenica e anche di notte e il chiacchiericcio è la cosa più fastidiosa del mondo.
Da qui nasce Cacofonia. Frammenti, la storia di due ragazzi - ma non saranno solo due - che in modi diversi tentano di riempire di suoni e rumori un silenzio che li spaventa. Da qui anche l'idea della radio, in cui Stefano lavora, che sarà protagonista di ogni capitolo, con un discorso finale pronunciato dal ragazzo. Quelli che apriranno il capitolo invece saranno sempre ricordi di Martina con la sorella Giorgia.
La foto iniziale è un fotogramma del film In the mood for love di Kar-Wai Wong, protagonista del capitolo. Per capire cosa intendo con i silenzi di questo film, vi invito a guardarlo, ma se proprio non vi va qui potete leggere qualcosa a riguardo.
Voglio ringraziare veramente Giulia, da cui è partito tutto, Matisse, che nella depressione di tale capitolo mi ha fatto sentir male dal ridere, Agnes, perché asseconda ogni mia follia con amore ed Emily, per lo shopping terapeutico, i comitati pro-ormoni e le belle parole che ogni volta escono dalla sua penna.
Se vi andrà di seguirmi in questa follia, ne sarò felicissima; intanto, sperando di poterci risentire presto, vi saluto.
Elle. 

   
 
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