Desclaimer: tutti i personaggi
(a parte alcuni di contorno) sono stati creati da sir Doyle
e successivamente presi in custodia dal duo Mofftis –
slasher in incognito. Io non possiedo nessuno di loro
ma mi diverto un mondo a rovinare le loro esistenze, perché ho il fetish dell’angst.
Ah, e scrivo gratis. Già.
C’è crisi per tutti (?!).
Note: seconda
parte di “Hush. Whisper low.”
per chi la conosce. Per chi non la conosce, si legge anche senza aver letto la
prima (più o meno). C’è un personaggio originale ma è solo un gran contorno,
compare solo in una scena ;D
Il resto delle note, per
chi desidera, è a fondo pagina.
Ah, e segnalo Sherlock OOC
(a mio parere, per lo meno). Credo sia impossibile, per me, scrivere una cosa
così lunga senza mai uscire di personaggio. L’omino è difficile da mantenere 8D
A chi volesse leggere, in
ogni caso, buona lettura ♥
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Awake
me not.
L’Evening Standard gli aveva dedicato l’articolo
di spalla in prima pagina, con una copiosa e alquanto asettica continuazione a
pagina 13.
Il
Ritorno di Sherlock Holmes
provata
l’innocenza del detective privato
Il
Sun gli
aveva dedicato sempre l’articolo di spalla ma, in compenso, anche tutta la
decima pagina.
Moriarty
Esisteva Davvero
scagionato
l’eroe di Reichenbach: Sherlock Holmes di nuovo tra
noi
Il
Daily Express gli aveva dedicato direttamente
l’articolo di testa, compresa una buona metà della seconda pagina.
Il
Detective che è Sopravvissuto
finge
il suicidio per portare a termine il caso: il grande ritorno
Così
come fece il Daily Mirror, che
non voleva essere da meno.
La
Caduta di Reichenbach
un
caso lungo tre anni
Il
Guardian
gli dedicò il taglio medio, continuando con un articolo a pagina 3.
L’Avventura
della Tomba Vuota
fenomeno
del web scagionato da tutte le accuse: non ha mai mentito
Tutti
articoli molto belli. Abbastanza toccanti. Sufficientemente veritieri. Per
nulla precisi.
Tuttavia,
i giornali su cui erano comparsi erano stati letti il giorno prima e buttati il
giorno dopo.
Tranne
la prima pagina, e l’editoriale di pagina due e tre, del Daily Star.
Paradossalmente,
uno dei quotidiani che aveva contribuito a fare di lui un impostore aveva
scritto ciò che nessun altro giornale, talk show o mass media era stato in
grado di esprimere... o anche solo di ricordare.
Io Credo
in Sherlock Holmes
“Era
il mio migliore amico e crederò sempre in lui.” Dr Watson, ha vinto la sua
battaglia
Le
uniche che aveva conservato.
Fra
le sue mani, un fascicolo di cartoncino color giallo spento.
Filigrana
grossa, plastificato. Intestato – in alto, la dicitura “Fulbourn
Mental Hospital”.
Voluminoso.
Al centro della copertina, dove un quadretto di righe prestampate indicava lo
spazio su cui scrivere, a macchina era stato battuto “Paziente 0274/13 –
Watson, John H”.
In
basso a destra, la dicitura “Dott. Carlton F. Harris” con la relativa firma.
Era
in piedi sulla porta del 221B e guardava il salotto, illuminato solo dalla luce
proveniente da Baker Street.
Prima:
ore di lacrime, abbracci, frasi sconnesse. Mrs. Hudson, Lestrade, Molly. Cambiati
ma sempre uguali (qualche ruga in più, i capelli un po’ più lunghi, una
tonalità più chiara di grigio). Tutti felici per lui. Tutti preoccupati, per
lui.
Era
bravo a leggere le persone, Sherlock Holmes. Lo era sempre stato. Riconoscere
un sentimento era semplice, provarlo
era una cosa completamente diversa. Non era un automa, sapeva cosa voleva dire.
Semplicemente non lo apprezzava.
Lestrade.
Imbarazzo (“è partito tutto da qui, scusa...”), gratitudine (“grazie per avermi
salvato, Mycroft mi ha spiegato”), contentezza (“sono
felice che tu sia vivo”).
Mrs.
Hudson. Incredulità (“oh mio Dio! Caro ragazzo, Sherlock, caro!”), felicità (“sei
vivo!”), gratitudine (“grazie Sherlock, grazie... ma sei uno sconsiderato!”).
Molly.
Sollievo (“non so se ce l’avrei fatta a continuare così...”), allegria (“sono
felice che tu stia bene”), semplicità (“ti... ti va un caffè?”).
Bugiardi.
C’erano
parole non dette, sentimenti non mostrati. Negli angoli delle labbra che faticavano
a sollevarsi, nello sguardo che aveva fretta di posarsi altrove, nel breve
tempo in cui il sorriso rimaneva sulla bocca, in tutta l’atmosfera che li
circondava: quella della gente che sa ma che non vuole infierire (ferire).
Sensi
di colpa.
L’appartamento
rifletteva precisamente lo stato d’animo in cui si trovava.
Desolato.
Lenzuola bianche coprivano i mobili, un dito di polvere sul pavimento. La
signora Hudson non aveva pulito nonostante fosse sfitto (forse perché Mycroft le aveva pagato l’affitto. Oppure, più
semplicemente – John l’avrebbe detto in questi termini, lo sapeva – anche la
signora Hudson aveva difficoltà a mettere piede in quel luogo).
Tracce
di passi, non recenti ma nemmeno risalenti a tre anni prima. Oggetti spostati e
poi rimessi a posto.
Libri.
Lo scatolone sul tavolo della cucina (dentro: il suo microscopio, i suoi beker, le provette). Il teschio sul caminetto. Alcuni
fascicoli dei casi risolti e alcuni raccoglitori con le sue ricerche.
Non
il violino. Giaceva chiuso nella custodia appoggiata sul letto in camera sua
(intatta; nessun lenzuolo a coprirne i mobili, nessuna fotografia spostata,
nessun abito estratto dai cassetti. Nessuna grinza sul copriletto – nessuno vi
si era steso, o seduto, o lo aveva toccato con mano. Perché?).
John. Tutto di quelle
lievi incongruenze urlava il nome “John”.
John.
John
che non era lì. John, il cui volto non aveva potuto vedere.
Si
sarebbe arrabbiato? Lo avrebbe odiato? Aveva passato mesi a pianificare quel
momento, l’attimo in cui si sarebbero rivisti (non insieme agli altri, no.
Sarebbe stato per ultimo, o forse per primo, ma da soli, sempre solo lui e
John, John e lui. Se lo meritava, forse, di saperlo per primo, di saperlo per
ultimo, di saperlo in privato. Forse glielo doveva, forse). Aveva passato mesi pensando – nei momenti liberi, nei
momenti di noia, di solitudine – cosa dire. A quale fosse il modo migliore. A
quanto male avrebbero fatto i suoi pugni, o bene il suo abbraccio, o pietà le
sue lacrime.
Una
scena che bramava, nonostante tutto. E gli era stata tolta.
Mycroft gli aveva mentito. Gli aveva detto che
andava tutto bene, che John stava bene, che andava da Ella e che era
perfettamente in grado di prendersi cura di se stesso. Che era andato oltre.
Che sorrideva, e scherzava, e andava al lavoro, e si rifaceva una vita.
Mycroft gli aveva mentito. Per mesi. Poi gli
aveva fatto il favore di dirgli che aveva mentito.
E
gli aveva dato quel fascicolo in cartoncino giallo.
Paziente 0274/13 –
Watson, John H. Fulbourn Mental
Hospital. Dr. Carlton F. Harris.
Fu
al vecchio tavolo fra le due finestre in qualche passo e, sollevando il
lenzuolo con la mano libera, estrasse la sedia da sotto di esso. Una vaporosa
nube di polvere si alzò, pungendogli il naso, ma Sherlock la ignorò.
Trascinò
rumorosamente la sedia fino alla finestra, sedendovisi. La luce che filtrava
dai vetri era sufficiente e lui voleva evitare di accendere quella elettrica.
Ancora non ci teneva, a vedere bene le condizioni d’abbandono di Baker Street,
luogo in cui nessuno entrava da mesi e mesi (e che aveva sperato essere, se non
pieno di vita, almeno pieno di John).
Usando
una delle sue gambe come supporto, aprì il fascicolo.
I
documenti non erano tanti, ma erano fitti di lettere e parole. Scrittura a
computer, ma per lo più a mano. Analisi del sangue, elettroencefalogrammi, test
su test con domande inutili, relazioni, fotocopie di appunti e pagine di block
notes. Giudizi. A volte intere frasi, a volte una sola parola.
“Ha assistito al
suicidio del proprio migliore amico”.
“Alterata
elaborazione del lutto”.
“Crisi allucinatorie”.
“Nessuna
alterazione visibile dello stato emotivo”.
“Stress
post-traumatico? Nevrosi? Mancano sintomi di entrambe”.
“Riesce a fare un
distinguo fra realtà ed allucinazione”.
“Entra
ed esce dagli stati allucinatori a proprio piacimento”.
“Rifiuta
il trattamento con gli anti-depressivi. Siamo passati all’assunzione tramite
cibo ma non si denotano miglioramenti efficaci della sua condizione”.
“Capacità
di sintassi intatta, oggettività e soggettività intatte, sistemi percettivi
degli eventi intatti, elaborazione della realtà intatta”.
“Non so più cosa
pensare... John entra ed esce dalle sue allucinazioni come se entrasse ed
uscisse da una stanza. Distingue efficacemente i deliri fantastici dalla realtà
oggettiva ma non ha intenzione di guarire. Non ci permette di aiutarlo”.
“John
riferisce di uno schema logico tramite il quale riuscirebbe a riconoscere lo
stato di allucinazione”.
“«Mi parla sempre di
cose che già so o che posso facilmente immaginare.»”
“Probabile
interruzione dell’elaborazione del lutto in una delle ultime fasi”.
“Il paziente si
presenta in corretta forma fisica, ma con una palese mancanza di sonno.
Occhiaie. Ragionamenti lenti”.
“Le
analisi confermano l’assenza di uso di droghe o altre sostanze psicotrope. La
crisi allucinatoria è quindi da definirsi patologica”.
“Rifiuta
di nuovo le cure, anche con medicinali più blandi”.
“Non
collaborativo”.
“Riferisce di aver
parlato, nelle sue allucinazioni, con persone sia decedute che ancora in vita. Mycroft Holmes (in vita), James Moriarty
(deceduto. Vedi: Scandalo Holmes/Richard Brook),
l’Ispettore Gregory Lestrade di Scotland Yard (in vita). Il più delle volte, ed
in esclusiva da quando è stato ricoverato, con Sherlock Holmes (deceduto)
(in vita – John non ne è al corrente)”.
“Rifiuta
di nuovo ogni trattamento”.
“Oggi
abbiamo parlato di violini. Dice di sentirne la mancanza”.
Richiuse
di scatto il fascicolo.
C’erano
pagine e pagine che raccontavano la vita di John. Sherlock non riusciva a non
pensare che avrebbe dovuto sentire quella storia dalla voce stessa del suo
coinquilino, e non leggerla spezzettata in frasi auliche che narravano una
favola che aveva perduto il proprio lieto fine.
I
tre anni d’assenza giacevano nella sua mente sottoforma di sporadiche
conversazioni al telefono con Mycroft, in testi di
mail mandati da decine di indirizzi diversi, in centinaia di messaggi inviati
ad un numero sicuro e sempre diverso. Gli anni di John gli erano stati
raccontati con parole d’altri attraverso occhi d’altri, e quando finalmente
aveva progettato di poterli chiedere direttamente a lui, la sua voce e la sua
storia erano le cose più irraggiungibili che potesse sfiorare.
Di
tutti i possibili finali, questo era il peggiore.
Con
un sospiro interrotto raggiunse il cellulare, estraendolo dalla tasca e cercando
il numero di Lestrade. Erano le tre del mattino ma era consapevole che l’altro
non dormiva.
“Domani. – SH”
Lineare,
essenziale. Lui avrebbe capito.
Infatti
la risposta non tardò ad arrivare.
“Passo alle 8.”
È
facile andare avanti. Come camminare. Un piede avanti all’altro ed il gioco è
fatto.
Sherlock
Holmes aveva dovuto nascondersi per tre anni, e per tre anni non aveva fatto
altro che camminare. Non aveva fatto altro che andare avanti guardandosi
indietro.
Controllando.
Sorvegliando. Proteggendo. Tutto dalla distanza. Tutto in solitudine. Tutto dal
silenzio.
Sperando
(una smorfia nel farlo, nel rendersi conto di farlo). Desiderando il ritorno
promessogli.
Andare
avanti è una bazzecola. Il difficile viene dopo.
Difficile
è guardarsi indietro e dirsi che va tutto bene. Dirsi che non avrebbe potuto
fare niente, se ci fosse stato. Dirsi che non era colpa sua, se John aveva
mollato. Dirsi che non sarebbe potuta andare diversamente.
Ma
quello no, Sherlock non riusciva a farlo.
Non
aveva il vizio di mentire a se stesso.
Cittadina
di Fulbourn, Cambridgeshire.
Agglomerato
urbano composto da casette a schiena con vialetto e giardino –
obbligatoriamente rigoglioso.
Case
ridipinte saltuariamente. Aiuole curate. Alberi potati simmetricamente. Strade
pulite in città, campi coltivati fuori città.
Campagna,
natura, tranquillità. Quiete. Quasi un’oasi di perfezione immersa in
un’atmosfera da film americano.
Cittadina
di Fulbourn, Cambridgeshire.
Un’ora e mezza da Londra (in auto).
Lestrade
alla guida. Indossa un paio di pantaloni neri ed una camicia a righe sormontata
dal solito impermeabile nero. Sbarbato, capelli tagliati dal barbiere. Il colletto
della camicia è stirato bene ma piegato male. Il bottone del polsino destro sta
per staccarsi. Ha fatto colazione con caffè e cornetto (macchiolina non notata
accanto al primo bottone, alcune briciole rimaste attaccate ai pantaloni).
Divorziato ma non single. Ombre nere intorno agli occhi (non ha dormito. A
causa del suo ritorno? Quasi sicuramente).
Nel
sedile del passeggero, suo fratello Mycroft. Camicia
bianca perfetta, cravatta perfetta, completo perfetto, scarpe perfette.
Pettinatura perfetta. Espressione posata (perfetta). Conservato in un vaso
sotto formalina per estrarlo, tre anni dopo, esattamente identico a tre anni prima.
Sul
sedile posteriore, con lui e alla sua sinistra, la signora Hudson. Un vestito
grigio fumo, collant color carne, scarpe basse. Un girocollo di perle con
relativi orecchini. Un cameo in avorio con una perla al centro che teneva
chiuso il colletto dell’abito. Messa in piega ai capelli. Alcuni un po’ più
grigi di come se li ricordava.
Guardava
fuori, l’espressione triste. A volte guardava lui e gli sorrideva. Un sorriso
malinconico.
Sherlock
si sentiva chiudere lo stomaco ma non distoglieva lo sguardo. Però non
rispondeva al sorriso.
Non
sapeva come sentirsi, né cosa provare. Così lasciava i sentimenti a macerare dentro
di sé, sperando che decadessero, come gli atomi radioattivi, in elementi più
stabili e meno pericolosi. Non era mai stato bravo a capire se stesso.
C’era
sempre stato John per quello.
« Sono bravi? ».
Fu
lui stesso a spezzare il silenzio che regnava totale in quell’automobile. La
sua voce fece sobbalzare mrs. Hudson, che però gli
rivolse un altro timido sorriso.
A
dare risposta alla sua domanda, l’unico che l’aveva colta al volo. « I migliori » rispose Mycroft « ovviamente ».
Sherlock
aggrottò le sopracciglia in uno sguardo tagliente. « Sì, ovviamente » sottolineò nel
ripetere.
Mycroft se ne accorse, naturalmente. Così come
gli altri due occupanti dell’auto.
« Sherlock... non è
stata colpa di nessuno » provò a dire
Lestrade, ma il detective sbuffò una risata mesta.
« Oh, non funziona
così, Ispettore » intervenne Mycroft, la voce calma e modulata (perfetta): « cerca qualcuno da
incolpare, perché incolpare se stesso non è nemmeno un’opzione. E, come ha
sempre fatto da quando aveva meno di dieci anni, trova in me il capro espiatorio
perfetto » spiegò.
Sherlock
sentì una ruggine vecchia come gli anni che si portava addosso ricominciare ad
ossidare gli ingranaggi del suo essere, a farli cigolare. Flashback della sua infanzia
passata con un fratello maggiore che doveva essere il suo Dio, ma che non lo
era mai stato abbastanza e abbastanza a lungo.
Digrignò
i denti, sotto le labbra serrate, prima di soffiare: « mi hai mentito...
» minaccia velata
per specificare di cosa esattamente lo stava incolpando.
Ognuno
portava un po’ di colpa sulle spalle. Anche lui aveva le sue, di colpe; le
aveva riconosciute non appena aveva saputo.
Aveva stretto loro la mano e aveva mostrato loro il collo. Loro – le colpe – lo
avevano morso e dissanguato ed erano rimaste lì, sanguisughe, in attesa del
giorno – lontano – in cui si sarebbe stancato, o lo avrebbero ucciso.
Si
chiese quali fossero le colpe di mrs. Hudson. Si
chiese quali fossero quelle di Lestrade.
« Ho dovuto » si giustificò Mycroft: « saresti tornato, e non potevi permettertelo. Non sei
stato il solo a rischiare e lo sai bene » disse.
« Oh, e tu sei un
esperto nel giudicare i rischi che corrono gli altri » ribatté il più
piccolo degli Holmes, piccato e pungente di un’ironia sporca.
« Sì, lo sono da
quando sei nato » rispose però il
maggiore.
Sherlock
prese fiato per parlare, ma non fece in tempo: la voce di Lestrade lo fermò.
« Ora basta! » esclamò, gli
occhi fissi sulla strada davanti a sé ma palesemente infastiditi e lucidi,
quasi... sull’orlo del pianto? Non lo avrebbe mai detto, tre anni prima, ma
dopotutto tre anni possono cambiare tutto come niente.
« Controllatevi.
Entrambi » li riprese, non
lasciando loro il tempo di continuare a battibeccare o di riprendere il
discorso da dove lo avevano lasciato, ignorandolo, come entrambi avevano piena
intenzione di fare: « qui non si tratta
di menzogne, di ritorni o di chissà cos’altro. Qui si tratta di John. Lui è
l’unica vittima di tutto questo casino, lui è l’unico che è stato lasciato
indietro. Anche se non vi interessa almeno portate un po’ di rispetto e tacete » si sfogò,
arrabbiato, una furia intrappolata sotto anni di disciplina professionale.
Ah,
eccola. La colpa di Lestrade. Ora Sherlock poteva vederla, riflessa negli occhi
pieni di lacrime di mrs. Hudson. Era anche la sua, di
colpa. Lei e Lestrade ne condividevano il peso.
Le
persone più vicine a John che non se ne erano mai accorte. Che non avevano
colto i segnali, o che semplicemente erano state invitate a non farlo (John era
forte, era orgoglioso, faticava ad accettare l’aiuto altrui se non era lui il
primo a chiederlo; sicuramente, e Sherlock lo sapeva, non aveva dato loro la
possibilità di avvicinarsi abbastanza al suo problema, alla sua solitudine).
Così, quando John aveva urlato aiuto, loro non lo avevano sentito.
Ma
a Sherlock non interessava quale forma avesse il loro senso di colpa, o se ne
esistesse uno in Mycroft. C’era una cosa che Lestrade
non poteva permettersi di dire.
« Non osare dire di
nuovo che non mi importa » disse Sherlock –
un sibilo profondo – prima di rinchiudersi in un mutismo contemplativo, gli
occhi puntati fuori dal finestrino.
Importarsene non è
un vantaggio, Sherlock.(3)
« Scusa... » sussurrò Lestrade
nel rinnovato silenzio.
Struttura
in mattoni, tetto spiovente con vecchie tegole marrone scuro, ingresso plateale
e di cattivo gusto. Ad occhio e croce, quattro ali (punti cardinali). Ad ogni
ala un reparto. Il piano terra dell’edificio centrale per l’accettazione, lo
smistamento e la segreteria.
Avevano
preso il corridoio a destra e poi l’ascensore. Ala est. L’infermiera alla
reception aveva salutato Lestrade e mrs. Hudson per
nome. Venivano spesso. Aveva guardato Mycroft come se
lo avesse visto altre volte, ma aveva usato molta più cortesia. Veniva anche Mycroft? A trovare John? Probabilmente sì. Probabilmente
conosceva lo staff e lo staff conosceva lui (di vista, per sentito dire).
Probabilmente quel posto era sotto il controllo remoto di Mycroft,
se riusciva ad avere gli appunti personali del terapeuta di John.
Nulla
di così sorprendente, per il Governo Britannico. Il fatto che se ne stesse
importando, quella era la cosa
sorprendente.
L’ascensore
si fermò al secondo piano.
Corridoi
bianchi, luminosi, sterili. Odore di disinfettante nell’aria. Linoleum verde
chiaro sul pavimento a coprire l’originale pavimentazione a piastrelle sottili.
Nessuna sedia, nessuna panchina, solo stanze. Porte a destra e a sinistra, con
numeri e una finestrella di osservazione esattamente ad altezza degli occhi.
Maniglie ma non serrature. Chiavistelli in acciaio manovrabili solo
dall’esterno.
Controllo
di ogni libertà, privazione, accordo non scritto (minaccia): “qualsiasi segnale
di instabilità e vi chiudiamo dentro le vostre camere (celle?) finché non
arriverà il dottore o tornerete voi stessi da soli”.
Un
inizio di nausea colpì Sherlock, che sospirò profondamente nel tentativo di
farlo passare. Al suo fianco, Mycroft gli lanciò una
breve occhiata.
“Lo
so” sembrava che gli dicesse. Sherlock lo fulminò in un istante, azzurro
ghiaccio in grigio tempesta.
Alcuni
rumori provenivano da oltre la porta in vetro smerigliato alla fine del
corridoio; la voce di una televisione, o di una radio (no, era più probabile un
televisore, considerato il rimbombo), parole, alcune risate, il rimbalzare
continuo di qualcosa contro il muro.
Una
sala ricreazione? Un luogo di ritrovo? Cos’altro? Filtrava più luce. Finestre?
Sì, probabile.
Era
tutto lì? Si riduceva tutta lì, la sua vita, la vita di John, ora? Un
corridoio, una stanza con un letto ed una sala comune condivisa con chissà
quali individui?
Sentì
ancora quel senso di nausea ma questa volta trattenne il respiro, socchiudendo
gli occhi.
Poteva
quasi immaginarsi ogni secondo di quella nuova vita. Sveglia, colazione,
medicinali. Mattinata passata in sala ricreazione o all’aperto, oppure in
terapia, oppure in seduta privata con lo psichiatra assegnato. Pranzo,
medicinali (quelli non ricevuti a colazione). Pomeriggio libero, o in terapia
di gruppo, o in seduta privata con lo psichiatra assegnato (dipendeva da
cos’avesse fatto al mattino). Cena, medicinali. Tutti nelle stanze: coprifuoco.
Dormire.
All’infinito.
Deglutì
attirando, questa volta, anche l’attenzione di Lestrade. Restituì lo sguardo.
Lestrade
non era stupido. Tutt’altro, era solo lento, più lento di lui. Ma Gregory aveva
avuto sette mesi per abituarsi a quella vista, Sherlock solo dieci minuti.
Lestrade aveva capito tutto la prima volta che era venuto in quel posto – aveva
accompagnato lui John ed Harry? Non lo sapeva, non aveva chiesto; doveva
chiedere? – e vedeva, nel silenzio in cui si stavano guardando, che anche lui
aveva capito.
Ovviamente,
Sherlock aveva capito.
Lestrade
gli sorrise in un ghigno. « Non sono molte le persone che vengono qui, nonostante
l’elevato numero di pazienti » cominciò a spiegare, mettendo palesemente mrs. Hudson a disagio ma continuando in ogni caso, a bassa
voce: « si capisce presto
il perché... non è vero? » domandò,
lanciandogli una nuova occhiata.
Sì.
Sì.
Pietà.
Appiccicosa, viscosa pietà. La consapevolezza che una volta dentro non si esce
più.
John, cosa ci fai
qui?
Alcuni
passi interruppero il loro silenzioso scambio d’opinioni, attirando
l’attenzione di tutti e quattro i visitatori.
Dalla
porta a vetri ora socchiusa era appena entrato un medico, il camice bianco
svolazzante ad ogni falcata veloce che lo separava da loro, fermi in attesa
appena fuori dalle porte dell’ascensore.
A
quanto pareva, era la prassi. Loro attendevano lì e qualcuno del personale
veniva loro incontro.
Solo,
immaginava Sherlock, di solito dovevano essere gli infermieri, di certo non i
medici.
Ne
aveva intuito il nome ancora prima che si presentasse (solo a lui; suo
fratello, Lestrade e mrs. Hudson molto probabilmente
lo conoscevano già).
« Signor Sherlock
Holmes... » introdusse sé
stesso, allungando la mano in sua direzione: « sono il dottor Carlton Harris. Ho
in cura il dottor Watson » si presentò.
“Dottor
Watson”. Cognome e grado medico, che sicuramente non aveva più, considerata la
situazione ed il luogo in cui era rinchiuso. Dubitava fortemente che la
commissione medica fosse felice di tenere il nome una persona affetta da un
qualche tipo indefinito di malattia mentale scritto in bella grafia all’Albo
dei Medici.
Particolare,
comunque, la scelta. Nei suoi appunti lo chiamava per nome. Probabilmente
tutti, in quell’edificio, lo chiamavano per nome (non era una sua prerogativa,
non lo era mai stata, ma lì era diverso: in luoghi come quello il nome era una
targhetta, un’etichetta, un’intercalare, il sinonimo di un punto esclamativo
per far sentire il paziente a casa, erroneamente, facendolo sentire
probabilmente solo più vulnerabile, sceso d’un gradino nella piramide sociale).
Istintivamente,
Sherlock rispose alla stretta, ma non parlò. Dopo qualche istante di silenzio –
imbarazzato – il dottor Harris riprese parola, rivolgendosi a Lestrade e mrs. Hudson: « oggi è rimasto dentro, fa ancora un po’
troppo fresco per uscire nel parco. È in sala comune, potete andare a fargli
visita » spiegò
sorridendo, indicando con un cenno del capo la porta a vetri: « io desidererei
parlare con il signor Holmes, prima » aggiunse poi, guardandolo (per
distinguerlo dall’altro signor Holmes, suo fratello maggiore, che seguì
Lestrade e mrs. Hudson verso la porta a vetri).
Dietro
quella porta c’era John.
Cosa ci fai qui,
John?
Chiuse
gli occhi per un istante, prima di incatenarli a quelli verdi di Harris, che si
sentì autorizzato a parlare.
« Suo fratello mi
ha già spiegato le condizioni di ciò che è accaduto » iniziò, indeciso
(come poteva essere uno psichiatra con quel carattere dubbioso? Con quella sua
mania di abbassare lo sguardo ad intervalli regolari? Con la facilità con cui
era messo in soggezione da uno sguardo fermo? Così empatico, così debole? Sono le tue le mani che dovrebbero aiutare
John? Ma guardati!): « perciò non le
chiederò nulla. Sono... beh, felice che sia ancora vivo » disse.
Frase
di circostanza. Ma Sherlock decise di assecondare il proprio fastidio interiore
(prima che esplodesse, manifestandosi in altro modo).
« Perché? » domandò.
Harris
ne sembrò sorpreso. « Come, prego? ».
« Perché ne è
felice? » specificò
Sherlock.
Lo
lasciò senza parole, e il detective lo notò. Ovviamente lo notò.
« Beh... suppongo
che sia sempre meglio che essere morti » rispose lo psichiatra, uno sopracciglio
lievemente piegato.
Sherlock
sogghignò: « dipende dai punti
di vista » rispose, prima di
continuare: « cos’ha da dirmi,
dottore? » sforzandosi di
mostrare una cortesia che non possedeva.
Probabilmente
Harris capì il tipo di persona che si trovava davanti, perché non cercò più di
intavolare discorsi accomodanti e passò subito al dunque.
« Vorrei metterla
semplicemente in guardia sulla situazione delicata in cui si trova il dottor
Watson » premise.
Sherlock
gli prestò la sua completa attenzione, in silenzio.
« Vede, ci sono molti
modi in cui una persona può affrontare la sofferenza. Le risparmierò i cinque
passaggi dell’elaborazione del lutto, se ha letto gli appunti che suo fratello
maggiore mi ha gentilmente richiesto
saprà già di cosa parlo » disse
(sottolineando il “gentilmente” con la voce).
Sherlock
annuì.
Harris
assentì a sua volta, prima di continuare: « sono convinto che John non abbia
affrontato tutto il percorso che porta all’accettazione della perdita. Deve
essersi fermato qualche passo prima e non averla completata, e questo deve
avere causato uno scompenso psichico di qualche tipo. Con la sua anamnesi non
mi stupirebbe troppo: era un soldato che ha combattuto in guerra per anni,
ferito in azione e congedato; ho letto che ha sofferto di stress post-traumatico
con manifestazioni psicosomatiche importanti, tanto da impedirgli la normale
deambulazione... in poche parole, stiamo parlando di una mente già danneggiata,
quindi– ».
« Non è danneggiata
» lo interruppe
Sherlock, un fiotto di rabbia incastrato nel diaframma.
Harris
si bloccò a metà della frase: « Come? ».
« La mente di John
non è danneggiata. Ciò di cui ha sofferto era puramente autoindotto, e lo ha
superato » “grazie a me”
avrebbe voluto aggiungere, ma evitò.
Lo
psichiatra lo guardò negli occhi – una lunga occhiata – prima di stringere le
labbra una contro l’altra.
« Ho scelto il
termine sbagliato, probabilmente » acconsentì (facendolo come se gli
concedesse il favore, il beneficio del dubbio): « diciamo “indebolita”. Ora, questa
sua... debolezza... lo ha reso particolarmente sensibile ad un tipo diverso di
processo, che la sua mente ha messo subito in atto tramite un sistema di
protezione; il dottor Watson ha creato una situazione completamente immaginaria
in cui lei, signor Holmes, era tornato da lui » disse, osservando la sua reazione.
Sherlock
non ne ebbe. Il caos era dentro di lui ma non si mostrava tramite espressioni
del viso. Non lo avrebbe permesso, non davanti ad uno psichiatra che legge in
ogni gesto ciò che gli fa più comodo.
Il
silenzio concesse ad Harris di continuare: « il termine tecnico è “delirio”. Nella
pratica è legato alla psicosi, ma la situazione di John Watson è del tutto
differente da una normale diagnosi di psicosi delirante(4) » affermò.
« In che senso? » domandò Sherlock.
Harris
prese fiato. « Uno psicotico
delirante completamente inserito nel proprio delirio percepisce la realtà così
com’è, ma la interpreta in modo sbagliato; però, se si forza l’individuo ad
abbandonare il delirio, le possibilità che guarisca dalla psicosi sono ottime » spiegò
brevemente, prima di riprendere: « il fatto è che... il dottor Watson è già uscito dal delirio. Si è reso
conto da solo che ciò che vedeva e sentiva non era reale, tant’è che ha firmato
lui stesso i documenti per il proprio ricovero. Semplicemente, John sembra non
voler abbandonare la propria allucinazione. Lui riesce perfettamente a
distinguere fra realtà e immaginazione ma non fa nulla per liberarsene. Questo
è... un caso insolito e clinicamente interessante » completò, un
guizzò di interesse nei suoi occhi.
Sherlock
strinse le labbra in un moto di aggressività trattenuta. Fece parlare le
proprie deduzioni, però: « in sostanza, lei
teme che la mia visita possa turbare questo strano equilibrio in cui John
sembra essersi stabilizzato, dico bene? Essendo io la causa del trauma subìto » riassunse.
Harris
annuì gravemente. « Non dico che non
le permetterò di vederlo. Solo, non voglio che lo faccia da solo. È come se il
dottor Watson fosse in bilico su di un filo sotto una campana di vetro. Vedere
lei potrebbe far sì che il vetro si infranga e il filo si spezzi. A questo
punto, le sue reazioni potrebbero essere le più disparate: purtroppo non stiamo
parlando di un uomo sano di mente, di questo deve essere consapevole » gli disse.
Certo
che ne era consapevole. Ne era maledettamente
consapevole.
Che
lo accettasse, però, era un altro paio di maniche.
Gli
occhi chiari di Sherlock caddero nuovamente sulla porta a vetri, chiusa, oltre
la quale vi era John.
Era
stanco di quei discorsi che già sapeva, di quel corridoio vuoto, di quella
distanza lunga tre anni e qualche metro. Nauseato dal quel medico che pensava
di saperne di più di lui su John. Irritato dalla pietà che gli si incollava ai
polmoni ad ogni respiro.
Era
di John che stavano parlando. John Hamish Watson. Non
potevano pretendere che ci credesse sul serio.
« Me lo faccia
vedere » disse solamente,
senza più guardare il medico.
Quello
annuì, sospirando. « Senta, signor
Holmes... c’è tanto del John Watson che conosceva lei nella persona oltre
quella porta. Tanto, sì, ma è una maschera. Tutto ciò che di sé stesso
quell’uomo ha rimasto è dentro un vaso di cristallo in bilico sull’orlo di un
mobile traballante. Ora noi daremo una scossa a quel mobile... non posso
assicurarle che ciò che è contenuto nel vaso si salverà » gli spiegò,
anticipandolo verso la fine del corridoio.
Questa
volta, Sherlock non si trattenne: « smetta di parlare per metafore e me lo
faccia vedere » sibilò.
Lo
psichiatra annuì, aprendo la porta a vetri.
×
Era
seduto su una poltrona economica, di quelle con lo schienale basso ed imbottite
di gommapiuma.
Sherlock
lo osservò, dall’altro lato della stanza, parlare a Lestrade con un sorriso
sincero ma di circostanza. Una di quelle espressioni di pura cortesia che John
usava spesso con i tassisti, con il cassiere del Tesco,
con il postino o con il signor Chatterjee,
proprietario del sandwich bar accanto
al 221B.
Probabilmente
lo faceva perché le persone che aveva di fronte avevano nei suoi confronti lo
stesso sorriso.
John...
era sempre stato bravo a capire l’atteggiamento di chi aveva davanti, e a
rispondere di conseguenza.
A
malapena notò gli altri pazienti presenti nella stanza. Solo una registrazione
automatica: la ragazza rannicchiata sulla sedia a guardare un programma per
bambini in televisione, l’uomo che faceva insistentemente rimbalzare una
pallina da ping pong contro
il muro, il ragazzo con i polsi fasciati imbottito di tranquillanti o la
signora con la mano destra tremante. Solamente contorni, cornici, informazioni
di contingenza.
Il
centro del suo mondo era John.
A
prima vista, sembrava sempre lo stesso. Le differenze dovevano essere trovate
nei dettagli, come nel mettere a confronto un quadro originale con una sua replica
perfetta.
I
capelli leggermente più lunghi, con un taglio diverso. La pelle più chiara,
segno di chi non esce molto spesso, e comunque non quanto prima. Posizione
della schiena arcuata, di chi passa molto tempo seduto e protegge se stesso da
qualsiasi contatto. Introversione. Assolutamente non da John. John era restio a
dare fiducia, era prudente, era sospettoso ma non era, non era, introverso.
E
la voce? Non stava parlando. Da quando aveva messo piede in quella stanza –
potevano essere quasi tre minuti, ormai – John non aveva parlato. E per quanto
improbabile possa sembrare, è praticamente impossibile che una persona
impegnata in una conversazione, come lo era John con Lestrade, possa rimanere
in completo silenzio per tre interi minuti. Inoltre le labbra di John erano immobili
e Sherlock poteva tranquillamente immaginare che, dopo i saluti, non avesse
detto nient’altro fino a quel momento.
No...
no. La persona seduta su quella poltroncina sembrava
John. Ma non lo era.
« La accompagno,
signor Holmes » disse Harris al
suo fianco: « nel caso che il
signor Watson reagisca male, vedendola » alluse.
Sherlock
lo guardò con la coda dell’occhio. « Intende nel caso ci sia bisogno di
sedarlo? » domandò,
indicando con un leggerissimo cenno del capo la siringa nella tasca del camice.
Quello
annuì distrattamente: « ci sono pazienti
qui, signor Holmes, che non gradiscono i climi troppo agitati, e soprattutto
sono pazienti che hanno l’improbabile caratteristica di influenzarsi l’un
l’altro molto velocemente » spiegò.
A
seguito del silenzio del detective, lo precedette di qualche passo in direzione
di John.
Col
senno di poi, Sherlock arrivò ad ammettere che quella distanza, quella decina
di metri dalla porta della sala comune all’angolo in cui John si era rifugiato,
era sembrata la più lunga di tutta la sua vita.
Gli
sembrò di camminare attraverso un’aria viscosa, resistente ad ogni sui
tentativo d’avanzata, almeno finché il trio non si accorse del loro arrivo...
e, di conseguenza, anche John.
Lo
guardò. Sherlock guardò lui. I loro occhi si incontrarono in uno di quei
secondi di cui si legge sempre ma che si fa fatica ad ammettere che esistano
davvero.
Un
momento del silenzio più puro. Un istante in mancanza totale di fiato.
Aspettativa, attesa, il ricordo di anni passati da nomade in un mondo a cui
mancava qualcosa e se ne accorgeva solo ora, solo in quella piccola frazione di
secondo in cui lo vide e sì, era lui, era sempre stato lui e dimostrami che non ti ho perso.
Dimostrami che non
mi sbaglio.
Dimostrami che è
tutto falso.
Dimostrami che
potrà tornare tutto come prima.
E
l’attimo passò così com’era arrivato, nell’istante stesso in cui ogni reazione
che si era immaginato da parte di John non trovò compimento.
Semplicemente,
distolse lo sguardo da lui, guardando Harris.
Probabilmente,
lui e lo psichiatra arrivarono alla stessa soluzione con uno scarto di un
decimo di secondo l’uno dall’altro.
« Buongiorno, John ».
« Buongiorno,
dottor Harris ».
La
sua voce. Piatta e bassa e leggermente roca. Il tono dell’attore che ripete una
parte imparata a memoria troppe volte, lo studente che mastica i versi di una
poesia ripetuta fino allo sfinimento. La sua voce.
Amara,
ora. Odiata, ora.
Come al solito,
John. Guardi ma non osservi.
Fece
attenzione, Sherlock, a non esprimere nulla sul suo volto. Un’occhiata al
fratello gli diede conferma che anche lui aveva già capito, mentre Lestrade
ancora si barcamenava nel tentare di afferrare cosa stesse succedendo. Mrs.
Hudson era semplicemente ammutolita.
Era
diventato la sua illusione.
Logico,
lineare. Come un’equazione. Come la formula del moto rettilineo uniforme. Così
semplice da far male.
John
non solo non credeva che lui potesse essere vivo, ma non credeva nemmeno che
tale possibilità ci fosse.
Non
aveva superato il trauma della sua morte ma la sua morte in sé, come evento
oggettivo, sì. Nella sua mente, l’unica immagine riconducibile a Sherlock
Holmes era la sua allucinazione e dunque, in base a quell’assunto, ogni
Sherlock Holmes che gli appariva davanti doveva essere frutto della sua
immaginazione.
La
stessa teoria per cui, se si temono le api, ogni ronzio sembra proprio quello
di un ape.
John
lo aveva escluso dalla realtà, lo aveva escluso persino dalla possibilità di
essere reale, e lo vedeva semplicemente come se fosse un’allucinazione. La propria allucinazione.
Il
detective rimase immobile, fermo, la mente immersa in un ringhio fastidioso che
non gli dava tregua. Guardava John ma John non guardava lui.
Arrivò
fin troppo velocemente a capire che non avrebbe posato lo sguardo su di lui,
non davanti agli altri: doveva essersi abituato alle loro visite e non avrebbe
mai permesso a se stesso di dare l’impressione di vedere Sherlock (anche se gli
altri lo sapevano, e lui sapeva che sapevano; ma John era sempre stato
orgoglioso e quello era un tratto che non era mutato). Lo avrebbe ignorato finché
ci fossero state altre persone attorno a lui. Avrebbe parlato con lui solo
quando gli altri se ne fossero andati.
Elementare.
Deglutì
a fatica, muovendo qualche passo verso la poltrona su cui era seduto John, appoggiandosi
al bracciolo in silenzio. Quando lo fece, e Watson non mostrò reazione alcuna
al suo essere così vicino, anche Lestrade sembrò realizzare cosa stesse
accadendo.
Mrs.
Hudson fece per prendere parola, ma Harris la fermò appena prima che potesse
dire qualsiasi cosa di sconveniente o di terribilmente sbagliato: « mrs. Hudson, se non le dispiace gradirei parlarle in
privato. E anche con i signori Holmes e Lestrade, se non vi è di troppo
disturbo » disse, cortese,
accorto, attento.
Un
nuovo gioco si era appena creato. Un gioco malinconico, una ruota della fortuna
senza premi. Un gioco le cui regole si stavano formando in quell’istante
stesso, al ritmo di ogni respiro e di ogni occhiata.
Il
gioco del “facciamo finta”.
Facciamo
finta che Sherlock sia l’allucinazione di John. Facciamo finta che John abbia
ragione. Facciamo finta che Sherlock non esista.
Facciamo
finta, perché ogni goccia di verità poteva essere quella buona per far
traboccare il vaso. Il pericolo più grande era ciò che Sherlock Holmes
rincorreva da sempre: la verità.
Una
verità che non poteva dire per timore di spezzare l’unico filo che teneva in
equilibrio John Watson. In equilibrio su cosa, però, a nessuno era dato
saperlo.
I
tre ospiti si alzarono e dopo un breve commiato (un cenno del capo da parte di Mycroft, una stretta sulla spalla da parte di Lestrade e un
lungo abbraccio da parte di mrs. Hudson) finalmente
John fu lasciato solo, e Sherlock con lui.
Il
medico attese fino a quando non scomparvero oltre la porta a vetri, prima di
parlargli.
« Vorrei che
smettessero di venire a trovarmi » disse, la voce modulata ma non bassa,
semplicemente... normale.
Semplicemente
sua.
« Perché? » domandò Sherlock,
non faticando a ritrovare il tono profondo e pacato di quando facevano
conversazione, così, come in quel momento, nel modo più semplice ed insieme più
casalingo del mondo.
John
sollevò a malapena l’angolo della bocca, un sorriso amaro: « è una pena che
potrebbero evitarsi » disse.
Sherlock
si limitò ad osservarlo dalla sua posizione sopraelevata, rimanendo in silenzio
per qualche istante di troppo. Il necessario perché John si voltasse, e lo
guardasse negli occhi.
Occhi
che lo vedevano ma che non lo vedevano al contempo. Paradosso. Tipico di John.
« Potresti
dirglielo » gli rispose
allora, cinico (così come doveva essere, così come lo sarebbe stato prima).
No
che non poteva, a questo riusciva ad arrivare anche lui. Era ingiusto vietare a
chi portava sulle spalle così tanti sensi di colpa – il fatto che fossero
autoimposti era completamente trascurabile in quel contesto – l’unica azione
che sembrava avere un valore di espiazione.
Venirlo
a trovare era il loro modo per fare ammenda. Patetico, ma l’unico.
Ma
prima non gli avrebbe risposto in quel modo e John aveva bisogno di credere di
stare parlando con la propria allucinazione, non con il vero Sherlock in carne
ed ossa. Motivo per cui Holmes avrebbe dovuto fingere, recitare la parte di se
stesso secondo il copione di John.
« Davvero? » domandò lui,
sorridendogli a malapena.
Solo un’ombra.
« Sì » confermò il
detective guardandolo di rimando, serio.
John
soffiò una risatina, tornando a guardare la porta a vetri dalla quale erano
appena usciti i suoi visitatori.
« No, invece... non
posso » rivelò affranto.
Aveva
capito tutto fin dall’inizio.
Pulì
il 221B, una volta tornato. Non attese che lo facesse mrs.
Hudson.
C’erano
cose che solo lui sapeva dove mettere, cose che dovevano essere controllate e
verificate, cose da ritrovare, cose da spolverare e da lasciare esattamente lì
dove si trovavano.
Lenzuola
pulite nella sua camera. Vestiti lavati nell’armadio. Il violino, il cuscino
con la Union Flag, il
computer, il teschio sulla mensola del caminetto. Persino le lettere ed il
tabellone del Cluedo. Tutto esattamente come prima,
pulito, con i colori che aveva ricordato per tre anni.
Così
famigliare e così vuoto.
Seduto
in poltrona, vestaglia da camera e mani unite appoggiate alle labbra, usò ogni
stilla del suo enorme raziocino per cercare un ordine di qualche tipo,
possibilmente logico; una strada distinta su cui proseguire.
Ci
pensava continuamente da quarantotto ore, da quando era tornato a Londra, da
quando aveva parlato con Harris e lui gli aveva detto di continuare in quel
modo. Che, nonostante l’incredibile situazione venutasi a creare, a John faceva
bene un po’ di compagnia – della vera
compagnia.
Stronzate.
Non
lo credeva nemmeno reale. Credeva di parlare con un’allucinazione.
Un’allucinazione che poteva persino toccare, rendendo completamente inutile
anche la prova del tatto.
Con
John non esisteva più logica. John aveva abbattuto
ogni logica.
Niente
“se non vedo non credo”, niente “se posso toccarlo è reale”, niente parola,
narrazione, evento passato, ricordo particolareggiato, spiegazione ragionevole che
potesse intaccare il mondo che John aveva costruito a propria protezione.
Perfetto.
Così perfetto che Holmes ne era rimasto quasi stupito. Quasi, perché l’unica cosa che riusciva a provare in quel momento
era rabbia.
Potente,
cieca, repressa rabbia. Scavava nelle sue vene un percorso che dilatava
l’assenza. La sua assenza.
Avrebbe
preferito un pugno. Avrebbe preferito il litigio, mesi di silenzio, l’essere obbligato
a dover chiedere scusa.
Avrebbe
preferito che andasse come se l’era immaginato nel suo caso peggiore (e più
verosimile).
Invece
John aveva rovinato anche quello, aveva distrutto anche quello. Aveva creato
una ragnatela in cui Sherlock, tentando incautamente di attraversarla
impreparato, era rimasto invischiato. E non poteva né liberarsi né chiedere a
qualcuno di liberarlo, perché tutti erano intrappolati nella stessa tela
appiccicosa e nessuno ne era realmente libero.
Ed
ora lui si trovava nel pieno centro della tempesta. Nell’occhio del ciclone
dove regna una calma solo apparente.
Cosa
fare, cosa non fare? Cosa dire, cosa non dire, come muoversi?
Logica
o sentimento? Ragione o istinto? Dire cosa vorrebbe sentirsi dire o cosa si aspetta
che direbbe?
Difficile.
Difficile essere lo Sherlock Holmes di John Watson.
Recitare
una parte di cui non si possiedono nemmeno le battute pensando che conoscere
l’autore che le ha scritte sia sufficiente ad immaginarle.
Appoggiandosi
le mani sugli occhi, sospirò profondamente.
Era
morto per lui. Fuggito per lui. Aveva affrontato la solitudine, per lui. Era
tornato per lui ma lui non lo aveva aspettato. Se ne era andato nel posto più
vicino e, al contempo, anche nell’unico luogo in cui Sherlock non poteva
raggiungerlo.
Tendergli
la mano. Portarlo via, portarlo indietro.
Perduto.
John.
E lui.
Perduti
entrambi. Perduti insieme.
Torna a casa,
John.
Torna a casa.
Un
taxi da Baker Street a King’s Cross.
Poi
in treno da King’s Cross a Cambridge.
Di
nuovo un taxi da Cambridge – stazione centrale – al Fulbourn
Hospital (appena fuori Cherry Hindton, subito prima
di Fulbourn). Un’ora e quarantacinque minuti in
totale.
Altre
ventiquattro ore prima di vederlo di nuovo. Tre giorni dalla sua ultima (e
prima) visita all’ospedale. Non aveva resistito a lungo, senza niente da fare,
senza John accanto e senza un motivo valido che giustificasse quell’assenza –
come nei tre anni di vagabondaggio che avevano preceduto quell’assurda
situazione.
L’infermiera
lo riconobbe quando attraversò il portone d’entrata, ma non la salutò. Il
cattivo gusto degli interni lo preparò mentalmente a ciò che lo aspettava due
piani più su. Prese l’ascensore e salì.
Non
aveva bisogno di vedere Harris, motivo per cui non lo aspettò come facevano
sempre Mycroft e Lestrade. Si erano chiariti alla
perfezione l’ultima volta che si erano visti: poteva venire quando voleva a
patto che non provocasse cambiamenti ingenti nella psiche di John – parole sue.
Ovvero: “puoi venire quando vuoi a patto che continui a fingere di non
esistere. Almeno finché non te lo dirò io”.
Un
moto di disgusto gli era nato nello stomaco per quel povero essere umano
designato come uno dei migliori psichiatri della nazione. La voglia improvvisa
di fargli del male, un prurito alle mani come non gli capitava da anni. Il lato
peggiore della sua sociopatia: le diagnosticate crisi di aggressività che,
modificando il comportamento, lo rendevano un Disturbo di Personalità
accademicamente e clinicamente riconosciuto.
Due
cose lo tenevano nei ranghi: John e il suo raziocino. Ora che ne era rimasta
solamente una, l’altra era molto meno propensa a compiere il suo dovere
inibitorio.
Percorse
il corridoio bianco a passo sicuro, entrando nella grande sala comune e
cercando subito la figura di John. Incrociò lo sguardo di due infermieri che
subito fecero per alzarsi dalle loro postazioni, ma riconoscendolo lasciarono
perdere, accogliendolo con un semplice cenno del capo.
Probabilmente
Harris aveva parlato di lui al personale. Bene.
C’erano
delle regole da seguire per chi gli stava intorno, e su questo Harris era stato
chiaro: se John doveva credere di parlare con un’allucinazione, gli infermieri
dovevano assolutamente limitare qualsiasi reazione alla presenza di Sherlock.
Perché, tecnicamente, loro non avrebbero dovuto vederlo.
John
era astuto e soprattutto un buon osservatore, quando lo voleva, quando si
stuzzicava il suo istinto da soldato che lo metteva istantaneamente all’erta.
Motivo per cui non potevano permettersi errori. E la cosa valeva anche per
eventuali accompagnatori di Sherlock stesso (mrs.
Hudson, Lestrade, Mycroft, Harriet
Watson).
Il
più grande gioco di ruolo mai messo in atto(5), in cui Sherlock si
era guadagnato la parte di Attore Protagonista senza nemmeno volerla.
Non
gli piaceva.
Come
al solito, John era seduto in una delle poltroncine accanto alla finestra, la
stessa della visita precedente (Sherlock temeva che fosse la stessa di sempre,
in realtà). Teneva sulle gambe un libro aperto ma lo sguardo vagava, infinito,
oltre al vetro, puntato al cielo grigio.
Gli
si avvicinò a passo lento ma sicuro, sospirando piano, senza farsi sentire.
Su il sipario.
« “Cessando di
essere pazzo, diventò stupido” » lesse a voce bassa, fermandosi dietro lo schienale
della poltrona.
Rapido
ragionamento. Marcel Proust, “Alla Ricerca del Tempo Perduto”, sette volumi,
John era al terzo – riconosceva il verso. Era avanti nella lettura, il che
presupponeva che avesse già letto i primi due libri. L’allucinazione di
Sherlock avrebbe dovuto sapere da dove veniva. John non poteva sapere se
Sherlock avesse o no già letto quel libro, dunque probabilmente la sua
allucinazione si sarà astenuta dal fare commenti sulla trama. Potrebbe avere
commentato la sua provenienza, tra l’altro abbastanza intuibile: libro nuovo,
copertina rigida di tela nera con caratteri in argento (edizione costosa), non
rovinato, angoli intatti, letto solo una volta; non esattamente un libro da
biblioteca interna del reparto, sia oggettivamente che per contenuto.
Biblioteca privata, dunque. Non era uno dei libri di John (li aveva visti tutti
ed erano ancora tutti a Baker Street). Facile.(6)
« Non avrei mai
creduto che uno come il dottor Harris leggesse Proust » commentò – una
frase di ampio respiro, non troppo precisa ma non esageratamente vaga.
Prestare attenzione
ad ogni frase, al minimo particolare. Taci se devi sbagliare. Un errore e tutto
crolla, nessuna seconda chanche.
John
sorrise a labbra chiuse, girandosi in sua direzione con una luce pacata negli
occhi, quasi dolce. « Non ci sto
capendo molto, in realtà. Avevi ragione » gli disse.
Gli
fece spazio sul bracciolo della poltrona. Sherlock, seguendo il gesto, si
sedette su di esso.
Fu
in quell’istante che si accorse di quanto il loro rapporto, in quei tre anni,
fosse proseguito (in sua assenza).
John si sistemò meglio sulla seduta della poltrona e, chinandosi in sua
direzione, si appoggiò a lui con la spalla e la testa.
Un
attimo di sorpresa che, fortunatamente, John non notò. Holmes fu abbastanza
veloce nel considerare quale gesto sarebbe stato più opportuno (appoggiargli la
mano sulla spalla, abbracciarlo, sfiorargli i capelli... troppe possibilità,
campo inesplorato, pochi dati a disposizione) e, dopo una veloce analisi ed un
notevole salto del vuoto, la scelta di appoggiargli la mano sulla parte
posteriore del collo sembrò essere quella giusta.
Ignaro
di tutto ciò che si stava scatenando nella mente – e nel cuore? – di Sherlock,
John continuò a parlare.
« Non mi dispiace
come libro, dopotutto. Quando non ci sei è un ottimo passatempo, nonostante
Elise continui ad invitarmi a vedere i cartoni animati con lei appena può » chiacchierò.
Informazioni.
Elise era la ragazza davanti alla televisione che guardava sempre programmi per
bambini. “Quando non ci sei” presupponeva che John non avesse sempre le
allucinazioni, o comunque non continuamente. Bene, poteva giocare a suo favore,
probabilmente.
La
buttò sullo scherzo, questa volta: « magari sono più interessanti di quello
che sembrano » disse con una
sottile ma palese ironia.
John
ridacchiò. « Sì certo, vedere
i Teletubbies è sempre stato uno degli obiettivi
della mia vita » scherzò.
La
sua risata ebbe il potere di incurvare le labbra di Sherlock in uno strano moto
di nostalgia. Al contempo, sempre per lo stesso motivo, lo stomaco gli si
chiuse in una morsa. Si comportò come se niente fosse.
Parlarono
del più e del meno per la successiva mezz’ora. Era complicato, a volte,
assecondare discorsi che John dava l’idea di avere già affrontato con “lui”, ma
con qualche veloce considerazione e sfruttando la profonda conoscenza che aveva
di Watson era riuscito a cavarsela.
D’altro
canto, John aveva continuato per tutto il tempo a rimanere appoggiato a lui,
chiacchierando con un sorriso sulle labbra che non gli si addiceva – così vuoto
e stranamente dolce, docile, arrendevole – mentre Sherlock, ad un certo punto,
aveva cominciato a passare il pollice avanti ed indietro sull’attaccatura del
capelli di John, in una sorta di piccola carezza. Contatto che non era
risultato sgradito ma, soprattutto, che era sembrato abituale.
E
il suo stomaco si era serrato ancora di più (se possibile).
Ad
un certo punto, semplicemente, non ci era più riuscito.
« Io vado » aveva detto.
Nessuna
spiegazione, nessuna motivazione. Temette di avere appena compiuto l’errore
fatale.
Ma
John semplicemente annuì: « sì, ci vediamo dopo » lo salutò. Senza volere
spiegazioni, o motivazioni.
Come
se uscisse dal 221B diretto al Barts, o chissà dove.
Come se fosse una cosa normale. Come se tornasse dopo poche ore.
E
in realtà sarebbe tornato, probabilmente, ma non lui. L’altro. L’altro Sherlock Holmes. Lo Sherlock Holmes di John Watson
che lui cercava con tutto se stesso di ricreare, e che si prendeva il suo posto
accanto a John.
Alzandosi
dalla poltrona e dirigendosi all’esterno, Holmes trattenne il respiro in una
smorfia. La sua prima visita “ufficiale” era durata poco più di quaranta
minuti.
Quaranta
minuti prima di crollare sotto il peso della realtà.
×
Sputò solo saliva. Non aveva
mangiato quasi niente in due giorni, il suo stomaco non aveva niente da
rigettare nonostante sentisse l’urgenza di farlo.
Desiderò di rimettere il fegato. Il
pancreas. Gli intestini, le viscere, i polmoni, il cuore. Soprattutto il cuore.
Sia l’organo che quello metaforico. Tutto il pacchetto di sentimenti che lo
spingeva in ginocchio e che non sapeva come gestire: sputarli fuori e
scaricarli nelle fogne di Cambridge per darli in pasto ai ratti.
Liberarsi dell’immagine di un John
che non aveva più niente, di John. Un involucro di pelle ed ossa seduto su di
una poltrona a leggere libri che non capiva. Che non poteva capire. Un John che parlava con qualcuno che era lui ma
che al contempo non lo era, che si faceva toccare da qualcuno che era lui ma
non lo era, così intimo, così diverso in senso buono, nel senso in cui avrebbe
voluto fossero realmente, ma loro
due, non John e l’altro.
Invidia, gelosia, rabbia,
frustrazione. Sempre per John, un pattern che si ripete, un copione già visto.
Mycroft
aveva ragione, Sherlock si trovò costretto a dargliene.
Importarsene non è un vantaggio.
Cinque
minuti e trentotto secondi.
Vincent
Lone, 33 anni, dipendente per una ditta di imprese
funebri, trovato morto nella bara che tecnicamente non era lui a dover
riempire, ma la vecchia signora Margareth Bones, 98 anni, morta per arresto cardiaco al Royal London Hospital quattro giorni prima e ritrovata
chiusa nello sgabuzzino della camera mortuaria quattro giorni dopo.
Arma
del delitto: vaso di terracotta per fiori – alcuni frammenti erano stati
ritrovati nella ferita sul cranio e i cocci dello stesso nella spazzatura
dietro lo stabile. Impronte digitali sui cocci del vaso, due serie: signore e
signora McCord, proprietari dell’agenzia di pompe
funebri. Considerazione sulle impronte: non indicative, potrebbero essere state
lasciate prima del delitto. Considerazioni sul cadavere: ripulito dal sangue
con prodotti per la pelle (post mortem), rassettato, le unghie tagliate (post mortem),
i capelli spuntati (post mortem), la camicia riabbottonata fino all’ultimo
bottone del colletto (post mortem). Gesti abituali, gesti inutili, perdite di
tempo che dicevano più del necessario. Nel suo portafoglio: una carta
ricaricabile, l’abbonamento per due palestre, una piccola foto ingiallita di
famiglia, una fotografia piegata in quattro parti del signor McCord di dieci anni più giovane non esattamente vestito e
non esattamente pudico.
Conclusione
talmente palese da rasentare il ridicolo.
« È stata la moglie dopo aver scoperto che il
loro tuttofare aveva una storia con il marito da più di un decennio, probabilmente
ancora da prima che i coniugi si conoscessero » disse a Lestrade.
Compreso
il tragitto dal taxi alla scena del delitto, i convenevoli piccati scambiati
con Anderson e gli sguardi stupiti dei poliziotti che lo guardavano come se
fosse Cristo redivivo, caso risolto in cinque minuti e trentotto secondi.
E
non ci aveva creduto nemmeno per un istante.
« Lestrade, questo
caso è talmente facile e noioso che persino uno come te sarebbe in grado di
risolverlo » disse, acido,
rialzandosi dalla sua posizione inginocchiata accanto alla bara aperta per
guardare l’Ispettore dritto negli occhi.
Quello,
interrompendosi a metà dell’intenzione di cominciare una frase, ammise la
sconfitta con un sospiro.
Si
portò le dita all’attaccatura delle sopracciglia e, massaggiando piano, disse: « ieri sera mi ha
chiamato tuo fratello. Dice che sono tre giorni che non esci di casa... » lasciò cadere.
Lo
sguardo di Sherlock si fece ancora più duro e tagliente.
« Beh, puoi dire al
mio caro fratello che ciò che faccio
o meno con il mio tempo rimane una mia prerogativa » commentò,
palesemente seccato.
Lestrade
sospirò ancora. « Sherlock, ho
parlato anche con mrs. Hudson. Mi ha detto che non
dormi da almeno trentasei ore e che passi tutto il tempo a leggere libri di
psichiatria e psicologia. Senti, so quello che stai passando, però non– ».
Si
dovette interrompere a causa del modo in cui il consulting detective lo
trapassò, congelandolo con i suoi occhi incredibilmente chiari.
« Ciò che voglio
che riferisci a mio fratello vale anche per te, Greg » utilizzò il suo
nome, apposta, sottolineandolo con la voce in modo quasi minaccioso: « il modo in cui impiego
il mio tempo rimane un interesse mio e mio soltanto » disse, per poi
aggiungere: « ti pregherei di
non sprecarlo con casi come questo, la ritengo un’offesa alla mia intelligenza
e alla tua. E ora, se vuoi scusarmi... » ma non aspettò il
permesso di Lestrade per andarsene, girandogli velocemente le spalle ed
incamminandosi a passo svelto verso l’uscita.
Se
John fosse stato lì, probabilmente lo avrebbe rimproverato per i modi bruschi
con cui aveva trattato una delle poche persone che potesse considerare la cosa
più vicina ad un amico che gli era rimasta.
Se
John fosse stato lì, probabilmente lo avrebbe lodato nonostante l’imbarazzante
facilità dell’enigma, alleggerendo tutta quella frustrazione che si portava
addosso come una maledizione.
Ma
John non era lì, e Sherlock non si era mai sentito più arrabbiato e perso di
come si era sentito in quel momento.
Maggio.
« Ieri il tempo è
stato abbastanza clemente, gli infermieri ci hanno dato il permesso di andare
in cortile ».
Conversazioni
qualsiasi di argomenti qualsiasi. La stagione, i libri, il tempo. Le uniche
cose che John poteva permettersi, fra quelle mura.
« Il parco di
questo posto mi ricorda molto Regent’s Park. Quello
vicino a Baker Street. Il dottor Harris mi ha detto che in estate alcuni dei
pazienti coltivano le aiuole e ci sono fiori e piante ovunque. Dovrebbero fiorire
presto ».
Seduti
nelle solite poltrone, vicine, le mani una accanto all’altra sui braccioli, il
mignolo di John che si era intrecciato al suo non appena si era seduto e non
l’aveva più lasciato.
Il
contatto lieve della sua pelle tiepida. Sollievo e nausea al contempo.
« Credo che li
vedrò ».
Sherlock
deglutì, fingendosi stoico. « Li vedrò anche io ».
Il
DSM-IV, ovvero il Diagnostic and Statistical Manual of Mental
Disorder, divideva le malattie mentali in assi
tematici. Gli assi erano cinque. Sherlock arrivò a capire che il problema di
John poteva posizionarsi a cavallo fra gli Assi I e II, ma non andò più avanti
di così. Non c’era niente di specifico. Caso anomalo.
L’ICD-10,
o International Statistical
Classification of Diseases, Injuries and Causes of Death, trattava le
malattie mentali nel capitolo cinque. Anche in questo caso non c’era nulla di
preciso, nulla di completo, niente di specifico. Caso anomalo.
Passò
ai testi universitari. Ore e pagine di spiegazioni di teorie di base e metodi
di ricerca e trattamento. Materiale utile solo a matricole universitarie.
Inutile.
Testi
d’autore. Praticamente decine di libri che trattavano un solo disturbo mentale
per volta. Neuropatie, neuropatie degenerative, neuroscienze, psicosi, psicosi
delirante, psicopatia, disturbi della personalità, schizofrenia... intere
descrizioni di disturbi, altre teorie ed ipotesi. Nulla di fatto. Inutile.
Riviste
del settore e nuove ricerche in proposito. Studi condotti su pazienti decretati
“non curabili” o, come sempre facevano gli strizzacervelli nell’usare le parole
per addolcire la pillola, “pazienti che non rispondono alle cure”.
Comportamenti
di gruppo, crisi deliranti, confessioni di traumi infantili mai superati capaci
di segnare un’intera vita. Un primo momento di miglioramento seguito da una
caduta repentina con una regressione allo stadio iniziale della malattia. Crisi
acute con manifestazioni anche violente. E parole, parole, parole, parole, parole
sprecate a descrivere ogni fase, ogni frase, ogni occhiata, ogni impressione,
ogni segno; stadio dopo stadio accompagnati per mano dal medico che aveva promesso
di curarli e invece li aveva decretati materiale di studio. Cavie da
laboratorio. Allo stesso livello dei topi a cui vengono iniettate cellule
cancerogene nella speranza di trovarne la cura.
Con
uno scatto, Sherlock chiuse il British Journal of Psychiatry. Dalle finestre
del salotto entrava fievole la luce dell’alba.
Della
terza alba.
Trentasei
ore. Tre giorni passati sfogliando e leggendo qualsiasi cosa potesse essere
utile a capire.
Capire
cos’aveva John, come poteva aiutarlo, come poteva portarlo indietro, farlo
tornare al tempo in cui l’altro non
c’era, non esisteva, non era stato creato. Guidarlo sulla via della verità
senza che essa lo distruggesse, o cancellasse quel poco di lui che Harris gli
aveva assicurato essere rimasto, da qualche parte dentro John Watson, ma che
Sherlock non aveva ancora visto.
Trentasei
ore.
Capì
di essere giunto al suo limite fisico e mentale quando i nomi di tutti i
pazienti di cui leggeva i resoconti si trasformarono in “John Watson”.
Ancora
maggio.
« Harry è venuta a
trovarmi ».
Il
tempo incredibilmente sereno aveva permesso ai pazienti del Fulbourn
di uscire all’aria aperta. Tiepidi raggi di sole attraversavano le fronde
ancora seminude degli alberi sopra le loro teste, macchiando il tappeto erboso
di luce.
« Mi ha chiesto di
andare a vivere a Londra con lei e Clara. A quanto pare sono tornate insieme.
Ha detto che è stata l’unica persona in grado di ascoltarla dopo... beh, dopo
di me ».
Seduti
vicini, la mano di Sherlock sulla gamba di John, la testa di John appoggiata
sulla spalla di Sherlock.
Contatti
lievi, effimeri. Calore rubato attraverso la stoffa degli abiti.
La
gola chiusa, una piccola stilla di gelosia mascherata da lieve fastidio. « Tu cos’hai
risposto? » domandò Sherlock,
la voce piatta, le iridi azzurre ad osservare John con la coda dell’occhio.
« Le ho detto di
non venire più qui. Che è meglio così ».
Un
sorriso triste sulle sue labbra, una tonalità malinconica d’indaco nei suoi
occhi persi nella lontananza del parco.
« Non tornerà ».
Un
sospiro da parte di Sherlock. « No, non tornerà ».
Sherlock
sapeva che era un sogno, ma era troppo bello per chiedere alla propria
coscienza di svegliarsi.
Erano
seduti in un taxi e John, accanto a lui, parlava. Si lamentava, in realtà. Del
latte che sembrava sparire per magia dal loro frigorifero, della sua mania di
bere sempre e solo una specifica marca di tè, dei pezzi di cadavere nel
congelatore e del fatto che usasse il suo shampoo e lo finisse senza dirgli mai
niente.
E
Sherlock sorrideva appena, osservandolo mentre parlava del buco nella tenda
della doccia e della fialetta di soda caustica che non doveva assolutamente tenere
a meno di dieci metri da qualsiasi alimento.
Non
sapeva dove stava andando il taxi, non sapeva perché erano a bordo (Lestrade?
Un caso? Non lo sapeva, non lo sapeva proprio) ma riconosceva Trafalgar Square, il Big Bang, il Big Eye,
il London Bridge, Waterloo, i Docklands. Il black cab
semplicemente continuava la sua corsa lungo le famigliari strade londinesi e
John parlava nel più naturale dei modi, le braccia incrociate al petto, le
sopracciglia aggrottate in quella sua caratteristica espressione preoccupata e
fintamente arrabbiata al contempo.
Poi,
il sole entrò dalle finestre. La sua mente si era riposata abbastanza. Il sogno
svaniva.
Sherlock
si svegliò.
Osservò
il soffitto del salotto, i fogli d’appunti sparsi sul pavimento insieme ai
libri, la fievole luce azzurrina della prima alba ed il pulviscolo che essa
stessa illuminava, fluttuante nell’aria. Si rese conto di aver dormito sulla
poltrona di John, una tazza mezza piena di tè ormai freddo appoggiata sul
tappeto ai piedi della poltrona.
In
quella casa, l’immagine di John era ormai esattamente come quella nel sogno.
Lentamente,
svaniva.
Giugno.
La prima volta in cui Sherlock sentì la fredda e spettrale mano di
un’irrazionale paura stringere le dita attorno al suo cuore asincrono e rinnegato.
« Oggi è il suo
terzo anniversario ».
Aveva
già capito, Sherlock, ma fece finta di nulla. Autoprotezione.
Processo razionale di difesa.
« Di chi? » domandò,
nonostante lo sapesse, senza riuscire ad evitarselo.
« Di Sherlock » rispose
semplicemente John, intento a disegnare sul palmo della sua mano aperta figure
inesistenti con una pressione sottile del dito indice.
Doveva
provare. « Il mio » disse Holmes.
John
alzò gli occhi su di lui. Sbagliato,
gridò la mente del detective.
« No » rispose infatti John:
« quello di
Sherlock ».
Ah,
eccola la pazzia. Chissà se Harris lo sapeva, nella sua onnicomprensiva
inabilità nel fare il suo lavoro, di questo lato del “problema” di John – come
tutti amavano definirlo in sua presenza.
Parlava
di lui con lui alla terza persona.
Parlava di lui con
lui alla terza persona.
« Sì... » soffiò Sherlock,
riprendendosi subito (ma con un certo sforzo) dal piccolo shock: « ...lo so » disse.
La
mano di John smise di disegnargli chissà cosa sul palmo e, in una carezza di
polpastrelli, fece aderire le loro mani l’una all’altra ed intrecciare le loro
dita.
« Vorrei andare al
cimitero, l’anno scorso non ci sono andato. Pensavo fosse vivo e me ne sono
completamente dimenticato. Vorrei rimediare, ma... la sua tomba è a Londra e
io... ».
La
sua voce tremava, si affievoliva, sussurrava. Sherlock non ebbe il fegato – il cuore – di guardarlo.
« Scusami,
Sherlock... scusami... » implorò,
portandosi la mano libera dalla stretta a nascondersi gli occhi lucidi di
lacrime.
Tutto
quello che Sherlock poté fare, fu resistere.
Resistere
alla tentazione. Resistere alla voglia di andarsene. Resistere al tempo.
Ripagare la pazienza sperando che essa, un giorno non tanto distante, gli
restituisse il favore.
Tutto
quello che Sherlock poté fare, fu ricambiare la stretta, intrecciando di più le
loro dita.
E
sentirlo implorare una persona che era lui ma che, nella “realtà” di John, non
era il “lui” seduto al suo fianco in quel momento.
Il
mondo era di nuovo quel groviglio confusionario di informazioni avulse da un
contesto.
Sirena in
lontananza, l’abbaiare di un cane, niente di importante, niente di eccitante,
il dito di polvere sulla mensola del caminetto è scomparso, mrs.
Hudson, non ha toccato i libri, sono sempre nello stesso posto, c’è odore di
patate al forno, passi al piano di sotto alle dieci di sera, ospiti, parenti,
da lontano?, campagna periferia Whitechapel
oltreoceano Florida? Florida. L’aria stantia, finestre non aperte a
sufficienza, pioggia, non voleva bagnare la scrivania e il tappeto, inutile,
non c’è più nessuno che si possa sedere a quella scrivania, non c’è più nessuno
a cui importa del tappeto, non c’è più nessuno e basta. L’aria stantia non
cambia la sua composizione molecolare, azoto ossigeno argon diossido-di-carbonio
neon elio monossido-di-azoto kripton metano idrogeno
ossido-di-azoto ozono radon vapore-acqueo, presenza di gas nobili, i gas nobili
sono atomi che hanno completato l’ottetto del guscio di valenza, sono atomi che
non hanno bisogno di legarsi con altri atomi, se non artificialmente, Mycroft diceva che erano come lui, Mycroft
si era sbagliato. La psicosi delirante si forma quando la realtà è percepita
correttamente ma viene valutata erroneamente, le cause principali potrebbero
essere tante e troppe, servono altri studi, servono altre cavie, John.
Grugnì,
seduto sul pavimento con la schiena appoggiata alla poltrona di John,
portandosi le dita delle mani a massaggiarsi le tempie.
Ma
il ronzio non si fermava. Milioni, miliardi, triliardi
di informazioni tutte insieme e nessun filtro, nessuna capacità di contenerle e
limitarle, selezionarle. Testa pesante, la sensazione di mani invisibili che
premono la spina dorsale da parti opposte per piegarla in angoli improponibili,
la gola secca e la bocca impastata.
Respirare,
espirare, sospirare, occhi chiusi. Ricerca della calma.
Inutile.
Cose che mancano:
la seconda tazza sul tavolino da caffè, il giubbotto verde di John nel
ripostiglio all’entrata, il secondo spazzolino in bagno, lo shampoo,
l’accappatoio a righe, il laptop, lui, la sua presenza, la sua voce, la sua
calma, la sua agitazione, il suo sentimentalismo dozzinale, il suo sorriso, il
suo “Sherlock!”, la sua irritazione, i suoi complimenti, lui, lui, lui, lui,
lui. L’equilibrio. La mano davanti al petto che impedisce un salto nel buio.
« Dannazione... » fu solo un
sussurro quello di Sherlock, ma gli occhi serrati e il fiato trattenuto in un
moto di stizza e confusione accompagnarono quella parola e le diedero tutto un
altro significato.
Ne
aveva bisogno.
Soluzione
al 7%. Sicura, controllata libertà. Ne aveva ancora, nascosta in camera.
Lestrade non lo sarebbe mai venuto a sapere. Mycroft
lo sarebbe venuto a sapere ma non avrebbe avuto niente da dire. Mrs. Hudson
avrebbe capito. John lo avrebbe disprezzato.
Ma
John non c’era.
John
non avrebbe voluto.
Ma
John non c’era.
John
gli avrebbe strappato di mano la siringa e dalla testa quell’idea. Gli avrebbe
impedito di farlo a costo di picchiarlo.
Ma John non c’è.
Si
alzò dal pavimento così in fretta che il digiuno gli fece girare violentemente
la testa, ma non perse l’equilibrio. Si diresse a passo svelto verso camera
sua, afferrò con entrambe le mani il cassetto della biancheria e lo rivoltò,
rivelandone il doppio fondo da cui estrasse un astuccio blu di marocchino.
L’unico
posto in cui John, così pudico in tutto ciò che faceva, non avrebbe mai
guardato. Il doppio fondo che non aveva mai scoperto.
Aveva
promesso a se stesso di non farlo. Lestrade aveva giurato di non fargli mettere
piede su una scena del crimine, se avesse continuato a farsi, e Sherlock non
aveva avuto difficoltà a crederci; per quanto bisogno di lui Lestrade avesse,
non era il tipo di persona che dava soddisfazione ai drogati.
Solo
dopo, e solo silenziosamente, lo aveva promesso anche a John. Quando ormai era
acqua passata, la sua dipendenza, ma il fatto stesso che avesse tenuto
quell’astuccio nascosto in camera, anche se intonso da mesi, la diceva lunga su
quanto seriamente lo intendesse.
Per
ogni evenienza. Per i casi di emergenza. Per serate come quella.
Perché
John non c’era, e non sarebbe tornato, e questo non era come girare per
l’Europa a caccia della rete di Moriarty, in cui
l’adrenalina non mancava mai e doveva dormire con un occhio aperto per stare
attento alle pallottole. In quei tre anni aveva avuto un obiettivo, un perché,
un motivo. Tornare a casa. Ciò che teneva impegnata la sua mente da un fronte
non la rendeva debole dall’altro. Equilibrio.
Ma
ora quell’equilibrio era spezzato. Era John il suo equilibrio, e John non
c’era, e la testa era un casino, un continuo accumularsi di elementi a cui
serviva un controllo, pacchetti di dati senza abbastanza potenza di calcolo per
elaborarli.
Sedendosi
sul letto estrasse con urgenza la siringa ipodermica sterile e la fialetta di
liquido trasparente. Con movimenti precisi che ritrovò in un’abitudine sepolta
da qualche parte estrasse la solita dose, quella innocua ma efficace,
assicurandosi con cura che non ci fossero bolle d’aria. Non gli servì nemmeno
il laccio emostatico: tenendo la siringa con i denti si colpì il braccio con
due dita, strinse il pugno ed eccola lì, la vena.
Si
fermò solo quando vi appoggiò sopra l’ago. Un attimo, l’indecisione di un
istante. No. Era troppo doloroso, senza.
Si
iniettò la cocaina in vena con fin troppa facilità.
Ancora
giugno.
Sherlock
attraversò a passo cadenzato il corridoio, ma quando entrò nella sala comune si
fermò di colpo.
Non
c’era. Le solite poltrone davanti alla finestra erano vuote.
Stomaco
chiuso, un moto di agitazione. Rapida ripresa. Calcolo delle possibilità.
Uno:
cortile.
Chiese
agli infermieri ma no, dato il tempo incerto non avevano lasciato uscire i
pazienti, quel giorno.
Due:
terapia di gruppo.
Entrò
in tutte le stanze preposte ma erano vuote, l’orario di visite difficilmente
coincideva con le terapie di gruppo.
Tre:
terapia individuale dal Dr. Harris.
Bussò
alla porta dell’ufficio ed entrò, ma lo psichiatra era solo. Gli espose
brevemente il problema. Quello sorrise.
« Le scale » gli disse: « provi le scale, è
da qualche giorno che ci va ».
Poté
capire dalla sua espressione ignobilmente rilassata che non si era nemmeno
posto il problema del perché John lo facesse, impegnato com’era a cercare un
nome per la sua nuova teoria sui disturbi mentali e un titolo all’articolo che
sarebbe nato dall’analisi del caso di John. Deglutendo un moto d’ira, annuì
brevemente e richiuse la porta.
Alle
scale si poteva accedere tramite una porta con maniglione a spinta, proprio di
fianco agli ascensori. I pazienti non potevano accedervi – non potevano
accedere direttamente alla zona degli ascensori – ma Sherlock era venuto a
sapere che John era “un caso speciale”, praticamente se stesso e totalmente
innocuo, dunque sia il personale che i medici lo lasciavano girovagare con un
po’ più di libertà rispetto agli altri.
Spinse
il maniglione e si immise nella tromba delle scale. C’era silenzio, in quel
posto, e fra lo scendere ed il salire Sherlock decise di salire.
Era
la decisione più logica. Una persona desiderosa di andarsene avrebbe fatto le
scale in discesa ma non qualcuno come John, che si era fatto portare in quel
luogo di sua volontà e allontanava chiunque gli proponesse di uscirne. Doveva
essere salito per forza.
E
fu proprio in alto che lo trovò, seduto sull’ultimo gradino della scalinata
accanto ad un’uscita chiusa a chiave. La porta che dava sul terrazzo, considerò
Sherlock, deduzione comprovata da un cartello con una freccia e la scritta “rooftop”.
Perché sul tetto?
Si
fermò qualche gradino sotto di lui, osservandolo. John scostò gli occhi chiari
dal libro che stava leggendo nella penombra della rampa e gli sorrise appena. « Già finito il
giro di ricognizione? » gli domandò.
Ancora
una volta non sapeva di cosa stava parlando. Come arrivare quando la
conversazione è già iniziata.
Annuì
con un cenno, salendo anche i rimanenti gradini che li separavano: « Harris sembra su
di giri » commentò
laconicamente, sedendosi di fronte all’altro sull’ultimo gradino, spalle
appoggiate alla ringhiera.
John
chiuse il libro, girandosi meglio in sua direzione ed appoggiandosi con le
spalle al muro. « Credo che gli
abbiano chiesto di scrivere un saggio per il British
Journal of Psychiatry sul
mio caso. Questa mattina ha accennato al fatto che sto diventando famigerato,
nell’ambiente » gli spiegò con
calma.
Deduzione
corretta.
« E perché mai? » rispose però
Sherlock, forse con tono un po’ troppo alterato.
John
aggrottò le sopracciglia ma non smise di sorridergli: « dice che il mio è
un caso anomalo » ammise con
semplicità.
Sherlock
si trattenne dal commentare in maniera poco gentile.
Quello
non era John. John Watson non accettava gli avvenimenti così, senza lottare,
senza ribellarsi, senza discutere. John Watson non avrebbe lasciato che lo
trasformassero in un argomento da presentare a qualche simposio internazionale
di Psichiatria. John Watson non era l’uomo seduto davanti a lui, eppure lo era
al contempo.
Stinse
i denti con forza.
Dove sei, John?
Dove sei?
« Perché sulle
scale? » domandò invece,
trovano un nuovo veicolo per la sua incontenibile voglia di polemizzare: « ti sforzerai la
vista con quel libro, Proust è scritto in piccolo. Finirai per farti venire
l’emicrania » borbottò,
seccato.
John
sbuffò. « Il silenzio, ok?
C’è silenzio. Avevo voglia di andare sul tetto a prendere un po’ d’aria, ma a
quanto pare quella zona è off-limits anche per i preferiti del reparto » ironizzò appena
senza nascondere il tono seccato alla John, quello che usava quando Sherlock
cominciava ad annoiarsi e lo sommergeva di “mi annoio” e “fai qualcosa”.
Un
piccolo segno di famigliarità che fece arricciare le labbra di Sherlock.
Forse
fu per quello, che non se ne accorse. « Cos’è, hanno paura che ti butti di sotto?
» ironizzò
pesantemente.
Quando
si rese conto della frase che aveva appena pronunciato era ormai troppo tardi.
John
era sobbalzato a sentire quelle parole, e lo aveva fissato con occhi prima
spaventati, poi carichi di rabbia. Sherlock lo osservò a sua volta ma, come al
solito, le parole per chiedere scusa non gli uscirono dalla bocca, bloccate in
gola inespresse e a malapena formulate.
« Vaffanculo » soffiò John con disprezzo, alzandosi e scendendo in
fretta le scale, sparendo dalla sua vista.
Holmes,
dal canto suo, non tentò nemmeno di fermarlo.
La
seconda volta, quasi una settimana dopo, fu di morfina.
Stessa
quantità, effetto opposto. Non dormiva da quattro notti, novantasei ore, la
maggior parte delle quali passate a leggere – per la seconda volta – manuali di
trattamento psichiatrico.
Il
salotto era stipato di volumi che mrs. Hudson non
spostava solo per compassione. Il tavolino da caffè era praticamente scomparso,
il divano liberato da fogli ed appunti solo saltuariamente, il pavimento invaso
di linee e linee di scrittura scombinata, sottile e fitta.
Solo
la poltrona di John, intatta, resisteva a quella furia di parole e concetti.
Ogni
tanto veniva chiamato da Lestrade, ma la maggior parte delle volte diceva di
no, senza nemmeno pensarci su. Mycroft provava a
parlargli un giorno sì ed uno no ma Sherlock era diventato bravissimo ad
escludere la sua voce, dunque a non sentirla nemmeno. Mrs. Hudson era l’unica,
la sola che riusciva a farlo alzare, a mandarlo in doccia con la minaccia di
prenderlo a calci e a fargli mangiare qualcosa, ma lei era anche la prima ad
essere spaventata da quel nuovo Sherlock, tornato dal regno dei morti solo per
rimanere invischiato in un limbo d’espiazione.
E
probabilmente mrs. Hudson aveva anche capito, ma non diceva niente.
Meglio
così.
Come
sempre, non gli fu necessario il laccio emostatico. L’ago centrò la vena con la
facilità dell’abitudine e, dopo poco, la morfina cominciò a fare effetto.
Intontito,
si diresse a passo lento e strascicato verso la camera al piano di sopra, la
manica sinistra della camicia ancora arrotolata al di sopra del gomito. Ci mise
un paio di minuti prima di centrare la serratura con la chiave, ma quando vi riuscì
aprì piano la porta, fermandosi sulla soglia.
L’unica
parola che avrebbe definito perfettamente quello spettacolo era il termine
“desolante”.
Nessuno
metteva piede in quella camera da tre anni dato che odorava di stantio, un
odore pungente che gli ferì le narici ma a cui non badò. L’armadio, la
cassettiera ed il comodino erano ricoperti con teli di nylon semi-trasparenti.
Il materasso era nudo, sul letto – le lenzuola erano state rimosse e il cuscino
riposto nell’armadio. I vetri della finestra, sporchi ed opachi, erano senza
tende.
La
camera di un’assenza. Una stanza che difficilmente sarebbe tornata come prima –
lenzuola bianche, una coperta di un giallo imbarazzante (regalo di Harry),
cassetti in ordine pieni di maglioni, ante d’armadio lasciate aperte su abiti
insacchettati ma freschi di lavanderia, un comodino con sopra una lampada ed un
libro letto a metà con le pieghe agli angoli delle pagine, il lieve odore di
sapone e dopobarba (tracce della sua presenza).
Sherlock
chiuse gli occhi con un mugolio confuso, affrontando i tre passi che lo
dividevano dal letto senza nemmeno riaprirli per vedere dove mettesse i piedi.
Una volta che i suoi stinchi urtarono la parte bassa e legnosa
dell’intelaiatura, si lasciò andare con le ginocchia sul materasso e ci si
stese, girandosi su un fianco.
Nell’aria,
solo dolore e polvere.
Luglio.
Giornata
piovosa. Il taxi lo aveva lasciato praticamente davanti all’ingresso, ma anche
solo camminare lungo i due metri che separavano il veicolo dal portone gli
aveva incollato alcuni capelli alla fronte. Gocce di pioggia erano scivolate
piano nel colletto della giacca, bagnando quello della camicia bianca, ancora
umido.
Classico
tempo inglese.
Quando
Sherlock non trovò John nella sala comune dell’ospedale, non chiese nemmeno
indicazioni all’infermiere di guardia. Si diresse direttamente alle scale e,
come se non si fosse spostato mai di lì, lo ritrovò seduto sull’ultimo gradino
intendo a leggere Proust.
Aveva
cominciato il quinto libro, notò.
Quando
arrivò davanti a lui, rimanendo alcuni gradini più in basso, John si voltò a
guardarlo con un’espressione seria. « Dove sei stato per tutto il giorno? » domandò.
Faceva ancora
male, a volte, nonostante tutto.
Ci
mise poco tempo, Sherlock, a pensare ad una possibile soluzione. Quando la
trovò, pregò che funzionasse.
« Un caso » disse
semplicemente.
John
lo osservò per qualche istante. Un tempo lunghissimo, dalla prospettiva di
Holmes. Ma finalmente si rilassò: « quello sul giornale? » domandò, tornando
al libro (senza leggerlo davvero, gli occhi non si muovevano: fissava solamente
le parole, in attesa di una sua risposta, attento alla conversazione).
Sherlock
annuì con un cenno del capo. Harris gli lasciava leggere anche il giornale?
Evidente. John era veramente il paziente più coccolato, se aveva il permesso di
girovagare per l’ospedale ed il suo psicanalista gli prestava libri e
quotidiani da leggere.
« E cosa ne pensi? » domandò poi,
senza distogliere gli occhi dal libro.
Si
chiese se non fosse una messa alla prova. Una sorta di test. John stava
architettando qualcosa? E come? Perché? Aveva per caso cominciato a nutrire
qualche dubbio? Avrebbe dovuto avvertire Harris?
No,
non c’era traccia di agitazione o ansia, nel volto di John. Aveva, piuttosto,
lo stesso atteggiamento di quando Sherlock faceva qualcosa di non molto buono e
John voleva che ci arrivasse da solo. Cercava di impartirgli una delle sue
lezioni. Ma perché? E per cosa?
Decise
per il suo bene – e nell’interesse di avere abbastanza dati per poter sostenere
una conversazione senza scoprire le sue carte – di chiedere delucidazioni
all’unica persona che poteva fornirgliene.
« Cosa c’è, John? » domandò, rivoltando
a suo vantaggio la situazione.
L’altro
chiuse il libro in un botto, piantandogli addosso uno sguardo a dir poco
seccato. « Due giorni, Sherlock!
» esclamò: « sono due giorni
che ti fai vedere solo la sera. Non ci sei per tutto il maledetto giorno. Si
può sapere dove accidenti vai? » aggiunse, il tono mantenuto basso ma duro, da
soldato.
Nuove
informazioni: l’allucinazione di John stava cominciando ad essere più
altalenante, certe volte spariva anche per giorni interi. Motivo? Motivo:
ignoto. Supposizioni: comincia a capire qualcosa; ha dei dubbi; incertezze;
qualcosa gli provoca disagio; ha deciso di seguire una delle terapie
medicinali.
Sguardo
veloce alla sua condizione fisica: niente pupille dilatate, niente sudorazione,
niente segni di assunzione di antipsicotici. L’ultima possibilità – la più
scientifica – era da escludere.
Optò
per la strada più pericolosa.
« Io sono una tua
creazione, John » disse, calmo,
ancora in piedi poco più in basso di lui: « sai benissimo che non sono io a non
essere presente, sei tu a non volermi. Mi stai escludendo ».
John
negò con il capo. « Non potrei mai,
lo sai » disse.
« Eppure non c’è
altra spiegazione » insisté Sherlock.
Watson
evitò di guardarlo negli occhi, fissando lo sguardo sulla ringhiera. Strinse le
labbra in un pensiero profondo, sgradevole, prima di sospirare.
« Hai ragione » ammise poi: « è che a volte...
non lo so, a volte mi farebbe piacere parlare con l’altro Sherlock, ma lui
non... » borbottò.
Sherlock
serrò i denti dietro le labbra chiuse. “L’altro” Sherlock? In che senso
“l’altro”?
Rapida
successione di idee, individuazione delle teorie più accreditate, segmenti
logici dispersi nella pazzia.
John
immagina un mondo in cui lui è vivo, ma è pienamente cosciente che sia tutta
una sua illusione. Tanto che scambia anche lui, lo Sherlock reale, per
l’allucinazione che lo accompagna.
Ma
era cambiato qualcosa. Cosa?
Lui.
Era cambiato lui.
Per
quanto potesse provarci, non era dentro la mente di John. Poteva immaginare
come funzionasse, vero, ma non nei minimi dettagli, non tanto quanto necessario
perché recitasse in modo perfetto la parte dello Sherlock Holmes che John
Watson aveva creato per se stesso. O in modo sufficientemente convincente per
ingannarlo. Da qui il problema.
Oh,
John era intuitivo, più di quanto aveva pensato potesse essere. Aveva notato
che qualcosa non andava in lui (nello Sherlock reale). Alcune differenze, forse
poche, ma fondamentali. Aveva dubitato di lui. Lo aveva “riconosciuto” come
qualcosa di estraneo, come l’organismo umano fa con i virus, o con i batteri.
Ma
l’idea che lui avesse davvero finto la sua morte, e che dunque fosse
semplicemente vivo, doveva essere
troppo forte, troppo distruttiva, per John. Perché John, semplicemente, aveva
preferito credere che la sua mente avesse costruito un’altra bugia.
Che
adesso ci fossero due Sherlock Holmes, entrambi falsi.
« Non importa » disse poi Watson,
tornando a guardarlo con un lieve sorriso sulle labbra – la maschera che ormai
aveva preso il posto del vero volto di John Watson. « Non importa.
Prima, con Sherlock, le attese erano molto più lunghe... scusa se ti sono
sembrato impaziente. Non sono più molto bravo, ad attendere » spiegò,
nascondendo sotto al sorriso una dolorosa tristezza.
Di
nuovo alla terza persona. Di nuovo parlava di lui come se fosse una cosa
appartenente al passato e nel passato rinchiusa. Due falsi Sherlock Holmes ed
uno vero che non ha possibilità di esistere ancora.
Labirintica,
codarda mente, John.
Un
contraccolpo più doloroso del dovuto, John.
×
Quando
si separò da lui, scendendo le scale a ritmo sostenuto e cadenzato, invece di
girare verso gli ascensori percorse il corridoio in direzione della sala
comune. Individuò l’infermiere nella sua stanza con i vetri trasparenti e,
bussando alla porta chiusa a chiave, gli disse dove si trovasse John e che
probabilmente era fin troppo freddo, sulle scale, per i vestiti leggeri che
indossava.
L’infermiere,
ringraziandolo, si alzò e si diresse velocemente verso le scale. Lasciò la
porta aperta.
Sherlock
osservò attentamente cosa stesse facendo l’altra infermiera di turno, impegnata
a parlare con una paziente dall’altro lato della sala, e senza farsi vedere
sgattaiolò velocemente all’interno della guardiola. Trovare le chiavi della
porta che dava sul tetto fu una passeggiata, considerato che erano state tutte
opportunamente agganciate a delle targhette che indicavano esattamente quale
chiave apriva quale porta.
Afferrò
quella con su scritto “rooftop” e se la infilò in
tasca. Facendo attenzione che l’infermiera non lo avesse notato, si diresse a
passo svelto verso gli ascensori.
Gregory
Lestrade era una persona paziente.
Ogni
mattina, quando si alzava e si dirigeva in bagno per sbarbarsi, si guardava
allo specchio e si ripeteva di essere una persona in pace con l’universo. Una
sorta di auto-convincimento.
Non
funzionava sempre, ma almeno gli evitava di andare in ufficio spazientito e
deluso dalla sua vita “tutta lavoro e niente famiglia”. O meglio, diciamo che
la sua famiglia aveva ottenuto il divorzio consensuale ed ora conviveva con un
insegnante di ginnastica, il che rendeva il tutto ancora più squallido e lui
bisognoso di auto-convincersi.
Sì,
Lestrade era una persona paziente. Doveva sopportare superiori ed inferiori di
grado, compilare rapporti infiniti, consultare medici legali e una svariata
quantità di specialisti in materie forensi, compilare altri rapporti e stare in
ufficio oltre l’orario di lavoro (a volte anche oltre l’orario consentito).
Molte
persone riuscivano a farlo arrabbiare, certe volte anche infuriare, ma non
aveva mai perso la pazienza. La parole grosse erano frequenti a Scotland Yard –
nessuno pretendeva che i Detective Inspector fossero
parenti di Gesù Cristo – ma lui poteva ritenersi orgogliosamente qualcuno che
non era mai passato alle mani.
L’unica
persona a detenere il primato per averlo mandato completamente fuori di testa,
una volta sola e molto tempo prima, era Sherlock Holmes.
Per
questo, quando quel giorno si trovò costretto a fermarsi con Anderson al 221B
di Baker Street, era nel pieno della sua modalità “Raggiungimento del Nirvana”.
Auto-convincimento.
Salutarono
velocemente mrs. Hudson che era venuta ad aprire loro
la porta, salendo le scale a passo svelto. Lestrade aveva provato a chiamare
Sherlock almeno quattro volte, ma davanti ad una sua mancata risposta era stato
costretto a presentarsi di persona; era maledettamente bloccato con le indagini
ed era anche una persona in grado di riconoscere quando gli serviva aiuto
(nonostante Anderson fosse, comunque, sempre in disaccordo sul chiedere
quell’aiuto ad Holmes).
Entrarono
nell’appartamento al primo piano senza aspettare l’effettiva risposta
dell’inquilino, e appena misero piede in salotto si immobilizzarono,
accigliati.
Libri.
Montagne di libri. Cataste di libri. Greg ne lesse qualche titolo: tutti di
Psichiatria e Psicologia. E foglietti. E appunti. Tazze mai lavate. Confusione,
caos. A fatica si potevano riconoscere i mobili del salotto di Baker Street e
se non fosse stato in quell’appartamento altre volte, probabilmente avrebbe
faticato anche a riconoscerne l’effettiva disposizione.
Distolse
lo sguardo dalla poltrona di John, quando vi cadde, concentrandosi sul motivo
della visita. « Sherlock? » chiamò, alzando
la voce.
Nessuna
risposta.
« È difficile dire
chi sia il più pazzo dei due » commentò Anderson al suo fianco, gli occhi ancora
fissi sui frontespizi dei libri.
Lestrade
lo fulminò con lo sguardo. Anderson tacque.
« Sherlock!? » chiamò di nuovo
l’ispettore, alzando la voce.
Finalmente,
dalla cucina, si sentì una sedia spostarsi e la testa riccioluta di Sherlock
comparve dalla porta. « Cosa c’è? » sibilò,
probabilmente seccato a causa dell’interruzione di un qualche suo lavoro.
Bastò
uno sguardo, a Lestrade, per capire davvero
il perché di molte cose.
Holmes
era pallido (più del solito), palesemente stanco ed emaciato. Persino gli
occhi, sempre pungenti e sicuri di sé, avevano qualcosa di spettrale, quasi
soprannaturale, in quel loro osservare senza realmente vedere. Non disse nulla
quando vide Anderson fargli un saluto pesantemente ironico, e questo più che
altro suggerì a Lestrade che c’era qualcosa di sbagliato, in quella visione.
Poi,
il particolare. L’ago nel pagliaio che era la soluzione di ogni mistero.
Sherlock aveva le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti e, anche se
coprivano abbastanza bene le vene del braccio, non lo facevano abbastanza per
gli occhi di uno che aveva lavorato alla Narcotici.
« Anderson,
aspettami in macchina » disse Greg, voce
profonda, senza nemmeno voltarsi verso l’altro. Il poliziotto, guardandolo
stranito, semplicemente annuì e scese al piano inferiore.
Furono
esattamente due i minuti in cui si guardarono sapendo esattamente, entrambi,
cos’avrebbe detto l’altro. Dopotutto era un copione già recitato una volta e
ripetuto molte altre, che entrambi avevano creduto di avere chiuso a chiave in
soffitta a prendere polvere.
A
quanto pare, non era così.
Greg
evitò perciò ogni parola e si avvicinò a passo cadenzato verso Sherlock, che
non si mosse, occhi fissi su quelli dello yarder,
sostenendo un orgoglio che in ogni caso rimaneva testardamente intatto e
magnificente.
Prese
in uno scatto il polso sinistro di Sherlock, facendogli distendere il braccio,
e gli sollevò la manica arrotolata della camicia fino a scoprire la pelle
candida puntellata di segni rossi e piccolissimi ematomi rotondi.
Inconfondibili.
« Quando hai
ricominciato? » domandò, voce
dura.
Sherlock non rispose, limitandosi a guardarlo (facendogli
capire che non era mansueto: quel gesto glielo stava semplicemente permettendo,
in nome di cosa non lo sapeva).
« Rispondimi » incalzò Greg.
Fu
allora che Holmes strattonò la mano, liberandosi dalla presa del Detective Inspector. « Non ti riguarda » sentenziò, tornando in cucina.
Greg
lo seguì. « Sherlock, mi
avevi promesso che– ».
« Non ti avevo promesso niente, Lestrade » lo interruppe il
detective, girandosi nuovamente verso di lui mentre sottolineava con la voce il
verbo: « tu mi volevi
estromettere dal tuo lavoro, io ho agito di conseguenza. Logico. All’epoca era
l’unica cosa che avevo e che potevo fare » disse.
« Lo farò anche
adesso, se necessario » tentò Greg.
« Adesso non è
l’unica cosa che ho » ribatté Holmes.
« Ma è l’unica che
potresti avere se ti continui con questo atteggiamento! » sbottò finalmente
Lestrade, lasciando libera la bestia rabbiosa che aveva sentito nascere dentro
di sé negli ultimi cinque minuti: « pensi che il tuo lavoro di detective
privato potrebbe continuare se i tuoi clienti sapessero che ti buchi?! » domandò,
sconcertato.
Sherlock
soffiò dalle labbra l’ombra di una risatina ironica. « Non lo sapranno » disse, supponente
e con aria di sufficienza.
« Come fai a dirlo?
» lo sfidò Lestrade.
« A loro basta che
il lavoro sia fatto bene, e sei pienamente consapevole del fatto che quando ho
un caso raramente mi concedo a vizi di tal genere » rispose, pronto,
Sherlock.
Aveva
ragione e ormai Greg stava per terminare le argomentazioni d’accusa. Aveva un
asso nella manica, ma era troppo squallido, ed ingiusto, usarlo.
Lo
osservò di nuovo. La miseria che si nascondeva sotto quegli occhi sprezzanti,
talmente azzurri da sembrare quasi trasparenti. E decise.
A
mali estremi...
« John non ne
sarebbe contento ».
Vide
le sue spalle irrigidirsi, le labbra chiudersi in un moto di stizza, o
sorpresa, o fastidio. Tutti, non solo lui, erano consapevoli di quale fosse il
vero motivo per cui Sherlock aveva cominciato a ricadere nel circolo vizioso di
autodistruzione così famigliare nella sua adolescenza e gioventù, ma solo
alcuni erano in grado di riconoscerlo sotto quei metri e metri d’orgoglio e
maestria che il giovane Holmes usava come muro da interporre fra sé e gli
altri.
Gregory
Lestrade, la persona che quando dovette decidere se sbatterlo in galera per
possesso di sostanze stupefacenti e dargli una seconda possibilità aveva scelto
la seconda opzione, era una di quelle (poche) persone.
Sospirò,
ritrovando la calma perduta. « Ascolta, posso capire come ti senti. Ma non è la
soluzione giusta. Non è mai la
soluzione giusta. Te ne pentirai, in futuro, e non sarò io quello al tuo fianco
quando lo farai » gli disse.
Sherlock
scostò gli occhi sulla parete della cucina. « Non ci sarà nessuno » disse.
« Cosa? ».
« Non ci sarà
nessuno » ripeté.
Greg
negò con il capo. « No, no... ci sarà
qualcuno. Ci sarà John. Andrà– »
« “Tutto bene”? » lo interruppe
Sherlock, tornando a guardarlo. « Come? » domandò poi. Una richiesta semplice per
una risposta semplice.
Risposta
che Greg non aveva.
Il
silenzio durò qualche istante, prima che Lestrade riprendesse parola: « Sherlock... ti prego » implorò, praticamente messo in
ginocchio: « stai crollando, è
inutile negarlo. Ho già visto cadere John, non posso restare a guardare anche
con te » disse, facendola
suonare come una rivelazione.
Sherlock
non fece una piega.
« Non puoi
impedirmelo » disse
semplicemente.
Ancora
luglio.
Quando
Sherlock entrò in clinica, quel giorno, ad aspettarlo c’era il dottor Harris.
Gli bastò guardarlo in faccia – labbra assottigliate, occhi rossi, capelli
arruffati, camice sgualcito, espressione tesa – per capire che qualcosa non
andava.
« Cosa gli è
successo? » domandò subito,
impossibilitato ad immaginare altri motivi per cui Harris avesse voluto parlare
con lui se non per qualcosa che riguardava John.
Ignorò
il battito doloroso e pungente che il suo cuore aveva dato per protesta.
Ma
Harris ignorò la sua domanda. « Mi sa dire perché il tetto, signor Holmes? » domandò.
Sherlock
alzò il mento, aggrottando le sopracciglia.
Lo
psichiatra si scontrò con il muro del suo silenzio, ma probabilmente capì dal
suo sguardo che lo ascoltava (e con un certo interesse), così prese a
spiegargli: « per noi non è mai
stato un problema che John si rifugiasse sulle scale da solo, dopotutto è
sempre stato un paziente modello. Ma questa notte, quando la guardia ha fatto
il giro, John non era in camera. Lo abbiamo cercato ovunque finché non lo
abbiamo trovato sulla rampa di scale accanto alla porta di accesso al tetto » disse.
Ma
era palese che non avesse ancora concluso.
Sospirò.
« Si è massacrato
le dita delle mani cercando di aprire la porta con le unghie » continuò, per la
prima volta completamente stranito da ciò che stava pronunciando: « sulla porta
c’erano i segni lasciati dal suo sangue. Siamo dovuti intervenire in cinque. Ha
steso due dei nostri infermieri a suon di pugni. Abbiamo dovuto sedarlo per
trasportarlo in infermeria e farlo medicare » disse, guardandolo diritto negli occhi.
Sherlock
non ebbe apparenti reazioni, ma non appena aveva cercato di immaginare la scena
nella sua mente un groppo gli si era formato in gola e minacciava di farlo
smettere di respirare. Poteva quasi vedere John trattenuto da due addetti in
divisa bianca agitarsi e rifiutarsi di eseguire i loro ordini travestiti da
consigli amichevoli, spezzarsi dolorosamente le unghie cercando di aprire una
porta chiusa a chiave con la forza di chissà quale miracolo – o di chissà quale
disperazione.
Perché? Si domandò. Era
una domanda che anche Harris si stava ponendo, ne era sicuro – riusciva quasi a
sentirlo pensare, macchinare, domandarsi cose: noioso, patetico.
« Signor Holmes,
glielo devo chiedere... » continuò lo
psichiatra, massaggiandosi il collo con la mano: « ha fatto qualcosa per provocare in
lui qualche cambiamento? Gli ha detto la verità, o ha tentato di fargliela
capire, per caso? » chiese.
Sherlock
ripassò mentalmente gli ultimi discorsi, gli ultimi accenni, le ultime parole.
Quelle che facevano male, che gli facevano venire voglia di chiudere a chiave
quell’ala della sua mente per non rientrarci, che gli facevano venire voglia di
fuggire.
Negò
con il capo.
Harris
sospirò di nuovo. « Questo è un
peggioramento. Non posso lasciare che un tale episodio si manifesti di nuovo, e
secondo le regole di questa struttura non posso più considerare John un
paziente innocuo. Dovrò passare alla somministrazione di antipsicotici tramite il
cibo » disse.
Sherlock
lo congelò con lo sguardo. « No » ordinò.
Harris
sobbalzò allo sguardo diretto, ma lo ammortizzò con classe, fronteggiandolo. « Lei non è né un
parente né il suo medico curante, non può prendere questo genere di decisioni » gli recitò.
« So cosa vuole » lo interruppe
però Sherlock.
« Cosa? » gli domandò
Harris.
Holmes
si rifiutò di ripetere.
Rimasero
a guardarsi, entrambi guardinghi, all’erta. « Ho le mani legate, signor Holmes... »
« So cosa vuole il
dottor Watson, dottor Harris » ripeté allora Sherlock. La mano, all’interno della
tasca della sua giacca, si strinse intorno al metallo della chiave rubata dalla
guardiola.
Non
gli avrebbe detto di più , ed Harris ne era fastidiosamente consapevole. Lo
fissò per altri minuti, palesemente indeciso sul da farsi. Poi, constatando che
Sherlock non distoglieva lo sguardo così come non aveva intenzione di ritirare
quella richiesta fra le righe, annuì rassegnato.
« Camera 21 » gli disse il
medico, indicando con il mento il corridoio dall’altro lato dell’ascensore: « è ancora
pesantemente sedato, potrebbe non svegliarsi nemmeno. L’effetto è temporaneo,
comunque, domani starà meglio » gli spiegò.
Non
disse nulla quando Sherlock, con un semplice cenno del capo, si congedò in
silenzio e si diresse a passo cadenzato verso la stanza 21.
×
John
era steso sul letto, addormentato, in posizione fetale sul lato sinistro.
Era
un sonno senza sogni quello provocato dai medicinali, dunque l’espressione era
fra le più rilassate che gli avesse mai visto. La bocca socchiusa sfiorava il
cotone del cuscino, così come le ciglia bionde del suo occhio mancino.
Le
mani, tenute piegate di fianco al petto, sulla coperta, erano fasciate dito per
dito e un odore di disinfettante e pomata permaneva, statico, nell’aria. Da una
finestra subito sopra il letto singolo, la luce del sole estivo si posava sul
copriletto sottile che gli copriva le gambe fino alla vita.
In
piedi di fianco alla porta, Sherlock non poté fare altro che rimanere in piedi
e guardarlo dormire.
C’era
qualcosa che gli pizzicava la nuca. Un pensiero che si era infiltrato sotto la
sua pelle e aveva cominciato a ronzare, a pungere, a fare rumore, ma lui lo
aveva ignorato. Un pensiero che sapeva di consapevolezza, perché lui capiva
tutto e lo capiva subito, e con John non faceva eccezione (non in quel
frangente).
Ma
era troppo complicato, pensarci. Confuso. Faceva male, pensare che John lo
volesse davvero. Nauseante. Sbagliato. Un errore, perché John non era così, non poteva farlo, non avrebbe
nemmeno potuto pensarci, il suo John.
Ma
si rese conto, in quella camera inondata di luce e respiri cadenzati di un uomo
dormiente, che così come John non riconosceva più lui anche lui non riconosceva
più John.
Per
la seconda volta nella sua vita, aveva paura.
Ma
era un timore più viscerale, più esposto e al contempo celato, nascosto alla luce
del sole; profondo, potente, radicale.
Sherlock
Holmes aveva paura di un pensiero.
Razionale, empirico, conclamato. Lo conosceva così come un padre conosce il
figlio. Lo aveva creato, progettato, formato con schegge d’informazione,
rantoli d’idea, fotografie d’osservazioni ed era stato facile, dato il
soggetto, perché sapeva dove guardare – lo
aveva sempre saputo.
Quel
pensiero aveva gli occhi rossi della bestia nera di Baskerville
e lo rincorreva fra i corridoi e le guglie del suo palazzo mentale, pronto a
sbranarlo. E lui, Sherlock, non aveva potuto far altro che correre.
Ma
in quella stanza era ormai arrivato al capolinea. Sentiva l’ultimo frammento di
energia abbandonarlo, la corsa affievolirsi e la sua fuga interiore fallire
miseramente.
La
bestia si stava avvicinando con grandi falcate, sussurrando il suo nome nella
luce.
Chiuse
gli occhi, scacciando via dal cervello quel pensiero. Non voleva affrontarlo.
Sapeva, ma non voleva ammetterlo. Non ancora. Mai.
(Avrebbe
trovato un modo, lo faceva sempre, era solo un enigma, doveva risolverlo,
doveva allineare le equazioni, controllare i risultati, provare e riprovare e
riprovare ancora finché non sarebbe cambiato qualcosa, finché non avesse
trovato il modo di combattere la bestia ad armi pari, finché...)
« Sher... lock? ».
La
voce impastata di John gli fece riaprire di scatto gli occhi, cancellando qualsiasi
altra cosa.
Lo
osservò, immobile, dalla porta.
Fermo
nella stessa posizione ma con gli occhi socchiusi, le palpebre pesanti, una
smorfia di dolore all’angolo delle labbra – sicuramente a causa delle dita
ferite. La palese espressione di chi si trova in un dormiveglia dal quale si
vuole svegliare ma non c’è verso, perché il sonno è troppo potente (e
farmaco-indotto).
Annuì
in sua direzione. Lo vide sorridere.
Gli si strinse il
cuore senza che potesse evitarselo.
« Sei vivo? » domandò allora
Watson.
E
il cuore di Sherlock venne strozzato dal suo stesso respiro.
Sgranò
gli occhi, le labbra serrate, completamente disperso nell’intricato labirinto
di considerazioni e logica, di possibilità e probabilità, di conseguenze da
affrontare ad ogni parola sbagliata; lo stesso labirinto in cui vagava da mesi
alla ricerca della strada giusta che non terminasse in un vicolo cieco,
dimentico del filo d’Arianna necessario a ritrovare l’uscita, perso chissà dove
e chissà quando.
La
Verità come suo Minotauro.
John
gli sorrise ancora, fievolmente; un sorriso stanco, forzato, strappato al
sonno. « Mi piacerebbe che
tu fossi vivo... » borbottò,
intontito.
« Se ti dicessi che
lo sono? » rispose Sherlock,
cercando dentro di lui una calma che sapeva di avere ma non per quanto sarebbe
rimasta. Aspettativa. Speranza (assopita e poi risvegliata bruscamente).
John
sospirò, chiudendo gli occhi qualche istante di troppo e forzandosi a
riaprirli: « ti ucciderei » gli disse poi.
« Lo accetterei » ribatté
velocemente Sherlock.
« Io no » continuò John,
cercando di alzarsi per mettersi seduto, ma non appena le mani fecero presa sul
materasso il dolore gli impedì di fare qualsiasi movimento. « Mi gira la
testa... » si lamentò
invece, osservando confuso le proprie dita fasciate.
Holmes
non era capace di muoversi. Inchiodato a qualche metro di distanza dal letto,
catturato fra due realtà che rifiutava con tutto se stesso e alla continua
ricerca della terza (sempre più impossibile e distante).
John
lo guardò ancora, gli sorrise ancora.
Basta.
« È un sogno, vero?
».
Basta, John.
« Non può essere
altro che un sogno ».
Basta, John, ti
prego. Basta.
« È un sogno,
Sherlock? » domandò l’uomo
con gli occhi socchiusi, imploranti per una risposta affermativa.
Sherlock
annuì, ingoiando tutto il suo coraggio, per assimilarlo. Come una pillola.
« Sì, John. È un
sogno » gli disse,
sentendo qualcosa a cui non sapeva dare un nome espandersi nel suo petto,
rimbalzare contro lo sterno e le costole, sedimentarsi sul diaframma.
Caldo,
con un retrogusto di rassegnazione e delusione.
Watson
sospirò, girandosi sulla schiena e appoggiandosi le mani sul viso. Non appena
sentì il tessuto ruvido delle medicazioni, però, riaprì gli occhi e sollevò le
mani in aria per guardarsele meglio, accigliato.
« Ti ricordi come
te lo sei fatto? » domandò Sherlock.
John
annuì, appoggiandosele cautamente sul petto.
« Cosa volevi fare,
John? » chiese il
detective, la voce profonda.
Il
medico sorrise, ironico. « Ricordarti sta
diventando difficile, Sherlock » cominciò: « è l’unica cosa vera che mi rimane, e non riesco più a farlo. Ho sempre... loro, quei Sherlock falsi al mio fianco,
e nonostante siano simili a te non sono te.
Sono ombre, imitazioni, e sono la cosa più accurata che sono riuscito a
costruire. Io li voglio esattamente lì dove sono, Sherlock, al mio fianco... ma
a volte scompaiono, a volte c’è qualcosa... sono io, in realtà, perché loro non
sono te, e io lo so, non posso fare finta di niente. Ma loro non suonano il
violino, non inseguono criminali, non parlano di nuovi casi, non... fanno
quelle cose che rendono Sherlock Holmes il più brillante consulting detective
del mondo. Non possono, semplicemente. E io continuo a vederne tanti, tanti...
sui riflessi dei vetri, negli specchi, che mi dicono cose bellissime ma false.
È tutto confuso ed io... io... » la sua voce si incrinò, mentre si copriva gli occhi
con gli avambracci.
Sherlock
ebbe la tentazione di fare un passo in avanti, di allungare una mano. Di
provare a rassicurarlo. Ma non riusciva a fare le prime e non aveva la minima
idea di come fare la terza, così semplicemente non disse niente e rimase
immobile, a guardare, a sentire qualcosa (distante, vicino, dentro?) incrinarsi e rompersi.
John
riprese a parlare prima che Sherlock ne trovasse il coraggio.
« Non distinguo più
niente, Sherlock... non so più qual’é la realtà. Mi sfugge dalle dita ogni
volta che credo di averla ritrovata perché non mi ricordo i tuoi occhi, o i
tuoi capelli, o le tue mani mentre suonavi il violino, o pulivi l’archetto, o
la tua voce, anche la tua voce... me le ero impresse nella memoria per avere
dei punti di riferimento, ma ora siete così in tanti... sono così in tanti... non so più dove sbattere la testa! » esclamò, stringendo
i pugni sopra i propri occhi, il viso sotto di essi incrinato in una smorfia di
dolore causato dal gesto stesso.
Ancora
una volta, l’istinto di avvicinarsi. Di sfiorargli le mani. Di prendergli
gentilmente i polsi per impedirgli di farsi del male.
Ancora
una volta non lo seguì, incapace di farlo – così
diverso da quando ti prende la mano tenendola stretta, senza nemmeno
riconoscerti davvero.
Quanto
può resistere la mente di un uomo sull’orlo della pazzia?
Quanto
può durare senza discernere realtà da immaginazione?
Come
ci si può sentire nel fare un sogno, pensare di riuscire a svegliarsi ed invece
ritrovarsi ancora nello stesso sogno, reame onirico senza fine, mai logico, mai
razionale?
Sherlock
non l’aveva provato di persona, ma gli effetti di quella situazione erano
visibili e stavano distruggendo l’unica persona di cui gli fosse mai importato
veramente qualcosa.
E
lui era semplicemente lì, fermo, a lasciarlo fare.
Finalmente
prese la sua decisione. Coprì in due falcate la distanza fra lui e John,
posando le sue mani su quelle fasciate dell’altro, tirandole delicatamente via
dal volto (come quando maneggiava un vetrino, o un composto chimico
particolarmente sensibile).
John
aprì su di lui un paio d’occhi sfiniti che lui, chinato com’era sopra l’altro,
poté osservare nella loro completezza.
« John, non farlo » gli disse,
guardandolo dritto negli occhi.
L’altro
deglutì, scuotendo il capo.
« Non farlo » ripeté ancora, ma
John sembrava irremovibile dalla sua decisione.
Chiuse
gli occhi, Sherlock. Sospirò. Cercò la calma. Riaprì gli occhi. « Non voglio che tu
lo faccia » gli disse.
John
gli sorrise. « Nemmeno io lo
avrei voluto per te... » mormorò, prima di
cedere al sonno che aveva finalmente avuto la meglio sulla sua volontà.
×
Tutto
il tragitto di ritorno – il corridoio, l’ascensore, l’atrio, il vialetto – fu
per Sherlock come camminare in una vasca piena d’acqua, in cui tutti i rumori
arrivano ovattati e distanti, troppo lontani per avere anche solo la minima
idea di cosa li provochi o di cosa effettivamente siano.
Le
mani nelle tasche della giacca nera erano strette in due pugni chiusi, le
unghie premute contro la carne dei palmi. Solo la destra stringeva
convulsamente la chiave rubata, imprimendosene le fattezze sulla pelle.
Dietro
di lui il mastino soffiava furente dalle narici, mormorando parole sconnesse di
eco ancora lontane.
Era
suo.
Era
scappato verso i Docklands ma non aveva scampo: era
suo.
Sherlock
perlustrò mentalmente la sua mappa mentale di Londra, tagliandi agilmente per
sudici vicoli e scavalcando cancellate in rete che non avrebbe tenuto vincolato
nemmeno un cane.
Sentiva
in lontananza le sirene delle pattuglie di Lestrade che aveva agilmente
seminato, così come aveva fatto il suo inseguito, ora di qualche passo avanti a
lui lanciato in una corsa infernale basata tutta su resistenza e velocità. Ed
era notevole, Sherlock dovette ammetterlo: lo inseguiva a piedi da talmente
tanto che si sentiva la camicia attaccata alla schiena a causa del sudore e
sottili gocce scivolargli giù dalla tempia e lungo il collo. Cominciava a
rimanere a corto di fiato ma, considerando l’andatura altalenante del
fuggitivo, probabilmente anche lui stava risentendo della stanchezza. Mancava
poco.
Era
suo.
Lestrade
si era fatto più pressante, da quando aveva scoperto la sua ricaduta nelle
vecchie abitudini. Aveva ovviamente detto tutto a Mycroft,
che si era fatto consegnare cocaina e morfina e che, ovviamente, aveva preso a
tenerlo d’occhio con ogni metodo possibile. E in questi metodi rientrava anche
Gregory Lestrade.
Tuttavia
proprio quest’ultimo era riuscito ad avere sotto mano un caso interessante,
risolto in due giorni di accurate indagini di laboratorio e sulla via della
conclusione in quello stesso momento, con una folle corsa lungo i docklands un mercoledì notte di inizio agosto.
Corsa
che si concluse nel momento in cui il pluriomicida stupratore, alto un buon
metro e ottantacinque e dalla corporatura robusta ma agile, si girò verso di
lui con il fiato corto ed i capelli corti attaccati alla fronte a causa del
sudore.
Sherlock,
a sua volta, di fermò ad una decisa di passi di distanza, in attesa.
« Ho sentito
parlare di te! » urlò quello, la
voce alta per far sì che lo sentisse bene – non era propriamente necessaria
tanta premura. « Sherlock Holmes,
l’investigatore privato risorto dalla tomba » lo sfotté.
« Consulting
detective » lo corresse
automaticamente Holmes, masticando con astio le parole.
Non
lo apprezzava particolarmente, ma se parlava era meglio. Così Lestrade avrebbe
avuto il tempo che puntualmente sprecava schierando le truppe a... beh,
schierare le truppe.
Ma
il criminale sogghignò e Sherlock gli lesse negli occhi che sarebbe stato un
brutto quarto d’ora.
« Ho sentito storie
anche sul tuo “amico”... » disse quello,
mimando le virgolette con le dita quando pronunciò l’ultima parola: « dicono tutti che
ne è uscito pazzo, per questo ti si vede poco in giro, ultimamente. Com’è
scoparsi uno psicotico? » domandò, la voce
tinta di un’ironia cattiva unita ad un’imprudente sottovalutazione della
persona che si trovava davanti: « perché te lo scopi ancora, giusto? Oppure
è lui che si scopa te? » rise di scherno.
In
circostante normali, probabilmente Sherlock avrebbe risposto a parole. Lo
avrebbe sfidato a dire di meglio, avrebbe cercato di irritarlo per scoprire i
suoi punti deboli e mirare a quelli per guadagnare tempo, per farlo crollare.
Anche le parole sapevano ferire.
Ma
quelli erano altri tempi. Erano tempi in cui non si sarebbe trovato da solo,
tempi in cui avrebbe avuto John a meno di tre passi dietro da lui con la pistola
saldamente puntata contro il fuggitivo, nel tentativo di coprirgli le spalle.
Tempi diversi e migliori, passati, svaniti.
Nel nulla e nell’assenza.
In
circostante normali, Sherlock Holmes avrebbe alzato le mani solo se costretto,
e solo per difesa. Non avrebbe mai colpito per primo.
Ma
quelle non erano circostanze normali e non erano nemmeno tempi migliori. E il
nome di John era stato pronunciato con disprezzo da una persona – da feccia umana – che non doveva nemmeno sognarsi di riempirsi la bocca con il
suono di quel nome, né tantomeno avere la
lontana idea di associarlo a parole scurrili e a concetti volgari.
La
sua mano scattò, chiusa, ancora prima che il suo cervello lo registrasse.
Primo
colpo: coste fluttuanti(7), diaframma (per bloccare il respiro),
stomaco (per piegare in due). Evitare colpi possibilmente mortali (dunque il
naso, le tempie, le vertebre cervicali).
Secondo
colpo: ginocchiata al viso. Possibile rottura del naso, confusione,
smarrimento, difficoltà respiratorie. Si porterà le mani al volto, rimarrà
scoperto.
Terzo
colpo: calcio alle coste del fianco sinistro (è carente da quel lato in difesa,
forse a causa di traumi sofferti in passato e non del tutto guariti, tende a
proteggersi di più con il braccio sinistro nonostante sia palesemente mancino,
usando il destro non-dominante per scagliare pugni). Calcio alla spalla destra
(dislocazione). Calcio all’inguine.
Considerazioni
secondarie: possibili reazioni. Non è un combattente di arti marziali, nessuno
stile, nessuna tecnica particolare. Rissoso, dunque potrebbe avere una rozza
infarinatura di street fight;
lievemente imprevedibile ma non per le persone con quozienti intellettivi
imbarazzanti come l’individuo in oggetto. Si affiderà ad un gancio destro non
appena lo vedrà arrivare, tenterà un diretto prima del colpo al diaframma, proverà
a bloccare almeno uno dei calci con il gomito. Risoluzione rispettivamente in
schivata bassa, schivata laterale destra, finto colpo.
Fuori
combattimento in 45 secondi.
Via.
Vicinanza.
Pugno, coste fluttuanti, grugnito. Schivata bassa. Pugno, diaframma, respiro
spezzato. Pugno, stomaco, gemito sofferente. Ginocchiata, naso rotto. Mani al
viso. Calcio laterale sinistro, le coste ne risentono. Non cerca nemmeno di
proteggersi: deludente, noioso.
Calcio laterale destro, spalla, dislocazione, urlo di dolore. Cade a terra.
Calcio all’inguine, respiro trattenuto in un lamento. Innocuo in 45 secondi.
Ma
non fu abbastanza.
C’era
rabbia, e stizza, e frustrazione – le riconobbe tutte. C’era la voglia di veder
bruciare il mondo. Di guardare mentre crollava sotto il proprio peso. Un
prurito nelle mani, una pressione nel retro della sua nuca, nel profondo del
cervello, e nessuna voce a dirgli “non va tanto bene” o più semplicemente “non
farlo”.
Causa
per conseguenza. Tutto ruotava su quel principio. Il mondo, la società, le
persone. Se tocchi l’acqua ti bagni la mano, se metti la mano sul fuoco ti
bruci, se passi un dito sul filo di un coltello affilato ti tagli.
Causa/conseguenza.
Aveva insultato John? Uno in meno al mondo non faceva la differenza.
No?
« Alzati » pronunciò
Sherlock con voce profonda, scandendo bene le parole.
Quello,
gemendo di dolore rannicchiato a terra, sembrò non sentirlo.
Sherlock
lo sovrastò, tirandogli un calcio alla bocca dello stomaco. L’uomo sotto di sé
gemette e sputò sangue sul cemento.
« Non amo ripetermi
» incalzò Holmes,
osservandolo con espressione totalmente indifferente mentre, probabilmente
colto da un attacco di terrore, l’altro si alzava reggendosi a stento sulle
proprie gambe.
Non
provò niente, Sherlock Holmes, a prenderlo a pugni. Solo il bruciore provocato
dalle escoriazioni sulle nocche della sua mano destra quando urtò l’arcata
dentaria dell’altro.
Poi
il naso (già ferito), la mandibola, la guancia, la tempia. Il malvivente cadde
a terra confuso, spaventato ed implorante, ma ancora Sherlock non sentì niente.
Solo pura liberazione.
Non
era quella la battaglia che stava combattendo davvero. Non era lì in quel
momento, in quell’istante, nei secondi infiniti in cui aveva deciso che
massacrare un criminale come un altro, uno dei tanti tutti uguali, poteva
valere come valvola di sfogo per tutta la confusione, e la rabbia infinita, che
covava dentro di sé.
Per
tutta la colpa ed il senso di inutilità che banchettavano con il suo fegato da
quando era tornato alla sua “vita”. E che staccavano pezzo per pezzo con denti
affilati quando andava a trovare John fingendo di essere qualcuno che non
esiste più.
Mentre
la polizia finalmente accorreva, Lestrade lo fermava tenendolo per le spalle,
ed il mondo attorno a lui diventava silenzioso e governato solo dall’eco del
proprio respiro, Sherlock guardò negli occhi la belva, e la belva guardò dentro
di lui.
Sorrise,
e gli sussurrò le parole che aveva creato e subito rifiutato. La sua verità, quella che sapeva da tempo
ma che aveva codardamente scelto di ignorare, posponendo il momento in cui
avrebbe dovuto affrontarla.
La
consapevolezza che John non sarebbe mai tornato indietro.
Che
il mondo in cui si era rinchiuso non aveva porte d’accesso, solo finestre
chiuse da cui sbirciare all’interno.
Che
se mai era esistito un equilibrio nella mente del suo coinquilino, era stato
lui stesso a sbilanciarlo.
Lui
aveva creato il “secondo Sherlock Holmes” che John credeva un’altra
allucinazione. Causa/conseguenza. La sua presenza aveva instillato il dubbio in
John e quel dubbio aveva partorito mille altre sue immagini, creando il caos.
Caos.
Un caos da cui John non sapeva come fuggire.
Intrappolato
nella sua mente.
Tranne
che per un metodo. Un istinto rimasto scritto indelebile nella sua anima, la
soluzione finale.
Serviva
poco, dopotutto. Un tetto, la forza di gravità, un passo oltre il ciglio. Una
chiave.
Mentre
Lestrade gli urlava contro qualcosa che non stava ascoltando – che non riusciva
a sentire – Sherlock osservò le proprie mani macchiate di sangue non suo.
La
sua assenza aveva spinto John in un’illusione. La sua presenza lo aveva preso
addirittura per mano e lo aveva guidato dritto verso la pazzia.
Lui
era stato, ed era ancora, il fulcro della malattia di John Watson. Lui era la
causa.
E
l’unica via d’uscita possibile, era affrontare la conseguenza.
Agosto.
La
scia di un anticiclone particolarmente temerario aveva allungato le mani sull’Inghilterra,
regalando al regno qualche giorno di soleggiato bel tempo.
Un
bel giorno per morire (di nuovo). Anche questa volta non definitivamente
(purtroppo).
Si
chiese quanto sarebbe stata lunga quella vita, mentre entrava al Fulbourn. Per quanto ancora dovesse rimanere ad osservare.
I
suoi passi sembravano più lenti e l’aria maledettamente difficile da respirare.
Nessuna bestia lo seguiva più (la bestia ora era lui).
Salì
con una calma nuova, non sua, i piani che lo separavano da John.
E
lui era sempre lì. Seduto su una delle due poltrone davanti all’ampia finestra
della sala comune, un libro sulle ginocchia e lo sguardo fisso al cielo al di
là del vetro.
Per
la prima volta, la prima vera volta,
fu in grado di ammirare quella visione in tutta la bellezza che avrebbe sempre
dovuto ispirare, ma che i suoi occhi non avevano mai trovato davvero.
La
calma, la tranquillità, la bontà, il freno, l’orgoglio, la fermezza. John Watson
era tante cose; era tutte le cose che lui non aveva o che aveva lasciato
inaridire nel tempo.
Solo
ora ne vedeva l’importanza. Solo ora. Nel giorno in cui sarebbe morto (di
nuovo) ma non definitivamente (purtroppo).
Si
avvicinò, in silenzio, e sempre in silenzio si sedette nella poltrona di fianco
alla sua.
John
non scostò lo sguardo dal cielo quando lo vide arrivare, ma accarezzò con le
dita fasciate il frontespizio del libro chiuso che teneva fra le mani.
“Il Tempo Ritrovato”. Settimo ed ultimo
volume dell’opera di Proust.
« In due settimane,
non l’ho mai nemmeno aperto. E... non ho ritrovato nessun tempo » disse, gli occhi
chiusi contro i raggi del sole.
Solo
dopo, posò gli occhi su Sherlock. « Hai la faccia di uno che ha capito tutto » gli disse.
Holmes
annuì. « Anche tu » gli rispose,
restituendo lo sguardo.
Watson
negò.
Il
silenzio li avvolse. Sherlock deglutì, prima di parlare.
« Non farlo, John ».
Un
sorriso a labbra chiuse, triste. « Non ho molta scelta » rispose.
« C’è sempre
un’altra scelta ».
« Davvero? » ribatté Watson,
guardandolo negli occhi con un mezzo sorriso: « lui ne aveva, quando ha deciso di
buttarsi? » domandò.
Lui. Terza persona. Di nuovo.
Ogni
volta feriva sempre più a fondo.
Decise
in meno di un secondo, Sherlock Holmes. Osservò il vecchio palazzo diroccato
che era John Watson e decise di rischiare il crollo.
Pericoloso,
ma se quella era davvero l’ultima volta, non voleva parlargli fingendo di
essere un estraneo con la sua stessa faccia.
Lo
fece e basta. « No, non aveva
altra scelta » disse, lo sguardo
basso fissato al linoleum del pavimento.
« Io sì » ammise poi John,
attirando di nuovo l’attenzione del detective: « potrei scegliere di dimenticarlo.
Una volta ci ho provato. Ma non posso. La realtà in cui devo per forza
accettare la sua morte fa schifo, Sherlock, e preferisco avere accanto una
bugia che non averlo affatto » disse.
La
decisione, la fermezza, la sicurezza che John aveva inserito in quelle parole, così tipica del
soldato che era stato, era ciò che le rendeva reali e dava loro una massa ed un
peso specifico.
« Strano però... » continuò poi il
medico: « ...come un’intera
guerra non sia riuscita ad abbattermi ma ci riesca l’egoismo di un singolo uomo
».
Sherlock
deglutì ancora (aghi).
« E se fosse vivo? » insinuò il
detective.
John
lo guardò con un interesse superficiale.
« Se fosse
sopravvissuto, se fosse stata tutta una sua macchinazione? Un modo per
sconfiggere Moriarty? ».
Watson
sobbalzò appena al sentire quel nome, ma cercò di non darlo a vedere
(inutilmente: Sherlock lo notò subito). Sorrise amareggiato, chiudendo gli
occhi e sfregandoseli con le dita di una mano.
« Sarebbe da lui » ammise.
Speranza.
Un fiotto, caldo da dare i brividi.
Torna indietro,
John.
« Riusciresti a
crederci? » domandò allora
Sherlock.
Vide
le sue labbra tremare, trattenendo le lacrime. Negò con il capo.
Holmes
dovette forzare il proprio respiro a non bloccarsi. « Perché no? » chiese (implorò
fra le righe).
« Perché sarebbe
così falso... » sussurrò John,
asciugandosi le ciglia umide prima di riaprire gli occhi e guardare di nuovo il
cielo: « così perfetto che
non potrebbe mai essere reale. Già ora non riesco a riconoscere cos’è vero da
cosa non lo è, Sherlock, già ora che sono sicuro della sua morte. Cosa
succederebbe se mi convincessi del contrario? Che sia vero o meno, comunque non
ci crederei. Non ci riuscirei. E non ho modo, davvero non ce l’ho, per
affermare “no, questa non è una mia allucinazione” » si sfogò, la voce
che ogni tanto tremava e si affievoliva.
Esistono
molti modi per morire senza morire davvero e Sherlock ne sperimentò uno ascoltando
quelle parole. Le ultime frasi di un uomo che non vedeva più via d’uscita.
Sherlock
era la causa, John la conseguenza, il Rimpianto ciò che sarebbe rimasto di loro
(a lui). Migliaia di frasi e parole mai dette, il silenzio ciò che costituiva
un tempo perduto che non avrebbe ritrovato mai più.
Fece
un profondo respiro, Sherlock, e abbandonandosi contro lo schienale della
poltrona chiuse lentamente gli occhi. La mente volò ad un’infinità di tempo
prima, a quando per raggiungere il bordo del tavolo doveva aggiungere due
cuscini alla sedia e l’attaccapanni all’ingresso sembrava un gigante.
All’ultima volta in cui aveva pianto e aveva promesso a se stesso di non farlo
mai più.
« Sherlock... » John raggiunse la
sua mano e, dolcemente, ne intrecciò le dita con le proprie: « ...non c’è
bisogno di piangere » mormorò.
Ma
lasciò che le sue lacrime scivolassero giù in silenzio.
Stavano
vivendo in un tempo che non apparteneva a nessuno dei due e lì dentro niente si
sarebbe mantenuto intatto. Il peso dell’assenza, delle parole non dette, di ciò
che si è perso e di ciò che si è lasciato andare sarebbe stato solo Sherlock a
portarlo, ora.
Sospirando
ancora, districò la mano da quella di John ed immerse le dita nella tasca
interna della giacca. Ne riemersero stringendo una chiave che, cautamente, il
detective appoggiò nella mano aperta del medico.
John
capì, e gli sorrise. « Grazie » sussurrò.
Sherlock
non rispose. Fu il suo turno di mettersi una mano davanti agli occhi, le dita
premute contro le palpebre nel tentativo di controllare le lacrime.
« Sherlock, va bene
così... » mormorò ancora
John: « non svegliarmi ».
Il
detective prese un profondo respiro. « Ti amo... » sussurrò con voce rotta senza
riuscire a guardarlo.
John
chiuse gli occhi, annuendo piano.
« Lo so. Lo amavo
anche io ».
Sono
cose che vengono alla mente solo dopo.
Dopo
la vita, dopo la morte. Dopo un istante: quello in cui tutto cambia.
Fotogrammi
di una vita che avrebbe voluto vivere senza saperlo.
Hanno
trent’anni, lui e John, e sono stesi fra le lenzuola del suo letto, nudi. C’è
odore di sesso nell’aria, ci sono fronti sudate e sorrisi imbarazzati, ci sono
parole sconnesse e risate e tutto sembra immerso in una tranquillità
confortante.
Hanno
quarant’anni ora e John prepara il tè in cucina. Lui lo guarda dalla poltrona
in salotto e sorride, pensando che dev’essere quella,
proprio quella, la sensazione che da
l’amore. La capacità di trovare interessante anche la semplice quotidianità, se
passata in compagnia della persona che si ama.
Hanno
cinquant’anni ed Hamish è al suo primo giorno di
scuola. Ha la sua intelligenza e la bontà di John. Osserva il suo compagno
chinarsi ad allacciargli la giacca, riempiendolo di raccomandazioni davanti all’entrata
della scuola elementare, ed Hamish gli ripete per l’ennesima
volta di aver perfettamente capito. Da un bacio sulla guancia ad entrambi loro
e corre via. Sente John prendergli la mano. Famiglia.
Hanno
sessant’anni e all’improvviso il 221B di Baker Street è diventato troppo piccolo
per loro. Il lavoro comincia ad essere difficile, Hamish
ha vinto una borsa di studio fuori sede ed è da molto tempo che i loro capelli
hanno cominciato ad ingrigirsi, tanto che il grigio ha quasi mangiato sia il
nero che il biondo. Acquistano una casetta nelle campagne del Sussex. John legge seduto in una poltrona da giardino in
vimini e lui alleva api. E per quanto monotona, è felicità anche quella.
Hanno
settant’anni e la moglie di Hamish è una brava
ragazza. I loro nipoti catturano rane in giardino e pretendono di poterle
dissezionare. John dice a Lily che non è educato, per una signorina, rotolarsi
nel fango ma lei gli risponde, dall’alto dei suoi sei anni, che se suo fratello
maggiore Simon e suo cugino Phillip possono farlo, allora lo farà anche lei. Mycroft non è esattamente d’accordo per quanto riguarda suo
nipote Phillip, ma tanto non ascolteranno comunque.
Hanno
ottant’anni e sono stesi sul loro letto, uno di fronte all’altro, e si tengono
per mano. John gli dice che è più vecchio di lui, che è naturale che se ne vada
per primo, e prima di chiudere gli occhi, gli ripete di amarlo. E anche lui
glielo dice. Gli dice anche che non è giusto, ma ormai John non può più
sentirlo.
Ha
novant’anni, e a conti fatti la vita gli ha dato così tanto. La vita gli ha dato John. E John gli ha dato un figlio,
una nuora e tre nipoti nonostante i modi anticonvenzionali con cui tutte queste
cose sono state ottenute. È da solo in un letto d’ospedale, Hamish
è uscito per andare a prendersi un caffè, e pensa che non è giusto che lui lo
veda morire. Vuole raggiungere John ed è esattamente quello che fa.
Ma
le cose non sono andate così, e non lo sarebbero state mai.
Ha
trent’anni Sherlock Holmes quando pensa a tutto ciò, in piedi davanti alla
lapide dell’unico amico che abbia mai avuto e dell’unica persona che abbia mai
amato.
È
novembre. Sono passati tre mesi dalla telefonata del dottor Harris, arrivata in
piena notte. Tre mesi da un funerale onorevole e gremito di gente. Tre mesi dal
pianto di pochi e dal dolore di molti.
Sherlock
aveva imparato tanto, in quei tre mesi. Si era reso conto che il senso di colpa
non lo avrebbe mai abbandonato. Aveva capito che stare in silenzio davanti ad
una sorella in lutto era l’equivalente di assumersi tutta la responsabilità –
una cosa che avrebbe fatto comunque, ma forse era meglio dirglielo, e scusarsi.
Non era mai stato bravo in quelle cose (c’era
sempre stato John). Aveva infine dovuto convivere con un’assenza di giorno
in giorno sempre più pensante, perché carica di tutte le ombre di quelle nuove
emozioni che non avevano avuto il tempo di vivere, che lui non aveva avuto modo
di scoprire.
Mesi
in cui aveva pensato molte volte di distruggersi, di lasciare il proprio corpo
a deperire in un vicolo, ma ogni volta un orologio da polso con il quadrante
scheggiato gli ricordava John e lui cambiava idea. E lui tirava avanti. E lui
sopravviveva.
Ora
Sherlock Holmes pensa. Pensa tanto. Pensa al futuro che avrà e al futuro che
non potrà più avere. Pensa al tempo perduto. Pensa a John, sempre, ogni giorno,
perché ora vive nei suoi ricordi e lui non ha la minima intenzione di lasciarlo
morire anche lì.
« Aspettami » sussurra alla sua
tomba: « arrivo. Tu
aspettami ».
Allora avremo
tutto il tempo del mondo.
È
facile andare avanti. Come camminare.
Un
piede avanti all’altro ed il gioco è fatto.
The End ~
______________________________________________________________________________________________________
Credo che partorire sia meno faticoso.
1.
le testate giornalistiche elencate sono le principali di Londra (e del Regno
Unito).
2.
Spero abbiate apprezzato il tocco dei titoli degli articoli ;D
"Il
Ritorno di Sherlock Holmes" è il titolo della raccolta in cui Conan Doyle fa rientrare in scena Holmes dopo le cascate di Reichenbach.
"Moriarty Esisteva Davvero" è la traduzione (non
proprio letterale, ma secondo me più azzeccata) di "Moriarty
was Real", frase molto
utilizzata ultimamente dal fandom.
"Il
Detective che è Sopravvissuto" è un omaggio ad Harry Potter ed al suo
"Il Ragazzo che è Sopravvissuto" (The-boy-who-lived).
"La
Caduta di Reichenbach" (The Reichenbach
Fall) credo non abbia bisogno di spiegazioni.
"L'Avventura
della Casa Vuota" è uno dei racconti della raccolta del Ritorno, sempre by sir Doyle.
"Io
Credo in Sherlock Holmes" (I Believe in Sherlock
Holmes) è un altro dei cavalli di battaglia del fandom,
insieme a "I'm Fighting John Watson's
War" (io combatto la battaglia di John Watson).
La
frase "era il mio migliore amico e crederò sempre in lui" (He was my
best friend ad I'll always believe in him) è ciò che John
scrive sul blog subito dopo la caduta ed il relativo scandalo. E praticamente è
anche il suo ultimo post (finora).
Ma
suvvia, dovrebbe essere ripetizione dell'ovvio per noi sherlockians
8D
3.
"A Scandal in Belgravia",
episodio 2x01, frase di Mycroft (ormai famigerata):
"Caring is not an advantage,
Sherlock".
4.
Tutto quello che viene detto sulla psicosi delirante è descritto dal punto di
vista criminologico/forense; non essendo io una psichiatra e/o psicologa, e
scrivendo solo di ciò che so per insegnamenti nel sopracitato campo, chiedo
scusa se le informazioni sulla patologia possono sembrare incomplete a chi
studia nel campo apposito.
5.
Citazione tributo da "Shutter Island".
6.
Leggere "Alla Ricerca del Tempo Perduto" è una delle grandi imprese
in cui mi voglio cimentare, ma che non ho ancora fatto. L'opera, come dice
Sherlock, è divisa in sette libri e detiene il Guinnes
dei Primati come opera letteraria più lunga (sono più di 3.700 pagine). Quello
che sta leggendo John, e da cui proviene la breve citazione (perché Proust era
uno logorroico), è il terzo libro, ovvero "I Guermantes".
7.
Le coste umane sono dodici paia e sono divise in tal modo: le prime sette
coppie a partire dall'alto vengono dette coste vere (o sternali) perché si
collegano, tramite cartilagine, direttamente allo sterno; L'ottavo, nono e
decimo paio vengono dette coste false (o asternali)
perché le loro cartilagini si uniscono non allo sterno, ma alle cartilagini
della costa immediatamente superiore; infine, l'undicesimo e il dodicesimo paio
vengono chiamate coste fluttuanti, perché sono le più piccole e non sono legate
a nulla. Per questo motivo sono anche fragili, e sono uno di punti preferiti di
chi si trova a menar per le mani.