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Autore: _ivan    09/07/2012    13 recensioni
La piccola Amy è da sola a casa e aspetta il ritorno della madre, tuttavia...
Genere: Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I MILLE RISVEGLI DI AMY

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Quando Amy aprì gli occhi il Sole si stava già nascondendo dietro l’orizzonte frastagliato, tingendo il cielo di calde sfumature di rosa e arancio. Raggi color pesca riempivano la cameretta, fungendo da palco per i sottili pulviscoli dorati che si esibivano in danze magiche.
Amy si sentì stanca e confusa. Le sembrò di non essersi mai riposata così tanto in vita sua e allo stesso tempo così poco. Si stropicciò gli occhi con le dita paffute che hanno i bimbi ancora piccoli, quindi si concesse qualche attimo di silenzio per riprendersi e risanarsi. Si lasciò travolgere dal benessere, percependo il tepore delle lenzuola sotto la sua schiena fasciata da una piccola tunica di cotone bianco, senza maniche. Sul soffitto, proprio di fronte al suo sguardo impigrito, i coniglietti rosa e azzurri si rincorrevano dipinti nel loro mondo senza dimensioni. Erano lì da sempre, fin da quando possedeva memoria, tutti intenti a rincorrersi giocosi senza mai acciuffarsi.
Nella mente, occultato dalla fragilità della memoria, il ricordo di un sogno lontano le apparve fumoso, distorto. Amy nel sogno era stesa con il viso nell’erba, e un secondo prima era in macchina con la mamma. O forse era un secondo dopo, e invece che nell’erba era sdraiata sui fiori. Tutto ciò che non era fondamentale, ad ogni modo, fluttuava invece nell’ombra, senza forma né colore. Perfino il volto della mamma sembrava piatto, invisibile. Solo la sua presenza le premeva sulla mente, come un pensiero ridondante. “Che buon profumo, quei fiori”, pensò, e nel ricordo di quel sogno si alzò finalmente dal giaciglio nel quale era sprofondata fino ad allora.
I piedi scalzi toccarono il pavimento in legno. Amy sorrise per il calore del suo contatto, quindi si abbandonò all’abbraccio di tutte quelle sensazioni positive. Percorse con lo sguardo il lungo profilo di una mensola, dove una fila di modellini di dinosauri la fissava dall’alto: uno stegosauro, un velociraptor, un tirannosauro e anche specie più rare che non aveva mai visto sui libri di scuola. Manciate di soldatini erano invece accatastati in un angolo, in un’accozzaglia di verde scuro senza una forma: un groviglio di arti, di bombe e di minuscoli fucili. “Sono sempre stati lì” pensò convincendosi da sola, con la mente ancora intorpidita dal recente risveglio.
Amy sapeva bene che la mamma non c’era, che era al lavoro e che presto sarebbe tornata a casa. Era sempre così: la mamma la metteva a letto, le rimboccava le lenzuola, le faceva piccole carezze sul viso e poi la svegliava al suo ritorno, dopo aver insegnato a suonare il pianoforte ai bambini più grandi. Qualche volta aveva desiderato andare con lei per conoscere questi altri bimbi, ma dal momento che non le era permesso e che non aveva mai provato il desiderio di suonare il pianoforte, si limitava ogni volta a dormire e sognare, lasciando agli altri il piacere di quell’elegante suono.
Era sempre andata così. Sempre.
Nel fruscìo di cotone del suo vestitino leggero, Amy si incamminò verso il corridoio. Diede un’occhiata alle foto in fila lungo la parete e vi trovò la sua preferita, quella dove lei era così piccola da sembrare una nocciolina paffuta, e suo papà era ancora lì con loro con la sua brillante presenza che riempiva i cuori di tutti. Si mise in punta di piedi, guardò la foto per qualche istante e sorrise.
Amy corse al piano inferiore scendendo le scale con cautela. Lì giocò alla cercatrice di tesori rovistando nel cesto del bagno, quindi anche al gioco della lava. Saltellò sulle mattonelle prima con un piede e poi con due, cercando in tutti i modi di evitare alcuni punti che di volta in volta selezionava in base a come più le conveniva. Mossa da un’irrefrenabile curiosità e da un’implacabile voglia di vivere, Amy si esibì in una sfida continua contro sé stessa e le sue abilità. “Non puoi toccare la lava perché poi muori”, le avevano detto i compagni di scuola, eppure lei una volta l’aveva toccata e non era successo nulla e così si era sentita immortale per un lungo attimo, prima che tutto l’entusiasmo scemasse di fronte alla consapevolezza che il gioco – ahimè - era finito.
Quella volta Amy non toccò la lava neppure una volta.
Nel suo entusiasmante errare corse in cucina, quindi aprì tutti i cassetti e vi trovò un pacchetto di cracker dolci. Solo quando lo prese in mano, però, Amy si rese effettivamente conto che il senso della fame era già fuggito via, proprio come uno di quei coniglietti rosa e azzurri che la salutavano ad ogni risveglio.
Posò i cracker e, inquieta e con un’insaziabile voglia di fare, tornò al piano superiore. Sbirciò oltre la porta socchiusa della camera da letto della mamma e non ne varcò la soglia. Era fin troppo consapevole del fatto che una volta dentro non avrebbe più avuto le forze per resistere alla tentazione di vestirsi con gli abiti che la affascinavano tanto. Solo una volta le era capitato di vestirsi da mamma, ma fu rimproverata talmente tanto che ora, da brava bambina, si teneva alla larga dalla camera e da tutto ciò che quella conteneva.
Con risate argentine Amy tornò quindi nella sua camera. Era il momento di giocare all’ora del the e in un primo momento, quando al posto delle bambole trovò soldati e uomini mascherati accatastati, trasalì. Interruppe la sua corsa e si avvicinò a loro con cautela e timore reverenziale, come un animale selvatico che si approccia per la prima volta a un uomo. Sfiorò così col dito il volto duro di uno, accarezzò il mantello di un altro e il costume colorato di un altro ancora. Solo quando si rese conto che non erano troppo differenti dai bambolotti per le femmine riuscì ad abituarsi all’idea di dovervi giocare assieme.
“Forse le mie bambole erano solo un sogno”, si disse “e questi sono sempre stati i miei unici giochi”.
Amy cercò nei cassetti della memoria e per l’ennesima volta vi trovò niente più dei vividi ricordi precedenti al suo risveglio: loro due che andavano a Disneyland in macchina, quindi entrambe distese sull’erba, con la mamma che le sorrideva mentre la luce del Sole riempiva i loro occhi, prima di un forte giallo paglierino e poi di semplice e puro bianco.
Giocò un po’ con gli uomini di gomma facendoli saltellare sul pavimento e facendoli parlare tra loro con dialoghi artefatti. Amy non trovò particolari difficoltà a farci amicizia e anche loro stessi, per fortuna, sembravano essersi simpatici a vicenda. Avevano voci squillanti da signorine perché quelle erano le uniche che Amy fosse mai riuscita a dare ai suoi pupazzi.
La piccola decise su due piedi che quello con la maglietta azzurra e la grande “S” sul petto – che aveva scelto di chiamare signor Simon -, stava andando da quello tutto mascherato di rosso e blu per invitarlo a prendere il the insieme. Simon e il signore mascherato, così, si sarebbero apprestati a trascorrere un indimenticabile pomeriggio insieme.
Li fece parlare e bere per molto, moltissimo tempo, fino a quando non sentì dei rumori provenire dal piano inferiore. Fece cadere a terra i giocattoli e sobbalzò sorpresa, scoprendosi senza respiro. Lo sguardo saettò in direzione del letto nell’indecisione o meno di farsi trovare addormentata, seppure per finta, perchè non era mai successo che la mamma la trovasse in piedi, mai in tutta la loro vita.
L’urto della porta richiusa spinse Amy a scegliere, quindi tornò in piedi e corse fuori dalla sua stanzetta. I piedini scalzi quasi fluttuarono sul pavimento tiepido, mentre la tunica bianca da ospedale svolazzava in un fruscio di cotone flebile e leggero. Con una manina sul corrimano scese i gradini, veloce e agitata come un furetto.
Fu in quel momento, quando sollevò lo sguardo dalle scale e con i piedi ancora sul penultimo gradino, che Amy vide la mamma. La vide in compagnia di un bambino che non conosceva, più o meno della sua età e con corti capelli liscissimi, di un carico color nocciola. Erano luminosi all’inverosimile, a tal punto che Amy pensò somigliassero a quelli degli stessi bambolotti con i quali aveva giocato fino a poco fa.
Rimase in silenzio a osservarli curiosa, sorpresa e forse anche un po’ delusa dal fatto che la mamma non fosse tornata solo per lei, ma che piuttosto avesse scelto di condividere quel loro momento rituale con qualcun altro di inaspettato. E se fosse rimasta addormentata? Sarebbe venuta a risvegliarla?
«Hai visto che belli quelli neri?» disse il bambino, mentre con cura si tolse il cappottino azzurro e lo poggiò sulla sedia all’ingresso. Osservava dal basso la mamma, la sua mamma, quella di Amy, che col viso segnato dalla stanchezza forzò un piccolo sorriso buono e gli arruffò i capelli con una mano, silenziosa.
«Adesso fila a lavarti le mani, Sammy» rispose lei, senza mai degnare neppure di uno sguardo la piccola Amy che, dal canto suo, assisteva da spettatrice inerme su quel secondo gradino. Sulle spalle si sentì il peso del silenzio e della solitudine.
Guardando sua mamma la percepì distante e al contempo immensamente vicina. Sentì il cuore riempirsi della sua presenza e tornare ad una nuova vita per merito di quell’imprinting inconscio che da sempre aveva legato le loro esistenze in maniera indissolubile. Amy si rese conto che, se esisteva, era solo grazie a lei. Per lei.
Eppure la vide diversa, stanca. La vide invecchiata.
Amy si scansò timidamente quando il piccolo Sammy le passò accanto facendo finta di nulla, come se non esistesse. Osservò prima il suo viso pulito, quindi i suoi movimenti goffi ed infine la sua schiena mentre se la lasciava alle spalle.
La donna nel mentre, con l’apprensione e l’affetto che solo le mamme sono in grado di avere, mosse appena un passo e si avvicinò con sguardo triste ad una piccola cornice vicino all’ingresso. Amy la vide mentre ne accarezzò il vetro con il dorso della mano.
Si ricordava bene di quella foto, dove c’era la loro famiglia al completo, quando c’erano ancora i nonni e Amy – così le avevano detto – era talmente piccola da non fare altro che dormire e mangiare.
«Ciao mamma» azzardò la piccola scendendo gli ultimi due gradini «mi sono svegliata prima ma ho giocato e ho fatto la brava, non sono entrata nella tua camera. Chi è quel bambino?»
Si aspettò una risposta.
In un turbinìo di emozioni fredde e dai colori dell’inverno, però, la mamma di Amy sospirò e si incamminò verso il soggiorno.
Nel suo petto la piccola sentì un forte strappo, come le pagine di un libro che vengono lacerate a gruppi di tre. Si sentì solcare il viso dalle lacrime eppure, quando vi avvicinò la mano, non si rese conto di avere la pelle ancora perfettamente asciutta.
«Mamma!» disse più forte, seguendola verso il soggiorno e sgomitando nella calca della sua innocente frustrazione. Si stava agitando e il magone le bloccò la gola smorzandole il respiro. Le sue viscere, invece, si contorsero in macabre danze nauseandola.
La testa girava forte come una giostra.
Amy alzò sempre più la sua voce nella speranza di essere udita.
«Non essere arrabbiata, mamma!» disse «Non lo farò più. Non lo farò più! Resterò addormentata e tu mi sveglierai, non mi sveglierò più da sola, lo giuro!»
Quello era l’unico motivo che potesse risultare plausibile. Avevano fatto un patto silenzioso scandito dall’abitudine e lei lo aveva tradito. Aveva profanato una ritualità intima e per questo la mamma non la perdonava più. Lei stessa, dal canto suo, non sarebbe mai riuscita a perdonarsi.
Sapeva che Sammy era lì per sostituirla: la mamma aveva capito che lei era una bambina cattiva e voleva cambiare figlio, e ora la stava cancellando dalla sua vita smettendo di rivolgerle la parola.
Mentre la donna prese posto sul sofà al centro della stanza, Amy singhiozzò di disperata follia di fronte alla crudeltà dell’abbandono. Si sentì morire mille volte, travolta da delle paure che una bambina non dovrebbe mai sostenere.
«Non lo farò più» disse tra lacrime invisibili «non lo farò più, non lo farò più. Tieni me, ti prego!»
E così Amy corse verso la mamma per gettarsi tra le sue braccia, perchè l’avrebbe costretta a guardarla, l’avrebbe costretta a coccolarla e a farla sentire di nuovo importante. E la mamma le avrebbe spiegato che non la stava ascoltando solo perché era stanca e non perché era arrabbiata, e che lei era e sempre sarebbe stata la sua unica principessa bellissima, che il bambino se lo era immaginato, che non c’era nessun Sammy perché la sua unica bambina era lei, Amy, l’unica che avesse mai desiderato in tutta una vita.
E quando la toccò, quando la manina paffuta attraversò il braccio della mamma ed il corpo attraversò il suo, quando tornò con un passo indietro sconvolta, terrorizzata, impaurita e senza respiro, guardò il suo volto ignaro e finalmente capì.
Il ricordo giunse come uno schiaffo fortissimo, facendole bruciare il viso ed il cuore. Ricordò del viaggio in macchina verso Disneyland che non era un sogno, ma la realtà. Ricordò di essersi ritrovata dopo poco col viso nell’erba, e di averne sentito la carezza fresca sul viso. Ricordò anche il fuoco che aveva dentro e che rapidamente l’aveva spenta, divorata, portandola prima alla stanchezza, poi all’assopimento ed infine alla non-vita. Ricordò di essersi sentita improvvisamente leggera, come una nuvola, di essersi vista dall’alto e di aver osservato la mamma mentre la abbracciava, tra singulti di dolore e urla disperate. E lei galleggiava lì accanto, in un mondo fumoso di candida nebbia e luce, e vedeva e sentiva ogni cosa, ma al prezzo di non poter mai intervenire in nulla. Da lì osservava affascinata i movimenti del mondo da lontano, a volte più lenti e a volte più rapidi, come gli imprevedibili spostamenti di un aquilone, in alto nel cielo.
Era questa la sua maledizione, quella che non aveva mai chiesto: sopravvivere senza mai vivere veramente, condannata a sparire e riapparire a intermittenza e nell’ignoranza, ogni volta ignara, ogni volta immersa nei sogni e nei pallidi ricordi, per poi morire nuovamente nella rinnovata consapevolezza.
Tutto ciò avrebbe mai avuto una fine?
«Dimenticami» disse afflitta, più forte di ogni bimbo, resa matura dalla morte e dalle altre mille morti e mille rinascite. Si sentì improvvisamente stanca, esausta. Voleva essere libera.
«Ascoltami.» disse.
«Ascoltami.»
«Ascoltami!»
E così da qualche parte, in una stanza della casa, un vaso si mosse da solo,e il rumore dei cocci fu l’ultima cosa che Amy riuscì a sentire, prima di sparire ancora una volta nelle nebbie dell’aldilà.






_ se - come me - sei a favore della libera interpretazione..allora non leggere le righe che seguono. se invece vuoi qualche chiarimento prosegui pure:
; amy è un fantasma, e su questo non ci piove. la sua condanna è di risvegliarsi ogni giorno nell'ignoranza e di sparire dopo la sofferenza dovuta alla consapevolezza di ciò che è successo
; amy vive in questo limbo da anni, e nel frattempo la madre si è rifatta una vita ( ha un compagno con un figlio ), ecco perchè la vede invecchiata e il perchè del piccolo sammy
; l'incidente in macchina è chiaramente la causa della sua morte. la tunica bianca che indossa al suo risveglio non è un pigiama, ma la tunica dell'ospedale
; i giocattoli non sono i suoi ma quelli del piccolo sammy. la confusione ( e i ricordi dei precedenti risvegli ) la portano a pensare però che siano sempre stati suoi
; quella a cui si accenna nell'ultima riga è la nascita di un fenomeno poltergeist dovuta all'inquietudine della bambina
; perchè non attraversa gli oggetti ma attraversa la madre? ho voluto 'generare' un fantasma in grado di spostare gli oggetti ma di non poter entrare in contatto con gli umani
   
 
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