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Autore: Yoko Hogawa    11/07/2012    32 recensioni
« Senta, signor Holmes... c’è tanto del John Watson che conosceva lei nella persona oltre quella porta. Tanto, sì, ma è una maschera. Tutto ciò che di sé stesso quell’uomo ha rimasto è dentro un vaso di cristallo in bilico sull’orlo di un mobile traballante. Ora noi daremo una scossa a quel mobile... non posso assicurarle che ciò che è contenuto nel vaso si salverà » gli spiegò, anticipandolo verso la fine del corridoio.
Questa volta, Sherlock non si trattenne: « smetta di parlare per metafore e me lo faccia vedere » sibilò.
Lo psichiatra annuì, aprendo la porta a vetri.
[II parte di Hush. Whisper low. - si legge anche senza][Johnlock altalenante fra bromance e pre-slash]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Awake me not, hush. Whisper low.'
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Desclaimer: tutti i personaggi (a parte alcuni di contorno) sono stati creati da sir Doyle e successivamente presi in custodia dal duo Mofftisslasher in incognito. Io non possiedo nessuno di loro ma mi diverto un mondo a rovinare le loro esistenze, perché ho il fetish dell’angst.

Ah, e scrivo gratis. Già. C’è crisi per tutti (?!).

 

Note: seconda parte di “Hush. Whisper low.” per chi la conosce. Per chi non la conosce, si legge anche senza aver letto la prima (più o meno). C’è un personaggio originale ma è solo un gran contorno, compare solo in una scena ;D

Il resto delle note, per chi desidera, è a fondo pagina.

Ah, e segnalo Sherlock OOC (a mio parere, per lo meno). Credo sia impossibile, per me, scrivere una cosa così lunga senza mai uscire di personaggio. L’omino è difficile da mantenere 8D

 

A chi volesse leggere, in ogni caso, buona lettura

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Awake me not.

 

 

 

L’Evening Standard gli aveva dedicato l’articolo di spalla in prima pagina, con una copiosa e alquanto asettica continuazione a pagina 13.

Il Ritorno di Sherlock Holmes

provata l’innocenza del detective privato

 

Il Sun gli aveva dedicato sempre l’articolo di spalla ma, in compenso, anche tutta la decima pagina.

 

Moriarty Esisteva Davvero

scagionato l’eroe di Reichenbach: Sherlock Holmes di nuovo tra noi

 

Il Daily Express gli aveva dedicato direttamente l’articolo di testa, compresa una buona metà della seconda pagina.

 

Il Detective che è Sopravvissuto

finge il suicidio per portare a termine il caso: il grande ritorno

 

Così come fece il Daily Mirror, che non voleva essere da meno.

 

La Caduta di Reichenbach

un caso lungo tre anni

 

Il Guardian gli dedicò il taglio medio, continuando con un articolo a pagina 3.

 

L’Avventura della Tomba Vuota

fenomeno del web scagionato da tutte le accuse: non ha mai mentito

 

Tutti articoli molto belli. Abbastanza toccanti. Sufficientemente veritieri. Per nulla precisi.

Tuttavia, i giornali su cui erano comparsi erano stati letti il giorno prima e buttati il giorno dopo.

Tranne la prima pagina, e l’editoriale di pagina due e tre, del Daily Star.

Paradossalmente, uno dei quotidiani che aveva contribuito a fare di lui un impostore aveva scritto ciò che nessun altro giornale, talk show o mass media era stato in grado di esprimere... o anche solo di ricordare.

 

Io Credo in Sherlock Holmes

“Era il mio migliore amico e crederò sempre in lui.” Dr Watson, ha vinto la sua battaglia

 

Le uniche che aveva conservato.

 

 

 

 

Fra le sue mani, un fascicolo di cartoncino color giallo spento.

Filigrana grossa, plastificato. Intestato – in alto, la dicitura “Fulbourn Mental Hospital”.

Voluminoso. Al centro della copertina, dove un quadretto di righe prestampate indicava lo spazio su cui scrivere, a macchina era stato battuto “Paziente 0274/13 – Watson, John H”.

In basso a destra, la dicitura “Dott. Carlton F. Harris” con la relativa firma.

Era in piedi sulla porta del 221B e guardava il salotto, illuminato solo dalla luce proveniente da Baker Street.

Prima: ore di lacrime, abbracci, frasi sconnesse. Mrs. Hudson, Lestrade, Molly. Cambiati ma sempre uguali (qualche ruga in più, i capelli un po’ più lunghi, una tonalità più chiara di grigio). Tutti felici per lui. Tutti preoccupati, per lui.

Era bravo a leggere le persone, Sherlock Holmes. Lo era sempre stato. Riconoscere un sentimento era semplice, provarlo era una cosa completamente diversa. Non era un automa, sapeva cosa voleva dire. Semplicemente non lo apprezzava.

Lestrade. Imbarazzo (“è partito tutto da qui, scusa...”), gratitudine (“grazie per avermi salvato, Mycroft mi ha spiegato”), contentezza (“sono felice che tu sia vivo”).

Mrs. Hudson. Incredulità (“oh mio Dio! Caro ragazzo, Sherlock, caro!”), felicità (“sei vivo!”), gratitudine (“grazie Sherlock, grazie... ma sei uno sconsiderato!”).

Molly. Sollievo (“non so se ce l’avrei fatta a continuare così...”), allegria (“sono felice che tu stia bene”), semplicità (“ti... ti va un caffè?”).

Bugiardi.

C’erano parole non dette, sentimenti non mostrati. Negli angoli delle labbra che faticavano a sollevarsi, nello sguardo che aveva fretta di posarsi altrove, nel breve tempo in cui il sorriso rimaneva sulla bocca, in tutta l’atmosfera che li circondava: quella della gente che sa ma che non vuole infierire (ferire).

Sensi di colpa.

L’appartamento rifletteva precisamente lo stato d’animo in cui si trovava.

Desolato. Lenzuola bianche coprivano i mobili, un dito di polvere sul pavimento. La signora Hudson non aveva pulito nonostante fosse sfitto (forse perché Mycroft le aveva pagato l’affitto. Oppure, più semplicemente – John l’avrebbe detto in questi termini, lo sapeva – anche la signora Hudson aveva difficoltà a mettere piede in quel luogo).

Tracce di passi, non recenti ma nemmeno risalenti a tre anni prima. Oggetti spostati e poi rimessi a posto.

Libri. Lo scatolone sul tavolo della cucina (dentro: il suo microscopio, i suoi beker, le provette). Il teschio sul caminetto. Alcuni fascicoli dei casi risolti e alcuni raccoglitori con le sue ricerche.

Non il violino. Giaceva chiuso nella custodia appoggiata sul letto in camera sua (intatta; nessun lenzuolo a coprirne i mobili, nessuna fotografia spostata, nessun abito estratto dai cassetti. Nessuna grinza sul copriletto – nessuno vi si era steso, o seduto, o lo aveva toccato con mano. Perché?).

John. Tutto di quelle lievi incongruenze urlava il nome “John”.

John.

John che non era lì. John, il cui volto non aveva potuto vedere.

Si sarebbe arrabbiato? Lo avrebbe odiato? Aveva passato mesi a pianificare quel momento, l’attimo in cui si sarebbero rivisti (non insieme agli altri, no. Sarebbe stato per ultimo, o forse per primo, ma da soli, sempre solo lui e John, John e lui. Se lo meritava, forse, di saperlo per primo, di saperlo per ultimo, di saperlo in privato. Forse glielo doveva, forse). Aveva passato mesi pensando – nei momenti liberi, nei momenti di noia, di solitudine – cosa dire. A quale fosse il modo migliore. A quanto male avrebbero fatto i suoi pugni, o bene il suo abbraccio, o pietà le sue lacrime.

Una scena che bramava, nonostante tutto. E gli era stata tolta.

Mycroft gli aveva mentito. Gli aveva detto che andava tutto bene, che John stava bene, che andava da Ella e che era perfettamente in grado di prendersi cura di se stesso. Che era andato oltre. Che sorrideva, e scherzava, e andava al lavoro, e si rifaceva una vita.

Mycroft gli aveva mentito. Per mesi. Poi gli aveva fatto il favore di dirgli che aveva mentito.

E gli aveva dato quel fascicolo in cartoncino giallo.

Paziente 0274/13 – Watson, John H. Fulbourn Mental Hospital. Dr. Carlton F. Harris.

Fu al vecchio tavolo fra le due finestre in qualche passo e, sollevando il lenzuolo con la mano libera, estrasse la sedia da sotto di esso. Una vaporosa nube di polvere si alzò, pungendogli il naso, ma Sherlock la ignorò.

Trascinò rumorosamente la sedia fino alla finestra, sedendovisi. La luce che filtrava dai vetri era sufficiente e lui voleva evitare di accendere quella elettrica. Ancora non ci teneva, a vedere bene le condizioni d’abbandono di Baker Street, luogo in cui nessuno entrava da mesi e mesi (e che aveva sperato essere, se non pieno di vita, almeno pieno di John).

Usando una delle sue gambe come supporto, aprì il fascicolo.

I documenti non erano tanti, ma erano fitti di lettere e parole. Scrittura a computer, ma per lo più a mano. Analisi del sangue, elettroencefalogrammi, test su test con domande inutili, relazioni, fotocopie di appunti e pagine di block notes. Giudizi. A volte intere frasi, a volte una sola parola.

 

“Ha assistito al suicidio del proprio migliore amico”.

“Alterata elaborazione del lutto”.

 “Crisi allucinatorie”.

“Nessuna alterazione visibile dello stato emotivo”.

“Stress post-traumatico? Nevrosi? Mancano sintomi di entrambe”.

“Riesce a fare un distinguo fra realtà  ed allucinazione”.

“Entra ed esce dagli stati allucinatori a proprio piacimento”.

“Rifiuta il trattamento con gli anti-depressivi. Siamo passati all’assunzione tramite cibo ma non si denotano miglioramenti efficaci della sua condizione”.

“Capacità di sintassi intatta, oggettività e soggettività intatte, sistemi percettivi degli eventi intatti, elaborazione della realtà intatta”.

“Non so più cosa pensare... John entra ed esce dalle sue allucinazioni come se entrasse ed uscisse da una stanza. Distingue efficacemente i deliri fantastici dalla realtà oggettiva ma non ha intenzione di guarire. Non ci permette di aiutarlo”.

“John riferisce di uno schema logico tramite il quale riuscirebbe a riconoscere lo stato di allucinazione”.

«Mi parla sempre di cose che già so o che posso facilmente immaginare.»

“Probabile interruzione dell’elaborazione del lutto in una delle ultime fasi”.

“Il paziente si presenta in corretta forma fisica, ma con una palese mancanza di sonno. Occhiaie. Ragionamenti lenti”.

“Le analisi confermano l’assenza di uso di droghe o altre sostanze psicotrope. La crisi allucinatoria è quindi da definirsi patologica”.

“Rifiuta di nuovo le cure, anche con medicinali più blandi”.

“Non collaborativo”.

“Riferisce di aver parlato, nelle sue allucinazioni, con persone sia decedute che ancora in vita. Mycroft Holmes (in vita), James Moriarty (deceduto. Vedi: Scandalo Holmes/Richard Brook), l’Ispettore Gregory Lestrade di Scotland Yard (in vita). Il più delle volte, ed in esclusiva da quando è stato ricoverato, con Sherlock Holmes (deceduto) (in vita – John non ne è al corrente)”.

“Rifiuta di nuovo ogni trattamento”.

“Oggi abbiamo parlato di violini. Dice di sentirne la mancanza”.

 

Richiuse di scatto il fascicolo.

C’erano pagine e pagine che raccontavano la vita di John. Sherlock non riusciva a non pensare che avrebbe dovuto sentire quella storia dalla voce stessa del suo coinquilino, e non leggerla spezzettata in frasi auliche che narravano una favola che aveva perduto il proprio lieto fine.

I tre anni d’assenza giacevano nella sua mente sottoforma di sporadiche conversazioni al telefono con Mycroft, in testi di mail mandati da decine di indirizzi diversi, in centinaia di messaggi inviati ad un numero sicuro e sempre diverso. Gli anni di John gli erano stati raccontati con parole d’altri attraverso occhi d’altri, e quando finalmente aveva progettato di poterli chiedere direttamente a lui, la sua voce e la sua storia erano le cose più irraggiungibili che potesse sfiorare.

Di tutti i possibili finali, questo era il peggiore.

Con un sospiro interrotto raggiunse il cellulare, estraendolo dalla tasca e cercando il numero di Lestrade. Erano le tre del mattino ma era consapevole che l’altro non dormiva.

“Domani. – SH”

Lineare, essenziale. Lui avrebbe capito.

Infatti la risposta non tardò ad arrivare.

“Passo alle 8.”

È facile andare avanti. Come camminare. Un piede avanti all’altro ed il gioco è fatto.

Sherlock Holmes aveva dovuto nascondersi per tre anni, e per tre anni non aveva fatto altro che camminare. Non aveva fatto altro che andare avanti guardandosi indietro.

Controllando. Sorvegliando. Proteggendo. Tutto dalla distanza. Tutto in solitudine. Tutto dal silenzio.

Sperando (una smorfia nel farlo, nel rendersi conto di farlo). Desiderando il ritorno promessogli.

Andare avanti è una bazzecola. Il difficile viene dopo.

Difficile è guardarsi indietro e dirsi che va tutto bene. Dirsi che non avrebbe potuto fare niente, se ci fosse stato. Dirsi che non era colpa sua, se John aveva mollato. Dirsi che non sarebbe potuta andare diversamente.

Ma quello no, Sherlock non riusciva a farlo.

Non aveva il vizio di mentire a se stesso.

 

 

Cittadina di Fulbourn, Cambridgeshire.

Agglomerato urbano composto da casette a schiena con vialetto e giardino – obbligatoriamente rigoglioso.

Case ridipinte saltuariamente. Aiuole curate. Alberi potati simmetricamente. Strade pulite in città, campi coltivati fuori città.

Campagna, natura, tranquillità. Quiete. Quasi un’oasi di perfezione immersa in un’atmosfera da film americano.

Cittadina di Fulbourn, Cambridgeshire. Un’ora e mezza da Londra (in auto).

Lestrade alla guida. Indossa un paio di pantaloni neri ed una camicia a righe sormontata dal solito impermeabile nero. Sbarbato, capelli tagliati dal barbiere. Il colletto della camicia è stirato bene ma piegato male. Il bottone del polsino destro sta per staccarsi. Ha fatto colazione con caffè e cornetto (macchiolina non notata accanto al primo bottone, alcune briciole rimaste attaccate ai pantaloni). Divorziato ma non single. Ombre nere intorno agli occhi (non ha dormito. A causa del suo ritorno? Quasi sicuramente).

Nel sedile del passeggero, suo fratello Mycroft. Camicia bianca perfetta, cravatta perfetta, completo perfetto, scarpe perfette. Pettinatura perfetta. Espressione posata (perfetta). Conservato in un vaso sotto formalina per estrarlo, tre anni dopo, esattamente identico a tre anni prima.

Sul sedile posteriore, con lui e alla sua sinistra, la signora Hudson. Un vestito grigio fumo, collant color carne, scarpe basse. Un girocollo di perle con relativi orecchini. Un cameo in avorio con una perla al centro che teneva chiuso il colletto dell’abito. Messa in piega ai capelli. Alcuni un po’ più grigi di come se li ricordava.

Guardava fuori, l’espressione triste. A volte guardava lui e gli sorrideva. Un sorriso malinconico.

Sherlock si sentiva chiudere lo stomaco ma non distoglieva lo sguardo. Però non rispondeva al sorriso.

Non sapeva come sentirsi, né cosa provare. Così lasciava i sentimenti a macerare dentro di sé, sperando che decadessero, come gli atomi radioattivi, in elementi più stabili e meno pericolosi. Non era mai stato bravo a capire se stesso.

C’era sempre stato John per quello.

« Sono bravi? ».

Fu lui stesso a spezzare il silenzio che regnava totale in quell’automobile. La sua voce fece sobbalzare mrs. Hudson, che però gli rivolse un altro timido sorriso.

A dare risposta alla sua domanda, l’unico che l’aveva colta al volo. « I migliori » rispose Mycroft « ovviamente ».

Sherlock aggrottò le sopracciglia in uno sguardo tagliente. « Sì, ovviamente » sottolineò nel ripetere.

Mycroft se ne accorse, naturalmente. Così come gli altri due occupanti dell’auto.

« Sherlock... non è stata colpa di nessuno » provò a dire Lestrade, ma il detective sbuffò una risata mesta.

« Oh, non funziona così, Ispettore » intervenne Mycroft, la voce calma e modulata (perfetta): « cerca qualcuno da incolpare, perché incolpare se stesso non è nemmeno un’opzione. E, come ha sempre fatto da quando aveva meno di dieci anni, trova in me il capro espiatorio perfetto » spiegò.

Sherlock sentì una ruggine vecchia come gli anni che si portava addosso ricominciare ad ossidare gli ingranaggi del suo essere, a farli cigolare. Flashback della sua infanzia passata con un fratello maggiore che doveva essere il suo Dio, ma che non lo era mai stato abbastanza e abbastanza a lungo.

Digrignò i denti, sotto le labbra serrate, prima di soffiare: « mi hai mentito... » minaccia velata per specificare di cosa esattamente lo stava incolpando.

Ognuno portava un po’ di colpa sulle spalle. Anche lui aveva le sue, di colpe; le aveva riconosciute non appena aveva saputo. Aveva stretto loro la mano e aveva mostrato loro il collo. Loro – le colpe – lo avevano morso e dissanguato ed erano rimaste lì, sanguisughe, in attesa del giorno – lontano – in cui si sarebbe stancato, o lo avrebbero ucciso.

Si chiese quali fossero le colpe di mrs. Hudson. Si chiese quali fossero quelle di Lestrade.

« Ho dovuto » si giustificò Mycroft: « saresti tornato, e non potevi permettertelo. Non sei stato il solo a rischiare e lo sai bene » disse.

« Oh, e tu sei un esperto nel giudicare i rischi che corrono gli altri » ribatté il più piccolo degli Holmes, piccato e pungente di un’ironia sporca.

« Sì, lo sono da quando sei nato » rispose però il maggiore.

Sherlock prese fiato per parlare, ma non fece in tempo: la voce di Lestrade lo fermò.

« Ora basta! » esclamò, gli occhi fissi sulla strada davanti a sé ma palesemente infastiditi e lucidi, quasi... sull’orlo del pianto? Non lo avrebbe mai detto, tre anni prima, ma dopotutto tre anni possono cambiare tutto come niente.

« Controllatevi. Entrambi » li riprese, non lasciando loro il tempo di continuare a battibeccare o di riprendere il discorso da dove lo avevano lasciato, ignorandolo, come entrambi avevano piena intenzione di fare: « qui non si tratta di menzogne, di ritorni o di chissà cos’altro. Qui si tratta di John. Lui è l’unica vittima di tutto questo casino, lui è l’unico che è stato lasciato indietro. Anche se non vi interessa almeno portate un po’ di rispetto e tacete » si sfogò, arrabbiato, una furia intrappolata sotto anni di disciplina professionale.

Ah, eccola. La colpa di Lestrade. Ora Sherlock poteva vederla, riflessa negli occhi pieni di lacrime di mrs. Hudson. Era anche la sua, di colpa. Lei e Lestrade ne condividevano il peso.

Le persone più vicine a John che non se ne erano mai accorte. Che non avevano colto i segnali, o che semplicemente erano state invitate a non farlo (John era forte, era orgoglioso, faticava ad accettare l’aiuto altrui se non era lui il primo a chiederlo; sicuramente, e Sherlock lo sapeva, non aveva dato loro la possibilità di avvicinarsi abbastanza al suo problema, alla sua solitudine). Così, quando John aveva urlato aiuto, loro non lo avevano sentito.

Ma a Sherlock non interessava quale forma avesse il loro senso di colpa, o se ne esistesse uno in Mycroft. C’era una cosa che Lestrade non poteva permettersi di dire.

« Non osare dire di nuovo che non mi importa » disse Sherlock – un sibilo profondo – prima di rinchiudersi in un mutismo contemplativo, gli occhi puntati fuori dal finestrino.

Importarsene non è un vantaggio, Sherlock.(3)

« Scusa... » sussurrò Lestrade nel rinnovato silenzio.

 

 

Struttura in mattoni, tetto spiovente con vecchie tegole marrone scuro, ingresso plateale e di cattivo gusto. Ad occhio e croce, quattro ali (punti cardinali). Ad ogni ala un reparto. Il piano terra dell’edificio centrale per l’accettazione, lo smistamento e la segreteria.

Avevano preso il corridoio a destra e poi l’ascensore. Ala est. L’infermiera alla reception aveva salutato Lestrade e mrs. Hudson per nome. Venivano spesso. Aveva guardato Mycroft come se lo avesse visto altre volte, ma aveva usato molta più cortesia. Veniva anche Mycroft? A trovare John? Probabilmente sì. Probabilmente conosceva lo staff e lo staff conosceva lui (di vista, per sentito dire). Probabilmente quel posto era sotto il controllo remoto di Mycroft, se riusciva ad avere gli appunti personali del terapeuta di John.

Nulla di così sorprendente, per il Governo Britannico. Il fatto che se ne stesse importando, quella era la cosa sorprendente.

L’ascensore si fermò al secondo piano.

Corridoi bianchi, luminosi, sterili. Odore di disinfettante nell’aria. Linoleum verde chiaro sul pavimento a coprire l’originale pavimentazione a piastrelle sottili. Nessuna sedia, nessuna panchina, solo stanze. Porte a destra e a sinistra, con numeri e una finestrella di osservazione esattamente ad altezza degli occhi. Maniglie ma non serrature. Chiavistelli in acciaio manovrabili solo dall’esterno.

Controllo di ogni libertà, privazione, accordo non scritto (minaccia): “qualsiasi segnale di instabilità e vi chiudiamo dentro le vostre camere (celle?) finché non arriverà il dottore o tornerete voi stessi da soli”.

Un inizio di nausea colpì Sherlock, che sospirò profondamente nel tentativo di farlo passare. Al suo fianco, Mycroft gli lanciò una breve occhiata.

“Lo so” sembrava che gli dicesse. Sherlock lo fulminò in un istante, azzurro ghiaccio in grigio tempesta.

Alcuni rumori provenivano da oltre la porta in vetro smerigliato alla fine del corridoio; la voce di una televisione, o di una radio (no, era più probabile un televisore, considerato il rimbombo), parole, alcune risate, il rimbalzare continuo di qualcosa contro il muro.

Una sala ricreazione? Un luogo di ritrovo? Cos’altro? Filtrava più luce. Finestre? Sì, probabile.

Era tutto lì? Si riduceva tutta lì, la sua vita, la vita di John, ora? Un corridoio, una stanza con un letto ed una sala comune condivisa con chissà quali individui?

Sentì ancora quel senso di nausea ma questa volta trattenne il respiro, socchiudendo gli occhi.

Poteva quasi immaginarsi ogni secondo di quella nuova vita. Sveglia, colazione, medicinali. Mattinata passata in sala ricreazione o all’aperto, oppure in terapia, oppure in seduta privata con lo psichiatra assegnato. Pranzo, medicinali (quelli non ricevuti a colazione). Pomeriggio libero, o in terapia di gruppo, o in seduta privata con lo psichiatra assegnato (dipendeva da cos’avesse fatto al mattino). Cena, medicinali. Tutti nelle stanze: coprifuoco. Dormire.

All’infinito.

Deglutì attirando, questa volta, anche l’attenzione di Lestrade. Restituì lo sguardo.

Lestrade non era stupido. Tutt’altro, era solo lento, più lento di lui. Ma Gregory aveva avuto sette mesi per abituarsi a quella vista, Sherlock solo dieci minuti. Lestrade aveva capito tutto la prima volta che era venuto in quel posto – aveva accompagnato lui John ed Harry? Non lo sapeva, non aveva chiesto; doveva chiedere? – e vedeva, nel silenzio in cui si stavano guardando, che anche lui aveva capito.

Ovviamente, Sherlock aveva capito.

Lestrade gli sorrise in un ghigno. « Non sono molte le persone che vengono qui, nonostante l’elevato numero di pazienti » cominciò a spiegare, mettendo palesemente mrs. Hudson a disagio ma continuando in ogni caso, a bassa voce: « si capisce presto il perché... non è vero? » domandò, lanciandogli una nuova occhiata.

Sì. .

Pietà. Appiccicosa, viscosa pietà. La consapevolezza che una volta dentro non si esce più.

John, cosa ci fai qui?

Alcuni passi interruppero il loro silenzioso scambio d’opinioni, attirando l’attenzione di tutti e quattro i visitatori.

Dalla porta a vetri ora socchiusa era appena entrato un medico, il camice bianco svolazzante ad ogni falcata veloce che lo separava da loro, fermi in attesa appena fuori dalle porte dell’ascensore.

A quanto pareva, era la prassi. Loro attendevano lì e qualcuno del personale veniva loro incontro.

Solo, immaginava Sherlock, di solito dovevano essere gli infermieri, di certo non i medici.

Ne aveva intuito il nome ancora prima che si presentasse (solo a lui; suo fratello, Lestrade e mrs. Hudson molto probabilmente lo conoscevano già).

« Signor Sherlock Holmes... » introdusse sé stesso, allungando la mano in sua direzione: « sono il dottor Carlton Harris. Ho in cura il dottor Watson » si presentò.

“Dottor Watson”. Cognome e grado medico, che sicuramente non aveva più, considerata la situazione ed il luogo in cui era rinchiuso. Dubitava fortemente che la commissione medica fosse felice di tenere il nome una persona affetta da un qualche tipo indefinito di malattia mentale scritto in bella grafia all’Albo dei Medici.

Particolare, comunque, la scelta. Nei suoi appunti lo chiamava per nome. Probabilmente tutti, in quell’edificio, lo chiamavano per nome (non era una sua prerogativa, non lo era mai stata, ma lì era diverso: in luoghi come quello il nome era una targhetta, un’etichetta, un’intercalare, il sinonimo di un punto esclamativo per far sentire il paziente a casa, erroneamente, facendolo sentire probabilmente solo più vulnerabile, sceso d’un gradino nella piramide sociale).

Istintivamente, Sherlock rispose alla stretta, ma non parlò. Dopo qualche istante di silenzio – imbarazzato – il dottor Harris riprese parola, rivolgendosi a Lestrade e mrs. Hudson: « oggi è rimasto dentro, fa ancora un po’ troppo fresco per uscire nel parco. È in sala comune, potete andare a fargli visita » spiegò sorridendo, indicando con un cenno del capo la porta a vetri: « io desidererei parlare con il signor Holmes, prima » aggiunse poi, guardandolo (per distinguerlo dall’altro signor Holmes, suo fratello maggiore, che seguì Lestrade e mrs. Hudson verso la porta a vetri).

Dietro quella porta c’era John.

Cosa ci fai qui, John?

Chiuse gli occhi per un istante, prima di incatenarli a quelli verdi di Harris, che si sentì autorizzato a parlare.

« Suo fratello mi ha già spiegato le condizioni di ciò che è accaduto » iniziò, indeciso (come poteva essere uno psichiatra con quel carattere dubbioso? Con quella sua mania di abbassare lo sguardo ad intervalli regolari? Con la facilità con cui era messo in soggezione da uno sguardo fermo? Così empatico, così debole? Sono le tue le mani che dovrebbero aiutare John? Ma guardati!): « perciò non le chiederò nulla. Sono... beh, felice che sia ancora vivo » disse.

Frase di circostanza. Ma Sherlock decise di assecondare il proprio fastidio interiore (prima che esplodesse, manifestandosi in altro modo).

« Perché? » domandò.

Harris ne sembrò sorpreso. « Come, prego? ».

« Perché ne è felice? » specificò Sherlock.

Lo lasciò senza parole, e il detective lo notò. Ovviamente lo notò.

« Beh... suppongo che sia sempre meglio che essere morti » rispose lo psichiatra, uno sopracciglio lievemente piegato.

Sherlock sogghignò: « dipende dai punti di vista » rispose, prima di continuare: « cos’ha da dirmi, dottore? » sforzandosi di mostrare una cortesia che non possedeva.

Probabilmente Harris capì il tipo di persona che si trovava davanti, perché non cercò più di intavolare discorsi accomodanti e passò subito al dunque.

« Vorrei metterla semplicemente in guardia sulla situazione delicata in cui si trova il dottor Watson » premise.

Sherlock gli prestò la sua completa attenzione, in silenzio.

« Vede, ci sono molti modi in cui una persona può affrontare la sofferenza. Le risparmierò i cinque passaggi dell’elaborazione del lutto, se ha letto gli appunti che suo fratello maggiore mi ha gentilmente richiesto saprà già di cosa parlo » disse (sottolineando il “gentilmente” con la voce).

Sherlock annuì.

Harris assentì a sua volta, prima di continuare: « sono convinto che John non abbia affrontato tutto il percorso che porta all’accettazione della perdita. Deve essersi fermato qualche passo prima e non averla completata, e questo deve avere causato uno scompenso psichico di qualche tipo. Con la sua anamnesi non mi stupirebbe troppo: era un soldato che ha combattuto in guerra per anni, ferito in azione e congedato; ho letto che ha sofferto di stress post-traumatico con manifestazioni psicosomatiche importanti, tanto da impedirgli la normale deambulazione... in poche parole, stiamo parlando di una mente già danneggiata, quindi– ».

« Non è danneggiata » lo interruppe Sherlock, un fiotto di rabbia incastrato nel diaframma.

Harris si bloccò a metà della frase: « Come? ».

« La mente di John non è danneggiata. Ciò di cui ha sofferto era puramente autoindotto, e lo ha superato » “grazie a me” avrebbe voluto aggiungere, ma evitò.

Lo psichiatra lo guardò negli occhi – una lunga occhiata – prima di stringere le labbra una contro l’altra.

« Ho scelto il termine sbagliato, probabilmente » acconsentì (facendolo come se gli concedesse il favore, il beneficio del dubbio): « diciamo “indebolita”. Ora, questa sua... debolezza... lo ha reso particolarmente sensibile ad un tipo diverso di processo, che la sua mente ha messo subito in atto tramite un sistema di protezione; il dottor Watson ha creato una situazione completamente immaginaria in cui lei, signor Holmes, era tornato da lui » disse, osservando la sua reazione.

Sherlock non ne ebbe. Il caos era dentro di lui ma non si mostrava tramite espressioni del viso. Non lo avrebbe permesso, non davanti ad uno psichiatra che legge in ogni gesto ciò che gli fa più comodo.

Il silenzio concesse ad Harris di continuare: « il termine tecnico è “delirio”. Nella pratica è legato alla psicosi, ma la situazione di John Watson è del tutto differente da una normale diagnosi di psicosi delirante(4) » affermò.

« In che senso? » domandò Sherlock.

Harris prese fiato. « Uno psicotico delirante completamente inserito nel proprio delirio percepisce la realtà così com’è, ma la interpreta in modo sbagliato; però, se si forza l’individuo ad abbandonare il delirio, le possibilità che guarisca dalla psicosi sono ottime » spiegò brevemente, prima di riprendere: « il fatto è che... il dottor Watson è già uscito dal delirio. Si è reso conto da solo che ciò che vedeva e sentiva non era reale, tant’è che ha firmato lui stesso i documenti per il proprio ricovero. Semplicemente, John sembra non voler abbandonare la propria allucinazione. Lui riesce perfettamente a distinguere fra realtà e immaginazione ma non fa nulla per liberarsene. Questo è... un caso insolito e clinicamente interessante » completò, un guizzò di interesse nei suoi occhi.

Sherlock strinse le labbra in un moto di aggressività trattenuta. Fece parlare le proprie deduzioni, però: « in sostanza, lei teme che la mia visita possa turbare questo strano equilibrio in cui John sembra essersi stabilizzato, dico bene? Essendo io la causa del trauma subìto » riassunse.

Harris annuì gravemente. « Non dico che non le permetterò di vederlo. Solo, non voglio che lo faccia da solo. È come se il dottor Watson fosse in bilico su di un filo sotto una campana di vetro. Vedere lei potrebbe far sì che il vetro si infranga e il filo si spezzi. A questo punto, le sue reazioni potrebbero essere le più disparate: purtroppo non stiamo parlando di un uomo sano di mente, di questo deve essere consapevole » gli disse.

Certo che ne era consapevole. Ne era maledettamente consapevole.

Che lo accettasse, però, era un altro paio di maniche.

Gli occhi chiari di Sherlock caddero nuovamente sulla porta a vetri, chiusa, oltre la quale vi era John.

Era stanco di quei discorsi che già sapeva, di quel corridoio vuoto, di quella distanza lunga tre anni e qualche metro. Nauseato dal quel medico che pensava di saperne di più di lui su John. Irritato dalla pietà che gli si incollava ai polmoni ad ogni respiro.

Era di John che stavano parlando. John Hamish Watson. Non potevano pretendere che ci credesse sul serio.

« Me lo faccia vedere » disse solamente, senza più guardare il medico.

Quello annuì, sospirando. « Senta, signor Holmes... c’è tanto del John Watson che conosceva lei nella persona oltre quella porta. Tanto, sì, ma è una maschera. Tutto ciò che di sé stesso quell’uomo ha rimasto è dentro un vaso di cristallo in bilico sull’orlo di un mobile traballante. Ora noi daremo una scossa a quel mobile... non posso assicurarle che ciò che è contenuto nel vaso si salverà » gli spiegò, anticipandolo verso la fine del corridoio.

Questa volta, Sherlock non si trattenne: « smetta di parlare per metafore e me lo faccia vedere » sibilò.

Lo psichiatra annuì, aprendo la porta a vetri.

×

Era seduto su una poltrona economica, di quelle con lo schienale basso ed imbottite di gommapiuma.

Sherlock lo osservò, dall’altro lato della stanza, parlare a Lestrade con un sorriso sincero ma di circostanza. Una di quelle espressioni di pura cortesia che John usava spesso con i tassisti, con il cassiere del Tesco, con il postino o con il signor Chatterjee, proprietario del sandwich bar accanto al 221B.

Probabilmente lo faceva perché le persone che aveva di fronte avevano nei suoi confronti lo stesso sorriso.

John... era sempre stato bravo a capire l’atteggiamento di chi aveva davanti, e a rispondere di conseguenza.

A malapena notò gli altri pazienti presenti nella stanza. Solo una registrazione automatica: la ragazza rannicchiata sulla sedia a guardare un programma per bambini in televisione, l’uomo che faceva insistentemente rimbalzare una pallina da ping pong contro il muro, il ragazzo con i polsi fasciati imbottito di tranquillanti o la signora con la mano destra tremante. Solamente contorni, cornici, informazioni di contingenza.

Il centro del suo mondo era John.

A prima vista, sembrava sempre lo stesso. Le differenze dovevano essere trovate nei dettagli, come nel mettere a confronto un quadro originale con una sua replica perfetta.

I capelli leggermente più lunghi, con un taglio diverso. La pelle più chiara, segno di chi non esce molto spesso, e comunque non quanto prima. Posizione della schiena arcuata, di chi passa molto tempo seduto e protegge se stesso da qualsiasi contatto. Introversione. Assolutamente non da John. John era restio a dare fiducia, era prudente, era sospettoso ma non era, non era, introverso.

E la voce? Non stava parlando. Da quando aveva messo piede in quella stanza – potevano essere quasi tre minuti, ormai – John non aveva parlato. E per quanto improbabile possa sembrare, è praticamente impossibile che una persona impegnata in una conversazione, come lo era John con Lestrade, possa rimanere in completo silenzio per tre interi minuti. Inoltre le labbra di John erano immobili e Sherlock poteva tranquillamente immaginare che, dopo i saluti, non avesse detto nient’altro fino a quel momento.

No... no. La persona seduta su quella poltroncina sembrava John. Ma non lo era.

« La accompagno, signor Holmes » disse Harris al suo fianco: « nel caso che il signor Watson reagisca male, vedendola » alluse.

Sherlock lo guardò con la coda dell’occhio. « Intende nel caso ci sia bisogno di sedarlo? » domandò, indicando con un leggerissimo cenno del capo la siringa nella tasca del camice.

Quello annuì distrattamente: « ci sono pazienti qui, signor Holmes, che non gradiscono i climi troppo agitati, e soprattutto sono pazienti che hanno l’improbabile caratteristica di influenzarsi l’un l’altro molto velocemente » spiegò.

A seguito del silenzio del detective, lo precedette di qualche passo in direzione di John.

Col senno di poi, Sherlock arrivò ad ammettere che quella distanza, quella decina di metri dalla porta della sala comune all’angolo in cui John si era rifugiato, era sembrata la più lunga di tutta la sua vita.

Gli sembrò di camminare attraverso un’aria viscosa, resistente ad ogni sui tentativo d’avanzata, almeno finché il trio non si accorse del loro arrivo... e, di conseguenza, anche John.

Lo guardò. Sherlock guardò lui. I loro occhi si incontrarono in uno di quei secondi di cui si legge sempre ma che si fa fatica ad ammettere che esistano davvero.

Un momento del silenzio più puro. Un istante in mancanza totale di fiato. Aspettativa, attesa, il ricordo di anni passati da nomade in un mondo a cui mancava qualcosa e se ne accorgeva solo ora, solo in quella piccola frazione di secondo in cui lo vide e sì, era lui, era sempre stato lui e dimostrami che non ti ho perso.

Dimostrami che non mi sbaglio.

Dimostrami che è tutto falso.

Dimostrami che potrà tornare tutto come prima.

E l’attimo passò così com’era arrivato, nell’istante stesso in cui ogni reazione che si era immaginato da parte di John non trovò compimento.

Semplicemente, distolse lo sguardo da lui, guardando Harris.

Probabilmente, lui e lo psichiatra arrivarono alla stessa soluzione con uno scarto di un decimo di secondo l’uno dall’altro.

« Buongiorno, John ».

« Buongiorno, dottor Harris ».

La sua voce. Piatta e bassa e leggermente roca. Il tono dell’attore che ripete una parte imparata a memoria troppe volte, lo studente che mastica i versi di una poesia ripetuta fino allo sfinimento. La sua voce.

Amara, ora. Odiata, ora.

Come al solito, John. Guardi ma non osservi.

Fece attenzione, Sherlock, a non esprimere nulla sul suo volto. Un’occhiata al fratello gli diede conferma che anche lui aveva già capito, mentre Lestrade ancora si barcamenava nel tentare di afferrare cosa stesse succedendo. Mrs. Hudson era semplicemente ammutolita.

Era diventato la sua illusione.

Logico, lineare. Come un’equazione. Come la formula del moto rettilineo uniforme. Così semplice da far male.

John non solo non credeva che lui potesse essere vivo, ma non credeva nemmeno che tale possibilità ci fosse.

Non aveva superato il trauma della sua morte ma la sua morte in sé, come evento oggettivo, sì. Nella sua mente, l’unica immagine riconducibile a Sherlock Holmes era la sua allucinazione e dunque, in base a quell’assunto, ogni Sherlock Holmes che gli appariva davanti doveva essere frutto della sua immaginazione.

La stessa teoria per cui, se si temono le api, ogni ronzio sembra proprio quello di un ape.

John lo aveva escluso dalla realtà, lo aveva escluso persino dalla possibilità di essere reale, e lo vedeva semplicemente come se fosse un’allucinazione. La propria allucinazione.

Il detective rimase immobile, fermo, la mente immersa in un ringhio fastidioso che non gli dava tregua. Guardava John ma John non guardava lui.

Arrivò fin troppo velocemente a capire che non avrebbe posato lo sguardo su di lui, non davanti agli altri: doveva essersi abituato alle loro visite e non avrebbe mai permesso a se stesso di dare l’impressione di vedere Sherlock (anche se gli altri lo sapevano, e lui sapeva che sapevano; ma John era sempre stato orgoglioso e quello era un tratto che non era mutato). Lo avrebbe ignorato finché ci fossero state altre persone attorno a lui. Avrebbe parlato con lui solo quando gli altri se ne fossero andati.

Elementare.

Deglutì a fatica, muovendo qualche passo verso la poltrona su cui era seduto John, appoggiandosi al bracciolo in silenzio. Quando lo fece, e Watson non mostrò reazione alcuna al suo essere così vicino, anche Lestrade sembrò realizzare cosa stesse accadendo.

Mrs. Hudson fece per prendere parola, ma Harris la fermò appena prima che potesse dire qualsiasi cosa di sconveniente o di terribilmente sbagliato: « mrs. Hudson, se non le dispiace gradirei parlarle in privato. E anche con i signori Holmes e Lestrade, se non vi è di troppo disturbo » disse, cortese, accorto, attento.

Un nuovo gioco si era appena creato. Un gioco malinconico, una ruota della fortuna senza premi. Un gioco le cui regole si stavano formando in quell’istante stesso, al ritmo di ogni respiro e di ogni occhiata.

Il gioco del “facciamo finta”.

Facciamo finta che Sherlock sia l’allucinazione di John. Facciamo finta che John abbia ragione. Facciamo finta che Sherlock non esista.

Facciamo finta, perché ogni goccia di verità poteva essere quella buona per far traboccare il vaso. Il pericolo più grande era ciò che Sherlock Holmes rincorreva da sempre: la verità.

Una verità che non poteva dire per timore di spezzare l’unico filo che teneva in equilibrio John Watson. In equilibrio su cosa, però, a nessuno era dato saperlo.

I tre ospiti si alzarono e dopo un breve commiato (un cenno del capo da parte di Mycroft, una stretta sulla spalla da parte di Lestrade e un lungo abbraccio da parte di mrs. Hudson) finalmente John fu lasciato solo, e Sherlock con lui.

Il medico attese fino a quando non scomparvero oltre la porta a vetri, prima di parlargli.

« Vorrei che smettessero di venire a trovarmi » disse, la voce modulata ma non bassa, semplicemente... normale.

Semplicemente sua.

« Perché? » domandò Sherlock, non faticando a ritrovare il tono profondo e pacato di quando facevano conversazione, così, come in quel momento, nel modo più semplice ed insieme più casalingo del mondo.

John sollevò a malapena l’angolo della bocca, un sorriso amaro: « è una pena che potrebbero evitarsi » disse.

Sherlock si limitò ad osservarlo dalla sua posizione sopraelevata, rimanendo in silenzio per qualche istante di troppo. Il necessario perché John si voltasse, e lo guardasse negli occhi.

Occhi che lo vedevano ma che non lo vedevano al contempo. Paradosso. Tipico di John.

« Potresti dirglielo » gli rispose allora, cinico (così come doveva essere, così come lo sarebbe stato prima).

No che non poteva, a questo riusciva ad arrivare anche lui. Era ingiusto vietare a chi portava sulle spalle così tanti sensi di colpa – il fatto che fossero autoimposti era completamente trascurabile in quel contesto – l’unica azione che sembrava avere un valore di espiazione.

Venirlo a trovare era il loro modo per fare ammenda. Patetico, ma l’unico.

Ma prima non gli avrebbe risposto in quel modo e John aveva bisogno di credere di stare parlando con la propria allucinazione, non con il vero Sherlock in carne ed ossa. Motivo per cui Holmes avrebbe dovuto fingere, recitare la parte di se stesso secondo il copione di John.

« Davvero? » domandò lui, sorridendogli a malapena.

Solo un’ombra.

«» confermò il detective guardandolo di rimando, serio.

John soffiò una risatina, tornando a guardare la porta a vetri dalla quale erano appena usciti i suoi visitatori.

« No, invece... non posso » rivelò affranto.

Aveva capito tutto fin dall’inizio.

 

 

Pulì il 221B, una volta tornato. Non attese che lo facesse mrs. Hudson.

C’erano cose che solo lui sapeva dove mettere, cose che dovevano essere controllate e verificate, cose da ritrovare, cose da spolverare e da lasciare esattamente lì dove si trovavano.

Lenzuola pulite nella sua camera. Vestiti lavati nell’armadio. Il violino, il cuscino con la Union Flag, il computer, il teschio sulla mensola del caminetto. Persino le lettere ed il tabellone del Cluedo. Tutto esattamente come prima, pulito, con i colori che aveva ricordato per tre anni.

Così famigliare e così vuoto.

Seduto in poltrona, vestaglia da camera e mani unite appoggiate alle labbra, usò ogni stilla del suo enorme raziocino per cercare un ordine di qualche tipo, possibilmente logico; una strada distinta su cui proseguire.

Ci pensava continuamente da quarantotto ore, da quando era tornato a Londra, da quando aveva parlato con Harris e lui gli aveva detto di continuare in quel modo. Che, nonostante l’incredibile situazione venutasi a creare, a John faceva bene un po’ di compagnia – della vera compagnia.

Stronzate.

Non lo credeva nemmeno reale. Credeva di parlare con un’allucinazione. Un’allucinazione che poteva persino toccare, rendendo completamente inutile anche la prova del tatto.

Con John non esisteva più logica. John aveva abbattuto ogni logica.

Niente “se non vedo non credo”, niente “se posso toccarlo è reale”, niente parola, narrazione, evento passato, ricordo particolareggiato, spiegazione ragionevole che potesse intaccare il mondo che John aveva costruito a propria protezione.

Perfetto. Così perfetto che Holmes ne era rimasto quasi stupito. Quasi, perché l’unica cosa che riusciva a provare in quel momento era rabbia.

Potente, cieca, repressa rabbia. Scavava nelle sue vene un percorso che dilatava l’assenza. La sua assenza.

Avrebbe preferito un pugno. Avrebbe preferito il litigio, mesi di silenzio, l’essere obbligato a dover chiedere scusa.

Avrebbe preferito che andasse come se l’era immaginato nel suo caso peggiore (e più verosimile).

Invece John aveva rovinato anche quello, aveva distrutto anche quello. Aveva creato una ragnatela in cui Sherlock, tentando incautamente di attraversarla impreparato, era rimasto invischiato. E non poteva né liberarsi né chiedere a qualcuno di liberarlo, perché tutti erano intrappolati nella stessa tela appiccicosa e nessuno ne era realmente libero.

Ed ora lui si trovava nel pieno centro della tempesta. Nell’occhio del ciclone dove regna una calma solo apparente.

Cosa fare, cosa non fare? Cosa dire, cosa non dire, come muoversi?

Logica o sentimento? Ragione o istinto? Dire cosa vorrebbe sentirsi dire o cosa si aspetta che direbbe?

Difficile. Difficile essere lo Sherlock Holmes di John Watson.

Recitare una parte di cui non si possiedono nemmeno le battute pensando che conoscere l’autore che le ha scritte sia sufficiente ad immaginarle.

Appoggiandosi le mani sugli occhi, sospirò profondamente.

Era morto per lui. Fuggito per lui. Aveva affrontato la solitudine, per lui. Era tornato per lui ma lui non lo aveva aspettato. Se ne era andato nel posto più vicino e, al contempo, anche nell’unico luogo in cui Sherlock non poteva raggiungerlo.

Tendergli la mano. Portarlo via, portarlo indietro.

Perduto.

John. E lui.

Perduti entrambi. Perduti insieme.

Torna a casa, John.

Torna a casa.

 

 

Un taxi da Baker Street a King’s Cross.

Poi in treno da King’s Cross a Cambridge.

Di nuovo un taxi da Cambridge – stazione centrale – al Fulbourn Hospital (appena fuori Cherry Hindton, subito prima di Fulbourn). Un’ora e quarantacinque minuti in totale.

Altre ventiquattro ore prima di vederlo di nuovo. Tre giorni dalla sua ultima (e prima) visita all’ospedale. Non aveva resistito a lungo, senza niente da fare, senza John accanto e senza un motivo valido che giustificasse quell’assenza – come nei tre anni di vagabondaggio che avevano preceduto quell’assurda situazione.

L’infermiera lo riconobbe quando attraversò il portone d’entrata, ma non la salutò. Il cattivo gusto degli interni lo preparò mentalmente a ciò che lo aspettava due piani più su. Prese l’ascensore e salì.

Non aveva bisogno di vedere Harris, motivo per cui non lo aspettò come facevano sempre Mycroft e Lestrade. Si erano chiariti alla perfezione l’ultima volta che si erano visti: poteva venire quando voleva a patto che non provocasse cambiamenti ingenti nella psiche di John – parole sue. Ovvero: “puoi venire quando vuoi a patto che continui a fingere di non esistere. Almeno finché non te lo dirò io”.

Un moto di disgusto gli era nato nello stomaco per quel povero essere umano designato come uno dei migliori psichiatri della nazione. La voglia improvvisa di fargli del male, un prurito alle mani come non gli capitava da anni. Il lato peggiore della sua sociopatia: le diagnosticate crisi di aggressività che, modificando il comportamento, lo rendevano un Disturbo di Personalità accademicamente e clinicamente riconosciuto.

Due cose lo tenevano nei ranghi: John e il suo raziocino. Ora che ne era rimasta solamente una, l’altra era molto meno propensa a compiere il suo dovere inibitorio.

Percorse il corridoio bianco a passo sicuro, entrando nella grande sala comune e cercando subito la figura di John. Incrociò lo sguardo di due infermieri che subito fecero per alzarsi dalle loro postazioni, ma riconoscendolo lasciarono perdere, accogliendolo con un semplice cenno del capo.

Probabilmente Harris aveva parlato di lui al personale. Bene.

C’erano delle regole da seguire per chi gli stava intorno, e su questo Harris era stato chiaro: se John doveva credere di parlare con un’allucinazione, gli infermieri dovevano assolutamente limitare qualsiasi reazione alla presenza di Sherlock. Perché, tecnicamente, loro non avrebbero dovuto vederlo.

John era astuto e soprattutto un buon osservatore, quando lo voleva, quando si stuzzicava il suo istinto da soldato che lo metteva istantaneamente all’erta. Motivo per cui non potevano permettersi errori. E la cosa valeva anche per eventuali accompagnatori di Sherlock stesso (mrs. Hudson, Lestrade, Mycroft, Harriet Watson).

Il più grande gioco di ruolo mai messo in atto(5), in cui Sherlock si era guadagnato la parte di Attore Protagonista senza nemmeno volerla.

Non gli piaceva.

Come al solito, John era seduto in una delle poltroncine accanto alla finestra, la stessa della visita precedente (Sherlock temeva che fosse la stessa di sempre, in realtà). Teneva sulle gambe un libro aperto ma lo sguardo vagava, infinito, oltre al vetro, puntato al cielo grigio.

Gli si avvicinò a passo lento ma sicuro, sospirando piano, senza farsi sentire.

Su il sipario.

« “Cessando di essere pazzo, diventò stupido” » lesse a voce bassa, fermandosi dietro lo schienale della poltrona.

Rapido ragionamento. Marcel Proust, “Alla Ricerca del Tempo Perduto”, sette volumi, John era al terzo – riconosceva il verso. Era avanti nella lettura, il che presupponeva che avesse già letto i primi due libri. L’allucinazione di Sherlock avrebbe dovuto sapere da dove veniva. John non poteva sapere se Sherlock avesse o no già letto quel libro, dunque probabilmente la sua allucinazione si sarà astenuta dal fare commenti sulla trama. Potrebbe avere commentato la sua provenienza, tra l’altro abbastanza intuibile: libro nuovo, copertina rigida di tela nera con caratteri in argento (edizione costosa), non rovinato, angoli intatti, letto solo una volta; non esattamente un libro da biblioteca interna del reparto, sia oggettivamente che per contenuto. Biblioteca privata, dunque. Non era uno dei libri di John (li aveva visti tutti ed erano ancora tutti a Baker Street). Facile.(6)

« Non avrei mai creduto che uno come il dottor Harris leggesse Proust » commentò – una frase di ampio respiro, non troppo precisa ma non esageratamente vaga.

Prestare attenzione ad ogni frase, al minimo particolare. Taci se devi sbagliare. Un errore e tutto crolla, nessuna seconda chanche.

John sorrise a labbra chiuse, girandosi in sua direzione con una luce pacata negli occhi, quasi dolce. « Non ci sto capendo molto, in realtà. Avevi ragione » gli disse.

Gli fece spazio sul bracciolo della poltrona. Sherlock, seguendo il gesto, si sedette su di esso.

Fu in quell’istante che si accorse di quanto il loro rapporto, in quei tre anni, fosse proseguito (in sua assenza). John si sistemò meglio sulla seduta della poltrona e, chinandosi in sua direzione, si appoggiò a lui con la spalla e la testa.

Un attimo di sorpresa che, fortunatamente, John non notò. Holmes fu abbastanza veloce nel considerare quale gesto sarebbe stato più opportuno (appoggiargli la mano sulla spalla, abbracciarlo, sfiorargli i capelli... troppe possibilità, campo inesplorato, pochi dati a disposizione) e, dopo una veloce analisi ed un notevole salto del vuoto, la scelta di appoggiargli la mano sulla parte posteriore del collo sembrò essere quella giusta.

Ignaro di tutto ciò che si stava scatenando nella mente – e nel cuore? – di Sherlock, John continuò a parlare.

« Non mi dispiace come libro, dopotutto. Quando non ci sei è un ottimo passatempo, nonostante Elise continui ad invitarmi a vedere i cartoni animati con lei appena può » chiacchierò.

Informazioni. Elise era la ragazza davanti alla televisione che guardava sempre programmi per bambini. “Quando non ci sei” presupponeva che John non avesse sempre le allucinazioni, o comunque non continuamente. Bene, poteva giocare a suo favore, probabilmente.

La buttò sullo scherzo, questa volta: « magari sono più interessanti di quello che sembrano » disse con una sottile ma palese ironia.

John ridacchiò. « Sì certo, vedere i Teletubbies è sempre stato uno degli obiettivi della mia vita » scherzò.

La sua risata ebbe il potere di incurvare le labbra di Sherlock in uno strano moto di nostalgia. Al contempo, sempre per lo stesso motivo, lo stomaco gli si chiuse in una morsa. Si comportò come se niente fosse.

Parlarono del più e del meno per la successiva mezz’ora. Era complicato, a volte, assecondare discorsi che John dava l’idea di avere già affrontato con “lui”, ma con qualche veloce considerazione e sfruttando la profonda conoscenza che aveva di Watson era riuscito a cavarsela.

D’altro canto, John aveva continuato per tutto il tempo a rimanere appoggiato a lui, chiacchierando con un sorriso sulle labbra che non gli si addiceva – così vuoto e stranamente dolce, docile, arrendevole – mentre Sherlock, ad un certo punto, aveva cominciato a passare il pollice avanti ed indietro sull’attaccatura del capelli di John, in una sorta di piccola carezza. Contatto che non era risultato sgradito ma, soprattutto, che era sembrato abituale.

E il suo stomaco si era serrato ancora di più (se possibile).

Ad un certo punto, semplicemente, non ci era più riuscito.

« Io vado » aveva detto.

Nessuna spiegazione, nessuna motivazione. Temette di avere appena compiuto l’errore fatale.

Ma John semplicemente annuì: « sì, ci vediamo dopo » lo salutò. Senza volere spiegazioni, o motivazioni.

Come se uscisse dal 221B diretto al Barts, o chissà dove. Come se fosse una cosa normale. Come se tornasse dopo poche ore.

E in realtà sarebbe tornato, probabilmente, ma non lui. L’altro. L’altro Sherlock Holmes. Lo Sherlock Holmes di John Watson che lui cercava con tutto se stesso di ricreare, e che si prendeva il suo posto accanto a John.

Alzandosi dalla poltrona e dirigendosi all’esterno, Holmes trattenne il respiro in una smorfia. La sua prima visita “ufficiale” era durata poco più di quaranta minuti.

Quaranta minuti prima di crollare sotto il peso della realtà.

×

Una volta arrivato alla stazione di Cambridge, prima di prendere il treno fu costretto a rifugiarsi nel bagno degli uomini. Fortunatamente lo trovò vuoto, dato che si chinò sul primo lavandino disponibile in preda ad un attacco di nausea.

Sputò solo saliva. Non aveva mangiato quasi niente in due giorni, il suo stomaco non aveva niente da rigettare nonostante sentisse l’urgenza di farlo.

Desiderò di rimettere il fegato. Il pancreas. Gli intestini, le viscere, i polmoni, il cuore. Soprattutto il cuore. Sia l’organo che quello metaforico. Tutto il pacchetto di sentimenti che lo spingeva in ginocchio e che non sapeva come gestire: sputarli fuori e scaricarli nelle fogne di Cambridge per darli in pasto ai ratti.

Liberarsi dell’immagine di un John che non aveva più niente, di John. Un involucro di pelle ed ossa seduto su di una poltrona a leggere libri che non capiva. Che non poteva capire. Un John che parlava con qualcuno che era lui ma che al contempo non lo era, che si faceva toccare da qualcuno che era lui ma non lo era, così intimo, così diverso in senso buono, nel senso in cui avrebbe voluto fossero realmente, ma loro due, non John e l’altro.

Invidia, gelosia, rabbia, frustrazione. Sempre per John, un pattern che si ripete, un copione già visto.

Mycroft aveva ragione, Sherlock si trovò costretto a dargliene.

Importarsene non è un vantaggio.

 

 

Cinque minuti e trentotto secondi.

Vincent Lone, 33 anni, dipendente per una ditta di imprese funebri, trovato morto nella bara che tecnicamente non era lui a dover riempire, ma la vecchia signora Margareth Bones, 98 anni, morta per arresto cardiaco al Royal London Hospital quattro giorni prima e ritrovata chiusa nello sgabuzzino della camera mortuaria quattro giorni dopo.

Arma del delitto: vaso di terracotta per fiori – alcuni frammenti erano stati ritrovati nella ferita sul cranio e i cocci dello stesso nella spazzatura dietro lo stabile. Impronte digitali sui cocci del vaso, due serie: signore e signora McCord, proprietari dell’agenzia di pompe funebri. Considerazione sulle impronte: non indicative, potrebbero essere state lasciate prima del delitto. Considerazioni sul cadavere: ripulito dal sangue con prodotti per la pelle (post mortem), rassettato, le unghie tagliate (post mortem), i capelli spuntati (post mortem), la camicia riabbottonata fino all’ultimo bottone del colletto (post mortem). Gesti abituali, gesti inutili, perdite di tempo che dicevano più del necessario. Nel suo portafoglio: una carta ricaricabile, l’abbonamento per due palestre, una piccola foto ingiallita di famiglia, una fotografia piegata in quattro parti del signor McCord di dieci anni più giovane non esattamente vestito e non esattamente pudico.

Conclusione talmente palese da rasentare il ridicolo.

«  È stata la moglie dopo aver scoperto che il loro tuttofare aveva una storia con il marito da più di un decennio, probabilmente ancora da prima che i coniugi si conoscessero » disse a Lestrade.

Compreso il tragitto dal taxi alla scena del delitto, i convenevoli piccati scambiati con Anderson e gli sguardi stupiti dei poliziotti che lo guardavano come se fosse Cristo redivivo, caso risolto in cinque minuti e trentotto secondi.

E non ci aveva creduto nemmeno per un istante.

« Lestrade, questo caso è talmente facile e noioso che persino uno come te sarebbe in grado di risolverlo » disse, acido, rialzandosi dalla sua posizione inginocchiata accanto alla bara aperta per guardare l’Ispettore dritto negli occhi.

Quello, interrompendosi a metà dell’intenzione di cominciare una frase, ammise la sconfitta con un sospiro.

Si portò le dita all’attaccatura delle sopracciglia e, massaggiando piano, disse: « ieri sera mi ha chiamato tuo fratello. Dice che sono tre giorni che non esci di casa... » lasciò cadere.

Lo sguardo di Sherlock si fece ancora più duro e tagliente.

« Beh, puoi dire al mio caro fratello che ciò che faccio o meno con il mio tempo rimane una mia prerogativa » commentò, palesemente seccato.

Lestrade sospirò ancora. « Sherlock, ho parlato anche con mrs. Hudson. Mi ha detto che non dormi da almeno trentasei ore e che passi tutto il tempo a leggere libri di psichiatria e psicologia. Senti, so quello che stai passando, però non– ».

Si dovette interrompere a causa del modo in cui il consulting detective lo trapassò, congelandolo con i suoi occhi incredibilmente chiari.

« Ciò che voglio che riferisci a mio fratello vale anche per te, Greg » utilizzò il suo nome, apposta, sottolineandolo con la voce in modo quasi minaccioso: « il modo in cui impiego il mio tempo rimane un interesse mio e mio soltanto » disse, per poi aggiungere: « ti pregherei di non sprecarlo con casi come questo, la ritengo un’offesa alla mia intelligenza e  alla tua. E ora, se vuoi scusarmi... » ma non aspettò il permesso di Lestrade per andarsene, girandogli velocemente le spalle ed incamminandosi a passo svelto verso l’uscita.

Se John fosse stato lì, probabilmente lo avrebbe rimproverato per i modi bruschi con cui aveva trattato una delle poche persone che potesse considerare la cosa più vicina ad un amico che gli era rimasta.

Se John fosse stato lì, probabilmente lo avrebbe lodato nonostante l’imbarazzante facilità dell’enigma, alleggerendo tutta quella frustrazione che si portava addosso come una maledizione.

Ma John non era lì, e Sherlock non si era mai sentito più arrabbiato e perso di come si era sentito in quel momento.

 

 

Maggio.

« Ieri il tempo è stato abbastanza clemente, gli infermieri ci hanno dato il permesso di andare in cortile ».

Conversazioni qualsiasi di argomenti qualsiasi. La stagione, i libri, il tempo. Le uniche cose che John poteva permettersi, fra quelle mura.

« Il parco di questo posto mi ricorda molto Regent’s Park. Quello vicino a Baker Street. Il dottor Harris mi ha detto che in estate alcuni dei pazienti coltivano le aiuole e ci sono fiori e piante ovunque. Dovrebbero fiorire presto ».

Seduti nelle solite poltrone, vicine, le mani una accanto all’altra sui braccioli, il mignolo di John che si era intrecciato al suo non appena si era seduto e non l’aveva più lasciato.

Il contatto lieve della sua pelle tiepida. Sollievo e nausea al contempo.

« Credo che li vedrò ».

Sherlock deglutì, fingendosi stoico. « Li vedrò anche io ».

 

 

Il DSM-IV, ovvero il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder, divideva le malattie mentali in assi tematici. Gli assi erano cinque. Sherlock arrivò a capire che il problema di John poteva posizionarsi a cavallo fra gli Assi I e II, ma non andò più avanti di così. Non c’era niente di specifico. Caso anomalo.

L’ICD-10, o International Statistical Classification of Diseases, Injuries and Causes of Death, trattava le malattie mentali nel capitolo cinque. Anche in questo caso non c’era nulla di preciso, nulla di completo, niente di specifico. Caso anomalo.

Passò ai testi universitari. Ore e pagine di spiegazioni di teorie di base e metodi di ricerca e trattamento. Materiale utile solo a matricole universitarie. Inutile.

Testi d’autore. Praticamente decine di libri che trattavano un solo disturbo mentale per volta. Neuropatie, neuropatie degenerative, neuroscienze, psicosi, psicosi delirante, psicopatia, disturbi della personalità, schizofrenia... intere descrizioni di disturbi, altre teorie ed ipotesi. Nulla di fatto. Inutile.

Riviste del settore e nuove ricerche in proposito. Studi condotti su pazienti decretati “non curabili” o, come sempre facevano gli strizzacervelli nell’usare le parole per addolcire la pillola, “pazienti che non rispondono alle cure”.

Comportamenti di gruppo, crisi deliranti, confessioni di traumi infantili mai superati capaci di segnare un’intera vita. Un primo momento di miglioramento seguito da una caduta repentina con una regressione allo stadio iniziale della malattia. Crisi acute con manifestazioni anche violente. E parole, parole, parole, parole, parole sprecate a descrivere ogni fase, ogni frase, ogni occhiata, ogni impressione, ogni segno; stadio dopo stadio accompagnati per mano dal medico che aveva promesso di curarli e invece li aveva decretati materiale di studio. Cavie da laboratorio. Allo stesso livello dei topi a cui vengono iniettate cellule cancerogene nella speranza di trovarne la cura.

Con uno scatto, Sherlock chiuse il British Journal of Psychiatry. Dalle finestre del salotto entrava fievole la luce dell’alba.

Della terza alba.

Trentasei ore. Tre giorni passati sfogliando e leggendo qualsiasi cosa potesse essere utile a capire.

Capire cos’aveva John, come poteva aiutarlo, come poteva portarlo indietro, farlo tornare al tempo in cui l’altro non c’era, non esisteva, non era stato creato. Guidarlo sulla via della verità senza che essa lo distruggesse, o cancellasse quel poco di lui che Harris gli aveva assicurato essere rimasto, da qualche parte dentro John Watson, ma che Sherlock non aveva ancora visto.

Trentasei ore.

Capì di essere giunto al suo limite fisico e mentale quando i nomi di tutti i pazienti di cui leggeva i resoconti si trasformarono in “John Watson”.

 

 

Ancora maggio.

« Harry è venuta a trovarmi ».

Il tempo incredibilmente sereno aveva permesso ai pazienti del Fulbourn di uscire all’aria aperta. Tiepidi raggi di sole attraversavano le fronde ancora seminude degli alberi sopra le loro teste, macchiando il tappeto erboso di luce.

« Mi ha chiesto di andare a vivere a Londra con lei e Clara. A quanto pare sono tornate insieme. Ha detto che è stata l’unica persona in grado di ascoltarla dopo... beh, dopo di me ».

Seduti vicini, la mano di Sherlock sulla gamba di John, la testa di John appoggiata sulla spalla di Sherlock.

Contatti lievi, effimeri. Calore rubato attraverso la stoffa degli abiti.

La gola chiusa, una piccola stilla di gelosia mascherata da lieve fastidio. « Tu cos’hai risposto? » domandò Sherlock, la voce piatta, le iridi azzurre ad osservare John con la coda dell’occhio.

« Le ho detto di non venire più qui. Che è meglio così ».

Un sorriso triste sulle sue labbra, una tonalità malinconica d’indaco nei suoi occhi persi nella lontananza del parco.

« Non tornerà ».

Un sospiro da parte di Sherlock. « No, non tornerà ».

 

 

Sherlock sapeva che era un sogno, ma era troppo bello per chiedere alla propria coscienza di svegliarsi.

Erano seduti in un taxi e John, accanto a lui, parlava. Si lamentava, in realtà. Del latte che sembrava sparire per magia dal loro frigorifero, della sua mania di bere sempre e solo una specifica marca di tè, dei pezzi di cadavere nel congelatore e del fatto che usasse il suo shampoo e lo finisse senza dirgli mai niente.

E Sherlock sorrideva appena, osservandolo mentre parlava del buco nella tenda della doccia e della fialetta di soda caustica che non doveva assolutamente tenere a meno di dieci metri da qualsiasi alimento.

Non sapeva dove stava andando il taxi, non sapeva perché erano a bordo (Lestrade? Un caso? Non lo sapeva, non lo sapeva proprio) ma riconosceva Trafalgar Square, il Big Bang, il Big Eye, il London Bridge, Waterloo, i Docklands. Il black cab semplicemente continuava la sua corsa lungo le famigliari strade londinesi e John parlava nel più naturale dei modi, le braccia incrociate al petto, le sopracciglia aggrottate in quella sua caratteristica espressione preoccupata e fintamente arrabbiata al contempo.

Poi, il sole entrò dalle finestre. La sua mente si era riposata abbastanza. Il sogno svaniva.

Sherlock si svegliò.

Osservò il soffitto del salotto, i fogli d’appunti sparsi sul pavimento insieme ai libri, la fievole luce azzurrina della prima alba ed il pulviscolo che essa stessa illuminava, fluttuante nell’aria. Si rese conto di aver dormito sulla poltrona di John, una tazza mezza piena di tè ormai freddo appoggiata sul tappeto ai piedi della poltrona.

In quella casa, l’immagine di John era ormai esattamente come quella nel sogno.

Lentamente, svaniva.

 

 

Giugno. La prima volta in cui Sherlock sentì la fredda e spettrale mano di un’irrazionale paura stringere le dita attorno al suo cuore asincrono e rinnegato.

« Oggi è il suo terzo anniversario ».

Aveva già capito, Sherlock, ma fece finta di nulla. Autoprotezione. Processo razionale di difesa.

« Di chi? » domandò, nonostante lo sapesse, senza riuscire ad evitarselo.

« Di Sherlock » rispose semplicemente John, intento a disegnare sul palmo della sua mano aperta figure inesistenti con una pressione sottile del dito indice.

Doveva provare. « Il mio » disse Holmes.

John alzò gli occhi su di lui. Sbagliato, gridò la mente del detective.

« No » rispose infatti John: « quello di Sherlock ».

Ah, eccola la pazzia. Chissà se Harris lo sapeva, nella sua onnicomprensiva inabilità nel fare il suo lavoro, di questo lato del “problema” di John – come tutti amavano definirlo in sua presenza.

Parlava di lui con lui alla terza persona.

Parlava di lui con lui alla terza persona.

« Sì... » soffiò Sherlock, riprendendosi subito (ma con un certo sforzo) dal piccolo shock: « ...lo so » disse.

La mano di John smise di disegnargli chissà cosa sul palmo e, in una carezza di polpastrelli, fece aderire le loro mani l’una all’altra ed intrecciare le loro dita.

« Vorrei andare al cimitero, l’anno scorso non ci sono andato. Pensavo fosse vivo e me ne sono completamente dimenticato. Vorrei rimediare, ma... la sua tomba è a Londra e io... ».

La sua voce tremava, si affievoliva, sussurrava. Sherlock non ebbe il fegato – il cuore – di guardarlo.

« Scusami, Sherlock... scusami... » implorò, portandosi la mano libera dalla stretta a nascondersi gli occhi lucidi di lacrime.

Tutto quello che Sherlock poté fare, fu resistere.

Resistere alla tentazione. Resistere alla voglia di andarsene. Resistere al tempo. Ripagare la pazienza sperando che essa, un giorno non tanto distante, gli restituisse il favore.

Tutto quello che Sherlock poté fare, fu ricambiare la stretta, intrecciando di più le loro dita.

E sentirlo implorare una persona che era lui ma che, nella “realtà” di John, non era il “lui” seduto al suo fianco in quel momento.

 

 

Il mondo era di nuovo quel groviglio confusionario di informazioni avulse da un contesto.

Sirena in lontananza, l’abbaiare di un cane, niente di importante, niente di eccitante, il dito di polvere sulla mensola del caminetto è scomparso, mrs. Hudson, non ha toccato i libri, sono sempre nello stesso posto, c’è odore di patate al forno, passi al piano di sotto alle dieci di sera, ospiti, parenti, da lontano?, campagna periferia Whitechapel oltreoceano Florida? Florida. L’aria stantia, finestre non aperte a sufficienza, pioggia, non voleva bagnare la scrivania e il tappeto, inutile, non c’è più nessuno che si possa sedere a quella scrivania, non c’è più nessuno a cui importa del tappeto, non c’è più nessuno e basta. L’aria stantia non cambia la sua composizione molecolare, azoto ossigeno argon diossido-di-carbonio neon elio monossido-di-azoto kripton metano idrogeno ossido-di-azoto ozono radon vapore-acqueo, presenza di gas nobili, i gas nobili sono atomi che hanno completato l’ottetto del guscio di valenza, sono atomi che non hanno bisogno di legarsi con altri atomi, se non artificialmente, Mycroft diceva che erano come lui, Mycroft si era sbagliato. La psicosi delirante si forma quando la realtà è percepita correttamente ma viene valutata erroneamente, le cause principali potrebbero essere tante e troppe, servono altri studi, servono altre cavie, John.

Grugnì, seduto sul pavimento con la schiena appoggiata alla poltrona di John, portandosi le dita delle mani a massaggiarsi le tempie.

Ma il ronzio non si fermava. Milioni, miliardi, triliardi di informazioni tutte insieme e nessun filtro, nessuna capacità di contenerle e limitarle, selezionarle. Testa pesante, la sensazione di mani invisibili che premono la spina dorsale da parti opposte per piegarla in angoli improponibili, la gola secca e la bocca impastata.

Respirare, espirare, sospirare, occhi chiusi. Ricerca della calma.

Inutile.

Cose che mancano: la seconda tazza sul tavolino da caffè, il giubbotto verde di John nel ripostiglio all’entrata, il secondo spazzolino in bagno, lo shampoo, l’accappatoio a righe, il laptop, lui, la sua presenza, la sua voce, la sua calma, la sua agitazione, il suo sentimentalismo dozzinale, il suo sorriso, il suo “Sherlock!”, la sua irritazione, i suoi complimenti, lui, lui, lui, lui, lui. L’equilibrio. La mano davanti al petto che impedisce un salto nel buio.

« Dannazione... » fu solo un sussurro quello di Sherlock, ma gli occhi serrati e il fiato trattenuto in un moto di stizza e confusione accompagnarono quella parola e le diedero tutto un altro significato.

Ne aveva bisogno.

Soluzione al 7%. Sicura, controllata libertà. Ne aveva ancora, nascosta in camera. Lestrade non lo sarebbe mai venuto a sapere. Mycroft lo sarebbe venuto a sapere ma non avrebbe avuto niente da dire. Mrs. Hudson avrebbe capito. John lo avrebbe disprezzato.

Ma John non c’era.

John non avrebbe voluto.

Ma John non c’era.

John gli avrebbe strappato di mano la siringa e dalla testa quell’idea. Gli avrebbe impedito di farlo a costo di picchiarlo.

Ma John non c’è.

Si alzò dal pavimento così in fretta che il digiuno gli fece girare violentemente la testa, ma non perse l’equilibrio. Si diresse a passo svelto verso camera sua, afferrò con entrambe le mani il cassetto della biancheria e lo rivoltò, rivelandone il doppio fondo da cui estrasse un astuccio blu di marocchino.

L’unico posto in cui John, così pudico in tutto ciò che faceva, non avrebbe mai guardato. Il doppio fondo che non aveva mai scoperto.

Aveva promesso a se stesso di non farlo. Lestrade aveva giurato di non fargli mettere piede su una scena del crimine, se avesse continuato a farsi, e Sherlock non aveva avuto difficoltà a crederci; per quanto bisogno di lui Lestrade avesse, non era il tipo di persona che dava soddisfazione ai drogati.

Solo dopo, e solo silenziosamente, lo aveva promesso anche a John. Quando ormai era acqua passata, la sua dipendenza, ma il fatto stesso che avesse tenuto quell’astuccio nascosto in camera, anche se intonso da mesi, la diceva lunga su quanto seriamente lo intendesse.

Per ogni evenienza. Per i casi di emergenza. Per serate come quella.

Perché John non c’era, e non sarebbe tornato, e questo non era come girare per l’Europa a caccia della rete di Moriarty, in cui l’adrenalina non mancava mai e doveva dormire con un occhio aperto per stare attento alle pallottole. In quei tre anni aveva avuto un obiettivo, un perché, un motivo. Tornare a casa. Ciò che teneva impegnata la sua mente da un fronte non la rendeva debole dall’altro. Equilibrio.

Ma ora quell’equilibrio era spezzato. Era John il suo equilibrio, e John non c’era, e la testa era un casino, un continuo accumularsi di elementi a cui serviva un controllo, pacchetti di dati senza abbastanza potenza di calcolo per elaborarli.

Sedendosi sul letto estrasse con urgenza la siringa ipodermica sterile e la fialetta di liquido trasparente. Con movimenti precisi che ritrovò in un’abitudine sepolta da qualche parte estrasse la solita dose, quella innocua ma efficace, assicurandosi con cura che non ci fossero bolle d’aria. Non gli servì nemmeno il laccio emostatico: tenendo la siringa con i denti si colpì il braccio con due dita, strinse il pugno ed eccola lì, la vena.

Si fermò solo quando vi appoggiò sopra l’ago. Un attimo, l’indecisione di un istante. No. Era troppo doloroso, senza.

Si iniettò la cocaina in vena con fin troppa facilità.

 

 

Ancora giugno.

Sherlock attraversò a passo cadenzato il corridoio, ma quando entrò nella sala comune si fermò di colpo.

Non c’era. Le solite poltrone davanti alla finestra erano vuote.

Stomaco chiuso, un moto di agitazione. Rapida ripresa. Calcolo delle possibilità.

Uno: cortile.

Chiese agli infermieri ma no, dato il tempo incerto non avevano lasciato uscire i pazienti, quel giorno.

Due: terapia di gruppo.

Entrò in tutte le stanze preposte ma erano vuote, l’orario di visite difficilmente coincideva con le terapie di gruppo.

Tre: terapia individuale dal Dr. Harris.

Bussò alla porta dell’ufficio ed entrò, ma lo psichiatra era solo. Gli espose brevemente il problema. Quello sorrise.

« Le scale » gli disse: « provi le scale, è da qualche giorno che ci va ».

Poté capire dalla sua espressione ignobilmente rilassata che non si era nemmeno posto il problema del perché John lo facesse, impegnato com’era a cercare un nome per la sua nuova teoria sui disturbi mentali e un titolo all’articolo che sarebbe nato dall’analisi del caso di John. Deglutendo un moto d’ira, annuì brevemente e richiuse la porta.

Alle scale si poteva accedere tramite una porta con maniglione a spinta, proprio di fianco agli ascensori. I pazienti non potevano accedervi – non potevano accedere direttamente alla zona degli ascensori – ma Sherlock era venuto a sapere che John era “un caso speciale”, praticamente se stesso e totalmente innocuo, dunque sia il personale che i medici lo lasciavano girovagare con un po’ più di libertà rispetto agli altri.

Spinse il maniglione e si immise nella tromba delle scale. C’era silenzio, in quel posto, e fra lo scendere ed il salire Sherlock decise di salire.

Era la decisione più logica. Una persona desiderosa di andarsene avrebbe fatto le scale in discesa ma non qualcuno come John, che si era fatto portare in quel luogo di sua volontà e allontanava chiunque gli proponesse di uscirne. Doveva essere salito per forza.

E fu proprio in alto che lo trovò, seduto sull’ultimo gradino della scalinata accanto ad un’uscita chiusa a chiave. La porta che dava sul terrazzo, considerò Sherlock, deduzione comprovata da un cartello con una freccia e la scritta “rooftop”.

Perché sul tetto?

Si fermò qualche gradino sotto di lui, osservandolo. John scostò gli occhi chiari dal libro che stava leggendo nella penombra della rampa e gli sorrise appena. « Già finito il giro di ricognizione? » gli domandò.

Ancora una volta non sapeva di cosa stava parlando. Come arrivare quando la conversazione è già iniziata.

Annuì con un cenno, salendo anche i rimanenti gradini che li separavano: « Harris sembra su di giri » commentò laconicamente, sedendosi di fronte all’altro sull’ultimo gradino, spalle appoggiate alla ringhiera.

John chiuse il libro, girandosi meglio in sua direzione ed appoggiandosi con le spalle al muro. « Credo che gli abbiano chiesto di scrivere un saggio per il British Journal of Psychiatry sul mio caso. Questa mattina ha accennato al fatto che sto diventando famigerato, nell’ambiente » gli spiegò con calma.

Deduzione corretta.

« E perché mai? » rispose però Sherlock, forse con tono un po’ troppo alterato.

John aggrottò le sopracciglia ma non smise di sorridergli: « dice che il mio è un caso anomalo » ammise con semplicità.

Sherlock si trattenne dal commentare in maniera poco gentile.

Quello non era John. John Watson non accettava gli avvenimenti così, senza lottare, senza ribellarsi, senza discutere. John Watson non avrebbe lasciato che lo trasformassero in un argomento da presentare a qualche simposio internazionale di Psichiatria. John Watson non era l’uomo seduto davanti a lui, eppure lo era al contempo.

Stinse i denti con forza.

Dove sei, John? Dove sei?

« Perché sulle scale? » domandò invece, trovano un nuovo veicolo per la sua incontenibile voglia di polemizzare: « ti sforzerai la vista con quel libro, Proust è scritto in piccolo. Finirai per farti venire l’emicrania » borbottò, seccato.

John sbuffò. « Il silenzio, ok? C’è silenzio. Avevo voglia di andare sul tetto a prendere un po’ d’aria, ma a quanto pare quella zona è off-limits anche per i preferiti del reparto » ironizzò appena senza nascondere il tono seccato alla John, quello che usava quando Sherlock cominciava ad annoiarsi e lo sommergeva di “mi annoio” e “fai qualcosa”.

Un piccolo segno di famigliarità che fece arricciare le labbra di Sherlock.

Forse fu per quello, che non se ne accorse. « Cos’è, hanno paura che ti butti di sotto? » ironizzò pesantemente.

Quando si rese conto della frase che aveva appena pronunciato era ormai troppo tardi.

John era sobbalzato a sentire quelle parole, e lo aveva fissato con occhi prima spaventati, poi carichi di rabbia. Sherlock lo osservò a sua volta ma, come al solito, le parole per chiedere scusa non gli uscirono dalla bocca, bloccate in gola inespresse e a malapena formulate.

« Vaffanculo » soffiò John con disprezzo, alzandosi e scendendo in fretta le scale, sparendo dalla sua vista.

Holmes, dal canto suo, non tentò nemmeno di fermarlo.

 

 

La seconda volta, quasi una settimana dopo, fu di morfina.

Stessa quantità, effetto opposto. Non dormiva da quattro notti, novantasei ore, la maggior parte delle quali passate a leggere – per la seconda volta – manuali di trattamento psichiatrico.

Il salotto era stipato di volumi che mrs. Hudson non spostava solo per compassione. Il tavolino da caffè era praticamente scomparso, il divano liberato da fogli ed appunti solo saltuariamente, il pavimento invaso di linee e linee di scrittura scombinata, sottile e fitta.

Solo la poltrona di John, intatta, resisteva a quella furia di parole e concetti.

Ogni tanto veniva chiamato da Lestrade, ma la maggior parte delle volte diceva di no, senza nemmeno pensarci su. Mycroft provava a parlargli un giorno sì ed uno no ma Sherlock era diventato bravissimo ad escludere la sua voce, dunque a non sentirla nemmeno. Mrs. Hudson era l’unica, la sola che riusciva a farlo alzare, a mandarlo in doccia con la minaccia di prenderlo a calci e a fargli mangiare qualcosa, ma lei era anche la prima ad essere spaventata da quel nuovo Sherlock, tornato dal regno dei morti solo per rimanere invischiato in un limbo d’espiazione.

E probabilmente mrs. Hudson aveva anche capito, ma non diceva niente.

Meglio così.

Come sempre, non gli fu necessario il laccio emostatico. L’ago centrò la vena con la facilità dell’abitudine e, dopo poco, la morfina cominciò a fare effetto.

Intontito, si diresse a passo lento e strascicato verso la camera al piano di sopra, la manica sinistra della camicia ancora arrotolata al di sopra del gomito. Ci mise un paio di minuti prima di centrare la serratura con la chiave, ma quando vi riuscì aprì piano la porta, fermandosi sulla soglia.

L’unica parola che avrebbe definito perfettamente quello spettacolo era il termine “desolante”.

Nessuno metteva piede in quella camera da tre anni dato che odorava di stantio, un odore pungente che gli ferì le narici ma a cui non badò. L’armadio, la cassettiera ed il comodino erano ricoperti con teli di nylon semi-trasparenti. Il materasso era nudo, sul letto – le lenzuola erano state rimosse e il cuscino riposto nell’armadio. I vetri della finestra, sporchi ed opachi, erano senza tende.

La camera di un’assenza. Una stanza che difficilmente sarebbe tornata come prima – lenzuola bianche, una coperta di un giallo imbarazzante (regalo di Harry), cassetti in ordine pieni di maglioni, ante d’armadio lasciate aperte su abiti insacchettati ma freschi di lavanderia, un comodino con sopra una lampada ed un libro letto a metà con le pieghe agli angoli delle pagine, il lieve odore di sapone e dopobarba (tracce della sua presenza).

Sherlock chiuse gli occhi con un mugolio confuso, affrontando i tre passi che lo dividevano dal letto senza nemmeno riaprirli per vedere dove mettesse i piedi. Una volta che i suoi stinchi urtarono la parte bassa e legnosa dell’intelaiatura, si lasciò andare con le ginocchia sul materasso e ci si stese, girandosi su un fianco.

Nell’aria, solo dolore e polvere.

 

 

Luglio.

Giornata piovosa. Il taxi lo aveva lasciato praticamente davanti all’ingresso, ma anche solo camminare lungo i due metri che separavano il veicolo dal portone gli aveva incollato alcuni capelli alla fronte. Gocce di pioggia erano scivolate piano nel colletto della giacca, bagnando quello della camicia bianca, ancora umido.

Classico tempo inglese.

Quando Sherlock non trovò John nella sala comune dell’ospedale, non chiese nemmeno indicazioni all’infermiere di guardia. Si diresse direttamente alle scale e, come se non si fosse spostato mai di lì, lo ritrovò seduto sull’ultimo gradino intendo a leggere Proust.

Aveva cominciato il quinto libro, notò.

Quando arrivò davanti a lui, rimanendo alcuni gradini più in basso, John si voltò a guardarlo con un’espressione seria. « Dove sei stato per tutto il giorno? » domandò.

Faceva ancora male, a volte, nonostante tutto.

Ci mise poco tempo, Sherlock, a pensare ad una possibile soluzione. Quando la trovò, pregò che funzionasse.

« Un caso » disse semplicemente.

John lo osservò per qualche istante. Un tempo lunghissimo, dalla prospettiva di Holmes. Ma finalmente si rilassò: « quello sul giornale? » domandò, tornando al libro (senza leggerlo davvero, gli occhi non si muovevano: fissava solamente le parole, in attesa di una sua risposta, attento alla conversazione).

Sherlock annuì con un cenno del capo. Harris gli lasciava leggere anche il giornale? Evidente. John era veramente il paziente più coccolato, se aveva il permesso di girovagare per l’ospedale ed il suo psicanalista gli prestava libri e quotidiani da leggere.

« E cosa ne pensi? » domandò poi, senza distogliere gli occhi dal libro.

Si chiese se non fosse una messa alla prova. Una sorta di test. John stava architettando qualcosa? E come? Perché? Aveva per caso cominciato a nutrire qualche dubbio? Avrebbe dovuto avvertire Harris?

No, non c’era traccia di agitazione o ansia, nel volto di John. Aveva, piuttosto, lo stesso atteggiamento di quando Sherlock faceva qualcosa di non molto buono e John voleva che ci arrivasse da solo. Cercava di impartirgli una delle sue lezioni. Ma perché? E per cosa?

Decise per il suo bene – e nell’interesse di avere abbastanza dati per poter sostenere una conversazione senza scoprire le sue carte – di chiedere delucidazioni all’unica persona che poteva fornirgliene.

« Cosa c’è, John? » domandò, rivoltando a suo vantaggio la situazione.

L’altro chiuse il libro in un botto, piantandogli addosso uno sguardo a dir poco seccato. « Due giorni, Sherlock! » esclamò: « sono due giorni che ti fai vedere solo la sera. Non ci sei per tutto il maledetto giorno. Si può sapere dove accidenti vai? » aggiunse, il tono mantenuto basso ma duro, da soldato.

Nuove informazioni: l’allucinazione di John stava cominciando ad essere più altalenante, certe volte spariva anche per giorni interi. Motivo? Motivo: ignoto. Supposizioni: comincia a capire qualcosa; ha dei dubbi; incertezze; qualcosa gli provoca disagio; ha deciso di seguire una delle terapie medicinali.

Sguardo veloce alla sua condizione fisica: niente pupille dilatate, niente sudorazione, niente segni di assunzione di antipsicotici. L’ultima possibilità – la più scientifica – era da escludere.

Optò per la strada più pericolosa.

« Io sono una tua creazione, John » disse, calmo, ancora in piedi poco più in basso di lui: « sai benissimo che non sono io a non essere presente, sei tu a non volermi. Mi stai escludendo ».

John negò con il capo. « Non potrei mai, lo sai » disse.

« Eppure non c’è altra spiegazione » insisté Sherlock.

Watson evitò di guardarlo negli occhi, fissando lo sguardo sulla ringhiera. Strinse le labbra in un pensiero profondo, sgradevole, prima di sospirare.

« Hai ragione » ammise poi: « è che a volte... non lo so, a volte mi farebbe piacere parlare con l’altro Sherlock, ma lui non... » borbottò.

Sherlock serrò i denti dietro le labbra chiuse. “L’altro” Sherlock? In che senso “l’altro”?

Rapida successione di idee, individuazione delle teorie più accreditate, segmenti logici dispersi nella pazzia.

John immagina un mondo in cui lui è vivo, ma è pienamente cosciente che sia tutta una sua illusione. Tanto che scambia anche lui, lo Sherlock reale, per l’allucinazione che lo accompagna.

Ma era cambiato qualcosa. Cosa?

Lui. Era cambiato lui.

Per quanto potesse provarci, non era dentro la mente di John. Poteva immaginare come funzionasse, vero, ma non nei minimi dettagli, non tanto quanto necessario perché recitasse in modo perfetto la parte dello Sherlock Holmes che John Watson aveva creato per se stesso. O in modo sufficientemente convincente per ingannarlo. Da qui il problema.

Oh, John era intuitivo, più di quanto aveva pensato potesse essere. Aveva notato che qualcosa non andava in lui (nello Sherlock reale). Alcune differenze, forse poche, ma fondamentali. Aveva dubitato di lui. Lo aveva “riconosciuto” come qualcosa di estraneo, come l’organismo umano fa con i virus, o con i batteri.

Ma l’idea che lui avesse davvero finto la sua morte, e che dunque fosse semplicemente vivo, doveva essere troppo forte, troppo distruttiva, per John. Perché John, semplicemente, aveva preferito credere che la sua mente avesse costruito un’altra bugia.

Che adesso ci fossero due Sherlock Holmes, entrambi falsi.

« Non importa » disse poi Watson, tornando a guardarlo con un lieve sorriso sulle labbra – la maschera che ormai aveva preso il posto del vero volto di John Watson. « Non importa. Prima, con Sherlock, le attese erano molto più lunghe... scusa se ti sono sembrato impaziente. Non sono più molto bravo, ad attendere » spiegò, nascondendo sotto al sorriso una dolorosa tristezza.

Di nuovo alla terza persona. Di nuovo parlava di lui come se fosse una cosa appartenente al passato e nel passato rinchiusa. Due falsi Sherlock Holmes ed uno vero che non ha possibilità di esistere ancora.

Labirintica, codarda mente, John.

Un contraccolpo più doloroso del dovuto, John.

×

Quando si separò da lui, scendendo le scale a ritmo sostenuto e cadenzato, invece di girare verso gli ascensori percorse il corridoio in direzione della sala comune. Individuò l’infermiere nella sua stanza con i vetri trasparenti e, bussando alla porta chiusa a chiave, gli disse dove si trovasse John e che probabilmente era fin troppo freddo, sulle scale, per i vestiti leggeri che indossava.

L’infermiere, ringraziandolo, si alzò e si diresse velocemente verso le scale. Lasciò la porta aperta.

Sherlock osservò attentamente cosa stesse facendo l’altra infermiera di turno, impegnata a parlare con una paziente dall’altro lato della sala, e senza farsi vedere sgattaiolò velocemente all’interno della guardiola. Trovare le chiavi della porta che dava sul tetto fu una passeggiata, considerato che erano state tutte opportunamente agganciate a delle targhette che indicavano esattamente quale chiave apriva quale porta.

Afferrò quella con su scritto “rooftop” e se la infilò in tasca. Facendo attenzione che l’infermiera non lo avesse notato, si diresse a passo svelto verso gli ascensori.

 

 

Gregory Lestrade era una persona paziente.

Ogni mattina, quando si alzava e si dirigeva in bagno per sbarbarsi, si guardava allo specchio e si ripeteva di essere una persona in pace con l’universo. Una sorta di auto-convincimento.

Non funzionava sempre, ma almeno gli evitava di andare in ufficio spazientito e deluso dalla sua vita “tutta lavoro e niente famiglia”. O meglio, diciamo che la sua famiglia aveva ottenuto il divorzio consensuale ed ora conviveva con un insegnante di ginnastica, il che rendeva il tutto ancora più squallido e lui bisognoso di auto-convincersi.

Sì, Lestrade era una persona paziente. Doveva sopportare superiori ed inferiori di grado, compilare rapporti infiniti, consultare medici legali e una svariata quantità di specialisti in materie forensi, compilare altri rapporti e stare in ufficio oltre l’orario di lavoro (a volte anche oltre l’orario consentito).

Molte persone riuscivano a farlo arrabbiare, certe volte anche infuriare, ma non aveva mai perso la pazienza. La parole grosse erano frequenti a Scotland Yard – nessuno pretendeva che i Detective Inspector fossero parenti di Gesù Cristo – ma lui poteva ritenersi orgogliosamente qualcuno che non era mai passato alle mani.

L’unica persona a detenere il primato per averlo mandato completamente fuori di testa, una volta sola e molto tempo prima, era Sherlock Holmes.

Per questo, quando quel giorno si trovò costretto a fermarsi con Anderson al 221B di Baker Street, era nel pieno della sua modalità “Raggiungimento del Nirvana”. Auto-convincimento.

Salutarono velocemente mrs. Hudson che era venuta ad aprire loro la porta, salendo le scale a passo svelto. Lestrade aveva provato a chiamare Sherlock almeno quattro volte, ma davanti ad una sua mancata risposta era stato costretto a presentarsi di persona; era maledettamente bloccato con le indagini ed era anche una persona in grado di riconoscere quando gli serviva aiuto (nonostante Anderson fosse, comunque, sempre in disaccordo sul chiedere quell’aiuto ad Holmes).

Entrarono nell’appartamento al primo piano senza aspettare l’effettiva risposta dell’inquilino, e appena misero piede in salotto si immobilizzarono, accigliati.

Libri. Montagne di libri. Cataste di libri. Greg ne lesse qualche titolo: tutti di Psichiatria e Psicologia. E foglietti. E appunti. Tazze mai lavate. Confusione, caos. A fatica si potevano riconoscere i mobili del salotto di Baker Street e se non fosse stato in quell’appartamento altre volte, probabilmente avrebbe faticato anche a riconoscerne l’effettiva disposizione.

Distolse lo sguardo dalla poltrona di John, quando vi cadde, concentrandosi sul motivo della visita. « Sherlock? » chiamò, alzando la voce.

Nessuna risposta.

« È difficile dire chi sia il più pazzo dei due » commentò Anderson al suo fianco, gli occhi ancora fissi sui frontespizi dei libri.

Lestrade lo fulminò con lo sguardo. Anderson tacque.

« Sherlock!? » chiamò di nuovo l’ispettore, alzando la voce.

Finalmente, dalla cucina, si sentì una sedia spostarsi e la testa riccioluta di Sherlock comparve dalla porta. « Cosa c’è? » sibilò, probabilmente seccato a causa dell’interruzione di un qualche suo lavoro.

Bastò uno sguardo, a Lestrade, per capire davvero il perché di molte cose.

Holmes era pallido (più del solito), palesemente stanco ed emaciato. Persino gli occhi, sempre pungenti e sicuri di sé, avevano qualcosa di spettrale, quasi soprannaturale, in quel loro osservare senza realmente vedere. Non disse nulla quando vide Anderson fargli un saluto pesantemente ironico, e questo più che altro suggerì a Lestrade che c’era qualcosa di sbagliato, in quella visione.

Poi, il particolare. L’ago nel pagliaio che era la soluzione di ogni mistero. Sherlock aveva le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti e, anche se coprivano abbastanza bene le vene del braccio, non lo facevano abbastanza per gli occhi di uno che aveva lavorato alla Narcotici.

« Anderson, aspettami in macchina » disse Greg, voce profonda, senza nemmeno voltarsi verso l’altro. Il poliziotto, guardandolo stranito, semplicemente annuì e scese al piano inferiore.

Furono esattamente due i minuti in cui si guardarono sapendo esattamente, entrambi, cos’avrebbe detto l’altro. Dopotutto era un copione già recitato una volta e ripetuto molte altre, che entrambi avevano creduto di avere chiuso a chiave in soffitta a prendere polvere.

A quanto pare, non era così.

Greg evitò perciò ogni parola e si avvicinò a passo cadenzato verso Sherlock, che non si mosse, occhi fissi su quelli dello yarder, sostenendo un orgoglio che in ogni caso rimaneva testardamente intatto e magnificente.

Prese in uno scatto il polso sinistro di Sherlock, facendogli distendere il braccio, e gli sollevò la manica arrotolata della camicia fino a scoprire la pelle candida puntellata di segni rossi e piccolissimi ematomi rotondi.

Inconfondibili.

« Quando hai ricominciato? » domandò, voce dura.

Sherlock  non rispose, limitandosi a guardarlo (facendogli capire che non era mansueto: quel gesto glielo stava semplicemente permettendo, in nome di cosa non lo sapeva).

« Rispondimi » incalzò Greg.

Fu allora che Holmes strattonò la mano, liberandosi dalla presa del Detective Inspector. « Non ti riguarda » sentenziò, tornando in cucina.

Greg lo seguì. « Sherlock, mi avevi promesso che– ».

« Non ti avevo promesso niente, Lestrade » lo interruppe il detective, girandosi nuovamente verso di lui mentre sottolineava con la voce il verbo: « tu mi volevi estromettere dal tuo lavoro, io ho agito di conseguenza. Logico. All’epoca era l’unica cosa che avevo e che potevo fare » disse.

« Lo farò anche adesso, se necessario » tentò Greg.

« Adesso non è l’unica cosa che ho » ribatté Holmes.

« Ma è l’unica che potresti avere se ti continui con questo atteggiamento! » sbottò finalmente Lestrade, lasciando libera la bestia rabbiosa che aveva sentito nascere dentro di sé negli ultimi cinque minuti: « pensi che il tuo lavoro di detective privato potrebbe continuare se i tuoi clienti sapessero che ti buchi?! » domandò, sconcertato.

Sherlock soffiò dalle labbra l’ombra di una risatina ironica. « Non lo sapranno » disse, supponente e con aria di sufficienza.

« Come fai a dirlo? » lo sfidò Lestrade.

« A loro basta che il lavoro sia fatto bene, e sei pienamente consapevole del fatto che quando ho un caso raramente mi concedo a vizi di tal genere » rispose, pronto, Sherlock.

Aveva ragione e ormai Greg stava per terminare le argomentazioni d’accusa. Aveva un asso nella manica, ma era troppo squallido, ed ingiusto, usarlo.

Lo osservò di nuovo. La miseria che si nascondeva sotto quegli occhi sprezzanti, talmente azzurri da sembrare quasi trasparenti. E decise.

A mali estremi...

« John non ne sarebbe contento ».

Vide le sue spalle irrigidirsi, le labbra chiudersi in un moto di stizza, o sorpresa, o fastidio. Tutti, non solo lui, erano consapevoli di quale fosse il vero motivo per cui Sherlock aveva cominciato a ricadere nel circolo vizioso di autodistruzione così famigliare nella sua adolescenza e gioventù, ma solo alcuni erano in grado di riconoscerlo sotto quei metri e metri d’orgoglio e maestria che il giovane Holmes usava come muro da interporre fra sé e gli altri.

Gregory Lestrade, la persona che quando dovette decidere se sbatterlo in galera per possesso di sostanze stupefacenti e dargli una seconda possibilità aveva scelto la seconda opzione, era una di quelle (poche) persone.

Sospirò, ritrovando la calma perduta. « Ascolta, posso capire come ti senti. Ma non è la soluzione giusta. Non è mai la soluzione giusta. Te ne pentirai, in futuro, e non sarò io quello al tuo fianco quando lo farai » gli disse.

Sherlock scostò gli occhi sulla parete della cucina. « Non ci sarà nessuno » disse.

« Cosa? ».

« Non ci sarà nessuno » ripeté.

Greg negò con il capo. « No, no... ci sarà qualcuno. Ci sarà John. Andrà– »

« “Tutto bene”? » lo interruppe Sherlock, tornando a guardarlo. « Come? » domandò poi. Una richiesta semplice per una risposta semplice.

Risposta che Greg non aveva.

Il silenzio durò qualche istante, prima che Lestrade riprendesse parola: « Sherlock... ti prego » implorò, praticamente messo in ginocchio: « stai crollando, è inutile negarlo. Ho già visto cadere John, non posso restare a guardare anche con te » disse, facendola suonare come una rivelazione.

Sherlock non fece una piega.

« Non puoi impedirmelo » disse semplicemente.

 

 

Ancora luglio.

Quando Sherlock entrò in clinica, quel giorno, ad aspettarlo c’era il dottor Harris. Gli bastò guardarlo in faccia – labbra assottigliate, occhi rossi, capelli arruffati, camice sgualcito, espressione tesa – per capire che qualcosa non andava.

« Cosa gli è successo? » domandò subito, impossibilitato ad immaginare altri motivi per cui Harris avesse voluto parlare con lui se non per qualcosa che riguardava John.

Ignorò il battito doloroso e pungente che il suo cuore aveva dato per protesta.

Ma Harris ignorò la sua domanda. « Mi sa dire perché il tetto, signor Holmes? » domandò.

Sherlock alzò il mento, aggrottando le sopracciglia.

Lo psichiatra si scontrò con il muro del suo silenzio, ma probabilmente capì dal suo sguardo che lo ascoltava (e con un certo interesse), così prese a spiegargli: « per noi non è mai stato un problema che John si rifugiasse sulle scale da solo, dopotutto è sempre stato un paziente modello. Ma questa notte, quando la guardia ha fatto il giro, John non era in camera. Lo abbiamo cercato ovunque finché non lo abbiamo trovato sulla rampa di scale accanto alla porta di accesso al tetto » disse.

Ma era palese che non avesse ancora concluso.

Sospirò. « Si è massacrato le dita delle mani cercando di aprire la porta con le unghie » continuò, per la prima volta completamente stranito da ciò che stava pronunciando: « sulla porta c’erano i segni lasciati dal suo sangue. Siamo dovuti intervenire in cinque. Ha steso due dei nostri infermieri a suon di pugni. Abbiamo dovuto sedarlo per trasportarlo in infermeria e farlo medicare » disse, guardandolo diritto negli occhi.

Sherlock non ebbe apparenti reazioni, ma non appena aveva cercato di immaginare la scena nella sua mente un groppo gli si era formato in gola e minacciava di farlo smettere di respirare. Poteva quasi vedere John trattenuto da due addetti in divisa bianca agitarsi e rifiutarsi di eseguire i loro ordini travestiti da consigli amichevoli, spezzarsi dolorosamente le unghie cercando di aprire una porta chiusa a chiave con la forza di chissà quale miracolo – o di chissà quale disperazione.

Perché? Si domandò. Era una domanda che anche Harris si stava ponendo, ne era sicuro – riusciva quasi a sentirlo pensare, macchinare, domandarsi cose: noioso, patetico.

« Signor Holmes, glielo devo chiedere... » continuò lo psichiatra, massaggiandosi il collo con la mano: « ha fatto qualcosa per provocare in lui qualche cambiamento? Gli ha detto la verità, o ha tentato di fargliela capire, per caso? » chiese.

Sherlock ripassò mentalmente gli ultimi discorsi, gli ultimi accenni, le ultime parole. Quelle che facevano male, che gli facevano venire voglia di chiudere a chiave quell’ala della sua mente per non rientrarci, che gli facevano venire voglia di fuggire.

Negò con il capo.

Harris sospirò di nuovo. « Questo è un peggioramento. Non posso lasciare che un tale episodio si manifesti di nuovo, e secondo le regole di questa struttura non posso più considerare John un paziente innocuo. Dovrò passare alla somministrazione di antipsicotici tramite il cibo » disse.

Sherlock lo congelò con lo sguardo. « No » ordinò.

Harris sobbalzò allo sguardo diretto, ma lo ammortizzò con classe, fronteggiandolo. « Lei non è né un parente né il suo medico curante, non può prendere questo genere di decisioni » gli recitò.

« So cosa vuole » lo interruppe però Sherlock.

« Cosa? » gli domandò Harris.

Holmes si rifiutò di ripetere.

Rimasero a guardarsi, entrambi guardinghi, all’erta. « Ho le mani legate, signor Holmes... »

« So cosa vuole il dottor Watson, dottor Harris » ripeté allora Sherlock. La mano, all’interno della tasca della sua giacca, si strinse intorno al metallo della chiave rubata dalla guardiola.

Non gli avrebbe detto di più , ed Harris ne era fastidiosamente consapevole. Lo fissò per altri minuti, palesemente indeciso sul da farsi. Poi, constatando che Sherlock non distoglieva lo sguardo così come non aveva intenzione di ritirare quella richiesta fra le righe, annuì rassegnato.

« Camera 21 » gli disse il medico, indicando con il mento il corridoio dall’altro lato dell’ascensore: « è ancora pesantemente sedato, potrebbe non svegliarsi nemmeno. L’effetto è temporaneo, comunque, domani starà meglio » gli spiegò.

Non disse nulla quando Sherlock, con un semplice cenno del capo, si congedò in silenzio e si diresse a passo cadenzato verso la stanza 21.

×

John era steso sul letto, addormentato, in posizione fetale sul lato sinistro.

Era un sonno senza sogni quello provocato dai medicinali, dunque l’espressione era fra le più rilassate che gli avesse mai visto. La bocca socchiusa sfiorava il cotone del cuscino, così come le ciglia bionde del suo occhio mancino.

Le mani, tenute piegate di fianco al petto, sulla coperta, erano fasciate dito per dito e un odore di disinfettante e pomata permaneva, statico, nell’aria. Da una finestra subito sopra il letto singolo, la luce del sole estivo si posava sul copriletto sottile che gli copriva le gambe fino alla vita.

In piedi di fianco alla porta, Sherlock non poté fare altro che rimanere in piedi e guardarlo dormire.

C’era qualcosa che gli pizzicava la nuca. Un pensiero che si era infiltrato sotto la sua pelle e aveva cominciato a ronzare, a pungere, a fare rumore, ma lui lo aveva ignorato. Un pensiero che sapeva di consapevolezza, perché lui capiva tutto e lo capiva subito, e con John non faceva eccezione (non in quel frangente).

Ma era troppo complicato, pensarci. Confuso. Faceva male, pensare che John lo volesse davvero. Nauseante. Sbagliato. Un errore, perché John non era così, non poteva farlo, non avrebbe nemmeno potuto pensarci, il suo John.

Ma si rese conto, in quella camera inondata di luce e respiri cadenzati di un uomo dormiente, che così come John non riconosceva più lui anche lui non riconosceva più John.

Per la seconda volta nella sua vita, aveva paura.

Ma era un timore più viscerale, più esposto e al contempo celato, nascosto alla luce del sole; profondo, potente, radicale.

Sherlock Holmes aveva paura di un pensiero. Razionale, empirico, conclamato. Lo conosceva così come un padre conosce il figlio. Lo aveva creato, progettato, formato con schegge d’informazione, rantoli d’idea, fotografie d’osservazioni ed era stato facile, dato il soggetto, perché sapeva dove guardare – lo aveva sempre saputo.

Quel pensiero aveva gli occhi rossi della bestia nera di Baskerville e lo rincorreva fra i corridoi e le guglie del suo palazzo mentale, pronto a sbranarlo. E lui, Sherlock, non aveva potuto far altro che correre.

Ma in quella stanza era ormai arrivato al capolinea. Sentiva l’ultimo frammento di energia abbandonarlo, la corsa affievolirsi e la sua fuga interiore fallire miseramente.

La bestia si stava avvicinando con grandi falcate, sussurrando il suo nome nella luce.

Chiuse gli occhi, scacciando via dal cervello quel pensiero. Non voleva affrontarlo. Sapeva, ma non voleva ammetterlo. Non ancora. Mai.

(Avrebbe trovato un modo, lo faceva sempre, era solo un enigma, doveva risolverlo, doveva allineare le equazioni, controllare i risultati, provare e riprovare e riprovare ancora finché non sarebbe cambiato qualcosa, finché non avesse trovato il modo di combattere la bestia ad armi pari, finché...)

« Sher... lock? ».

La voce impastata di John gli fece riaprire di scatto gli occhi, cancellando qualsiasi altra cosa.

Lo osservò, immobile, dalla porta.

Fermo nella stessa posizione ma con gli occhi socchiusi, le palpebre pesanti, una smorfia di dolore all’angolo delle labbra – sicuramente a causa delle dita ferite. La palese espressione di chi si trova in un dormiveglia dal quale si vuole svegliare ma non c’è verso, perché il sonno è troppo potente (e farmaco-indotto).

Annuì in sua direzione. Lo vide sorridere.

Gli si strinse il cuore senza che potesse evitarselo.

« Sei vivo? » domandò allora Watson.

E il cuore di Sherlock venne strozzato dal suo stesso respiro.

Sgranò gli occhi, le labbra serrate, completamente disperso nell’intricato labirinto di considerazioni e logica, di possibilità e probabilità, di conseguenze da affrontare ad ogni parola sbagliata; lo stesso labirinto in cui vagava da mesi alla ricerca della strada giusta che non terminasse in un vicolo cieco, dimentico del filo d’Arianna necessario a ritrovare l’uscita, perso chissà dove e chissà quando.

La Verità come suo Minotauro.

John gli sorrise ancora, fievolmente; un sorriso stanco, forzato, strappato al sonno. « Mi piacerebbe che tu fossi vivo... » borbottò, intontito.

« Se ti dicessi che lo sono? » rispose Sherlock, cercando dentro di lui una calma che sapeva di avere ma non per quanto sarebbe rimasta. Aspettativa. Speranza (assopita e poi risvegliata bruscamente).

John sospirò, chiudendo gli occhi qualche istante di troppo e forzandosi a riaprirli: « ti ucciderei » gli disse poi.

« Lo accetterei » ribatté velocemente Sherlock.

« Io no » continuò John, cercando di alzarsi per mettersi seduto, ma non appena le mani fecero presa sul materasso il dolore gli impedì di fare qualsiasi movimento. « Mi gira la testa... » si lamentò invece, osservando confuso le proprie dita fasciate.

Holmes non era capace di muoversi. Inchiodato a qualche metro di distanza dal letto, catturato fra due realtà che rifiutava con tutto se stesso e alla continua ricerca della terza (sempre più impossibile e distante).

John lo guardò ancora, gli sorrise ancora.

Basta.

« È un sogno, vero? ».

Basta, John.

« Non può essere altro che un sogno ».

Basta, John, ti prego. Basta.

« È un sogno, Sherlock? » domandò l’uomo con gli occhi socchiusi, imploranti per una risposta affermativa.

Sherlock annuì, ingoiando tutto il suo coraggio, per assimilarlo. Come una pillola.

« Sì, John. È un sogno » gli disse, sentendo qualcosa a cui non sapeva dare un nome espandersi nel suo petto, rimbalzare contro lo sterno e le costole, sedimentarsi sul diaframma.

Caldo, con un retrogusto di rassegnazione e delusione.

Watson sospirò, girandosi sulla schiena e appoggiandosi le mani sul viso. Non appena sentì il tessuto ruvido delle medicazioni, però, riaprì gli occhi e sollevò le mani in aria per guardarsele meglio, accigliato.

« Ti ricordi come te lo sei fatto? » domandò Sherlock.

John annuì, appoggiandosele cautamente sul petto.

« Cosa volevi fare, John? » chiese il detective, la voce profonda.

Il medico sorrise, ironico. « Ricordarti sta diventando difficile, Sherlock » cominciò: « è l’unica cosa vera che mi rimane, e non riesco più a farlo. Ho sempre... loro, quei Sherlock falsi al mio fianco, e nonostante siano simili a te non sono te. Sono ombre, imitazioni, e sono la cosa più accurata che sono riuscito a costruire. Io li voglio esattamente lì dove sono, Sherlock, al mio fianco... ma a volte scompaiono, a volte c’è qualcosa... sono io, in realtà, perché loro non sono te, e io lo so, non posso fare finta di niente. Ma loro non suonano il violino, non inseguono criminali, non parlano di nuovi casi, non... fanno quelle cose che rendono Sherlock Holmes il più brillante consulting detective del mondo. Non possono, semplicemente. E io continuo a vederne tanti, tanti... sui riflessi dei vetri, negli specchi, che mi dicono cose bellissime ma false. È tutto confuso ed io... io... » la sua voce si incrinò, mentre si copriva gli occhi con gli avambracci.

Sherlock ebbe la tentazione di fare un passo in avanti, di allungare una mano. Di provare a rassicurarlo. Ma non riusciva a fare le prime e non aveva la minima idea di come fare la terza, così semplicemente non disse niente e rimase immobile, a guardare, a sentire qualcosa (distante, vicino, dentro?) incrinarsi e rompersi.

John riprese a parlare prima che Sherlock ne trovasse il coraggio.

« Non distinguo più niente, Sherlock... non so più qual’é la realtà. Mi sfugge dalle dita ogni volta che credo di averla ritrovata perché non mi ricordo i tuoi occhi, o i tuoi capelli, o le tue mani mentre suonavi il violino, o pulivi l’archetto, o la tua voce, anche la tua voce... me le ero impresse nella memoria per avere dei punti di riferimento, ma ora siete così in tanti... sono così in tanti... non so più dove sbattere la testa! » esclamò, stringendo i pugni sopra i propri occhi, il viso sotto di essi incrinato in una smorfia di dolore causato dal gesto stesso.

Ancora una volta, l’istinto di avvicinarsi. Di sfiorargli le mani. Di prendergli gentilmente i polsi per impedirgli di farsi del male.

Ancora una volta non lo seguì, incapace di farlo – così diverso da quando ti prende la mano tenendola stretta, senza nemmeno riconoscerti davvero.

Quanto può resistere la mente di un uomo sull’orlo della pazzia?

Quanto può durare senza discernere realtà da immaginazione?

Come ci si può sentire nel fare un sogno, pensare di riuscire a svegliarsi ed invece ritrovarsi ancora nello stesso sogno, reame onirico senza fine, mai logico, mai razionale?

Sherlock non l’aveva provato di persona, ma gli effetti di quella situazione erano visibili e stavano distruggendo l’unica persona di cui gli fosse mai importato veramente qualcosa.

E lui era semplicemente lì, fermo, a lasciarlo fare.

Finalmente prese la sua decisione. Coprì in due falcate la distanza fra lui e John, posando le sue mani su quelle fasciate dell’altro, tirandole delicatamente via dal volto (come quando maneggiava un vetrino, o un composto chimico particolarmente sensibile).

John aprì su di lui un paio d’occhi sfiniti che lui, chinato com’era sopra l’altro, poté osservare nella loro completezza.

« John, non farlo » gli disse, guardandolo dritto negli occhi.

L’altro deglutì, scuotendo il capo.

« Non farlo » ripeté ancora, ma John sembrava irremovibile dalla sua decisione.

Chiuse gli occhi, Sherlock. Sospirò. Cercò la calma. Riaprì gli occhi. « Non voglio che tu lo faccia » gli disse.

John gli sorrise. « Nemmeno io lo avrei voluto per te... » mormorò, prima di cedere al sonno che aveva finalmente avuto la meglio sulla sua volontà.

×

Tutto il tragitto di ritorno – il corridoio, l’ascensore, l’atrio, il vialetto – fu per Sherlock come camminare in una vasca piena d’acqua, in cui tutti i rumori arrivano ovattati e distanti, troppo lontani per avere anche solo la minima idea di cosa li provochi o di cosa effettivamente siano.

Le mani nelle tasche della giacca nera erano strette in due pugni chiusi, le unghie premute contro la carne dei palmi. Solo la destra stringeva convulsamente la chiave rubata, imprimendosene le fattezze sulla pelle.

Dietro di lui il mastino soffiava furente dalle narici, mormorando parole sconnesse di eco ancora lontane.

 

 

Era suo.

Era scappato verso i Docklands ma non aveva scampo: era suo.

Sherlock perlustrò mentalmente la sua mappa mentale di Londra, tagliandi agilmente per sudici vicoli e scavalcando cancellate in rete che non avrebbe tenuto vincolato nemmeno un cane.

Sentiva in lontananza le sirene delle pattuglie di Lestrade che aveva agilmente seminato, così come aveva fatto il suo inseguito, ora di qualche passo avanti a lui lanciato in una corsa infernale basata tutta su resistenza e velocità. Ed era notevole, Sherlock dovette ammetterlo: lo inseguiva a piedi da talmente tanto che si sentiva la camicia attaccata alla schiena a causa del sudore e sottili gocce scivolargli giù dalla tempia e lungo il collo. Cominciava a rimanere a corto di fiato ma, considerando l’andatura altalenante del fuggitivo, probabilmente anche lui stava risentendo della stanchezza. Mancava poco.

Era suo.

Lestrade si era fatto più pressante, da quando aveva scoperto la sua ricaduta nelle vecchie abitudini. Aveva ovviamente detto tutto a Mycroft, che si era fatto consegnare cocaina e morfina e che, ovviamente, aveva preso a tenerlo d’occhio con ogni metodo possibile. E in questi metodi rientrava anche Gregory Lestrade.

Tuttavia proprio quest’ultimo era riuscito ad avere sotto mano un caso interessante, risolto in due giorni di accurate indagini di laboratorio e sulla via della conclusione in quello stesso momento, con una folle corsa lungo i docklands un mercoledì notte di inizio agosto.

Corsa che si concluse nel momento in cui il pluriomicida stupratore, alto un buon metro e ottantacinque e dalla corporatura robusta ma agile, si girò verso di lui con il fiato corto ed i capelli corti attaccati alla fronte a causa del sudore.

Sherlock, a sua volta, di fermò ad una decisa di passi di distanza, in attesa.

« Ho sentito parlare di te! » urlò quello, la voce alta per far sì che lo sentisse bene – non era propriamente necessaria tanta premura. « Sherlock Holmes, l’investigatore privato risorto dalla tomba » lo sfotté.

« Consulting detective » lo corresse automaticamente Holmes, masticando con astio le parole.

Non lo apprezzava particolarmente, ma se parlava era meglio. Così Lestrade avrebbe avuto il tempo che puntualmente sprecava schierando le truppe a... beh, schierare le truppe.

Ma il criminale sogghignò e Sherlock gli lesse negli occhi che sarebbe stato un brutto quarto d’ora.

« Ho sentito storie anche sul tuo “amico”... » disse quello, mimando le virgolette con le dita quando pronunciò l’ultima parola: « dicono tutti che ne è uscito pazzo, per questo ti si vede poco in giro, ultimamente. Com’è scoparsi uno psicotico? » domandò, la voce tinta di un’ironia cattiva unita ad un’imprudente sottovalutazione della persona che si trovava davanti: « perché te lo scopi ancora, giusto? Oppure è lui che si scopa te? » rise di scherno.

In circostante normali, probabilmente Sherlock avrebbe risposto a parole. Lo avrebbe sfidato a dire di meglio, avrebbe cercato di irritarlo per scoprire i suoi punti deboli e mirare a quelli per guadagnare tempo, per farlo crollare. Anche le parole sapevano ferire.

Ma quelli erano altri tempi. Erano tempi in cui non si sarebbe trovato da solo, tempi in cui avrebbe avuto John a meno di tre passi dietro da lui con la pistola saldamente puntata contro il fuggitivo, nel tentativo di coprirgli le spalle. Tempi diversi e migliori, passati, svaniti. Nel nulla e nell’assenza.

In circostante normali, Sherlock Holmes avrebbe alzato le mani solo se costretto, e solo per difesa. Non avrebbe mai colpito per primo.

Ma quelle non erano circostanze normali e non erano nemmeno tempi migliori. E il nome di John era stato pronunciato con disprezzo da una persona – da feccia umana – che non doveva nemmeno sognarsi di riempirsi la bocca con il suono di quel nome, né tantomeno avere la lontana idea di associarlo a parole scurrili e a concetti volgari.

La sua mano scattò, chiusa, ancora prima che il suo cervello lo registrasse.

Primo colpo: coste fluttuanti(7), diaframma (per bloccare il respiro), stomaco (per piegare in due). Evitare colpi possibilmente mortali (dunque il naso, le tempie, le vertebre cervicali).

Secondo colpo: ginocchiata al viso. Possibile rottura del naso, confusione, smarrimento, difficoltà respiratorie. Si porterà le mani al volto, rimarrà scoperto.

Terzo colpo: calcio alle coste del fianco sinistro (è carente da quel lato in difesa, forse a causa di traumi sofferti in passato e non del tutto guariti, tende a proteggersi di più con il braccio sinistro nonostante sia palesemente mancino, usando il destro non-dominante per scagliare pugni). Calcio alla spalla destra (dislocazione). Calcio all’inguine.

Considerazioni secondarie: possibili reazioni. Non è un combattente di arti marziali, nessuno stile, nessuna tecnica particolare. Rissoso, dunque potrebbe avere una rozza infarinatura di street fight; lievemente imprevedibile ma non per le persone con quozienti intellettivi imbarazzanti come l’individuo in oggetto. Si affiderà ad un gancio destro non appena lo vedrà arrivare, tenterà un diretto prima del colpo al diaframma, proverà a bloccare almeno uno dei calci con il gomito. Risoluzione rispettivamente in schivata bassa, schivata laterale destra, finto colpo.

Fuori combattimento in 45 secondi.

Via.

Vicinanza. Pugno, coste fluttuanti, grugnito. Schivata bassa. Pugno, diaframma, respiro spezzato. Pugno, stomaco, gemito sofferente. Ginocchiata, naso rotto. Mani al viso. Calcio laterale sinistro, le coste ne risentono. Non cerca nemmeno di proteggersi: deludente, noioso. Calcio laterale destro, spalla, dislocazione, urlo di dolore. Cade a terra. Calcio all’inguine, respiro trattenuto in un lamento. Innocuo in 45 secondi.

Ma non fu abbastanza.

C’era rabbia, e stizza, e frustrazione – le riconobbe tutte. C’era la voglia di veder bruciare il mondo. Di guardare mentre crollava sotto il proprio peso. Un prurito nelle mani, una pressione nel retro della sua nuca, nel profondo del cervello, e nessuna voce a dirgli “non va tanto bene” o più semplicemente “non farlo”.

Causa per conseguenza. Tutto ruotava su quel principio. Il mondo, la società, le persone. Se tocchi l’acqua ti bagni la mano, se metti la mano sul fuoco ti bruci, se passi un dito sul filo di un coltello affilato ti tagli.

Causa/conseguenza. Aveva insultato John? Uno in meno al mondo non faceva la differenza.

No?

« Alzati » pronunciò Sherlock con voce profonda, scandendo bene le parole.

Quello, gemendo di dolore rannicchiato a terra, sembrò non sentirlo.

Sherlock lo sovrastò, tirandogli un calcio alla bocca dello stomaco. L’uomo sotto di sé gemette e sputò sangue sul cemento.

« Non amo ripetermi » incalzò Holmes, osservandolo con espressione totalmente indifferente mentre, probabilmente colto da un attacco di terrore, l’altro si alzava reggendosi a stento sulle proprie gambe.

Non provò niente, Sherlock Holmes, a prenderlo a pugni. Solo il bruciore provocato dalle escoriazioni sulle nocche della sua mano destra quando urtò l’arcata dentaria dell’altro.

Poi il naso (già ferito), la mandibola, la guancia, la tempia. Il malvivente cadde a terra confuso, spaventato ed implorante, ma ancora Sherlock non sentì niente. Solo pura liberazione.

Non era quella la battaglia che stava combattendo davvero. Non era lì in quel momento, in quell’istante, nei secondi infiniti in cui aveva deciso che massacrare un criminale come un altro, uno dei tanti tutti uguali, poteva valere come valvola di sfogo per tutta la confusione, e la rabbia infinita, che covava dentro di sé.

Per tutta la colpa ed il senso di inutilità che banchettavano con il suo fegato da quando era tornato alla sua “vita”. E che staccavano pezzo per pezzo con denti affilati quando andava a trovare John fingendo di essere qualcuno che non esiste più.

Mentre la polizia finalmente accorreva, Lestrade lo fermava tenendolo per le spalle, ed il mondo attorno a lui diventava silenzioso e governato solo dall’eco del proprio respiro, Sherlock guardò negli occhi la belva, e la belva guardò dentro di lui.

Sorrise, e gli sussurrò le parole che aveva creato e subito rifiutato. La sua verità, quella che sapeva da tempo ma che aveva codardamente scelto di ignorare, posponendo il momento in cui avrebbe dovuto affrontarla.

La consapevolezza che John non sarebbe mai tornato indietro.

Che il mondo in cui si era rinchiuso non aveva porte d’accesso, solo finestre chiuse da cui sbirciare all’interno.

Che se mai era esistito un equilibrio nella mente del suo coinquilino, era stato lui stesso a sbilanciarlo.

Lui aveva creato il “secondo Sherlock Holmes” che John credeva un’altra allucinazione. Causa/conseguenza. La sua presenza aveva instillato il dubbio in John e quel dubbio aveva partorito mille altre sue immagini, creando il caos.

Caos. Un caos da cui John non sapeva come fuggire.

Intrappolato nella sua mente.

Tranne che per un metodo. Un istinto rimasto scritto indelebile nella sua anima, la soluzione finale.

Serviva poco, dopotutto. Un tetto, la forza di gravità, un passo oltre il ciglio. Una chiave.

Mentre Lestrade gli urlava contro qualcosa che non stava ascoltando – che non riusciva a sentire – Sherlock osservò le proprie mani macchiate di sangue non suo.

La sua assenza aveva spinto John in un’illusione. La sua presenza lo aveva preso addirittura per mano e lo aveva guidato dritto verso la pazzia.

Lui era stato, ed era ancora, il fulcro della malattia di John Watson. Lui era la causa.

E l’unica via d’uscita possibile, era affrontare la conseguenza.

 

 

Agosto.

La scia di un anticiclone particolarmente temerario aveva allungato le mani sull’Inghilterra, regalando al regno qualche giorno di soleggiato bel tempo.

Un bel giorno per morire (di nuovo). Anche questa volta non definitivamente (purtroppo).

Si chiese quanto sarebbe stata lunga quella vita, mentre entrava al Fulbourn. Per quanto ancora dovesse rimanere ad osservare.

I suoi passi sembravano più lenti e l’aria maledettamente difficile da respirare. Nessuna bestia lo seguiva più (la bestia ora era lui).

Salì con una calma nuova, non sua, i piani che lo separavano da John.

E lui era sempre lì. Seduto su una delle due poltrone davanti all’ampia finestra della sala comune, un libro sulle ginocchia e lo sguardo fisso al cielo al di là del vetro.

Per la prima volta, la prima vera volta, fu in grado di ammirare quella visione in tutta la bellezza che avrebbe sempre dovuto ispirare, ma che i suoi occhi non avevano mai trovato davvero.

La calma, la tranquillità, la bontà, il freno, l’orgoglio, la fermezza. John Watson era tante cose; era tutte le cose che lui non aveva o che aveva lasciato inaridire nel tempo.

Solo ora ne vedeva l’importanza. Solo ora. Nel giorno in cui sarebbe morto (di nuovo) ma non definitivamente (purtroppo).

Si avvicinò, in silenzio, e sempre in silenzio si sedette nella poltrona di fianco alla sua.

John non scostò lo sguardo dal cielo quando lo vide arrivare, ma accarezzò con le dita fasciate il frontespizio del libro chiuso che teneva fra le mani.

Il Tempo Ritrovato”. Settimo ed ultimo volume dell’opera di Proust.

« In due settimane, non l’ho mai nemmeno aperto. E... non ho ritrovato nessun tempo » disse, gli occhi chiusi contro i raggi del sole.

Solo dopo, posò gli occhi su Sherlock. « Hai la faccia di uno che ha capito tutto » gli disse.

Holmes annuì. « Anche tu » gli rispose, restituendo lo sguardo.

Watson negò.

Il silenzio li avvolse. Sherlock deglutì, prima di parlare.

« Non farlo, John ».

Un sorriso a labbra chiuse, triste. « Non ho molta scelta » rispose.

« C’è sempre un’altra scelta ».

« Davvero? » ribatté Watson, guardandolo negli occhi con un mezzo sorriso: « lui ne aveva, quando ha deciso di buttarsi? » domandò.

Lui. Terza persona. Di nuovo.

Ogni volta feriva sempre più a fondo.

Decise in meno di un secondo, Sherlock Holmes. Osservò il vecchio palazzo diroccato che era John Watson e decise di rischiare il crollo.

Pericoloso, ma se quella era davvero l’ultima volta, non voleva parlargli fingendo di essere un estraneo con la sua stessa faccia.

Lo fece e basta. « No, non aveva altra scelta » disse, lo sguardo basso fissato al linoleum del pavimento.

« Io sì » ammise poi John, attirando di nuovo l’attenzione del detective: « potrei scegliere di dimenticarlo. Una volta ci ho provato. Ma non posso. La realtà in cui devo per forza accettare la sua morte fa schifo, Sherlock, e preferisco avere accanto una bugia che non averlo affatto » disse.

La decisione, la fermezza, la sicurezza che John aveva  inserito in quelle parole, così tipica del soldato che era stato, era ciò che le rendeva reali e dava loro una massa ed un peso specifico.

« Strano però... » continuò poi il medico: « ...come un’intera guerra non sia riuscita ad abbattermi ma ci riesca l’egoismo di un singolo uomo ».

Sherlock deglutì ancora (aghi).

« E se fosse vivo? » insinuò il detective.

John lo guardò con un interesse superficiale.

« Se fosse sopravvissuto, se fosse stata tutta una sua macchinazione? Un modo per sconfiggere Moriarty? ».

Watson sobbalzò appena al sentire quel nome, ma cercò di non darlo a vedere (inutilmente: Sherlock lo notò subito). Sorrise amareggiato, chiudendo gli occhi e sfregandoseli con le dita di una mano.

« Sarebbe da lui » ammise.

Speranza. Un fiotto, caldo da dare i brividi.

Torna indietro, John.

« Riusciresti a crederci? » domandò allora Sherlock.

Vide le sue labbra tremare, trattenendo le lacrime. Negò con il capo.

Holmes dovette forzare il proprio respiro a non bloccarsi. « Perché no? » chiese (implorò fra le righe).

« Perché sarebbe così falso... » sussurrò John, asciugandosi le ciglia umide prima di riaprire gli occhi e guardare di nuovo il cielo: « così perfetto che non potrebbe mai essere reale. Già ora non riesco a riconoscere cos’è vero da cosa non lo è, Sherlock, già ora che sono sicuro della sua morte. Cosa succederebbe se mi convincessi del contrario? Che sia vero o meno, comunque non ci crederei. Non ci riuscirei. E non ho modo, davvero non ce l’ho, per affermare “no, questa non è una mia allucinazione” » si sfogò, la voce che ogni tanto tremava e si affievoliva.

Esistono molti modi per morire senza morire davvero e Sherlock ne sperimentò uno ascoltando quelle parole. Le ultime frasi di un uomo che non vedeva più via d’uscita.

Sherlock era la causa, John la conseguenza, il Rimpianto ciò che sarebbe rimasto di loro (a lui). Migliaia di frasi e parole mai dette, il silenzio ciò che costituiva un tempo perduto che non avrebbe ritrovato mai più.

Fece un profondo respiro, Sherlock, e abbandonandosi contro lo schienale della poltrona chiuse lentamente gli occhi. La mente volò ad un’infinità di tempo prima, a quando per raggiungere il bordo del tavolo doveva aggiungere due cuscini alla sedia e l’attaccapanni all’ingresso sembrava un gigante. All’ultima volta in cui aveva pianto e aveva promesso a se stesso di non farlo mai più.

« Sherlock... » John raggiunse la sua mano e, dolcemente, ne intrecciò le dita con le proprie: « ...non c’è bisogno di piangere » mormorò.

Ma lasciò che le sue lacrime scivolassero giù in silenzio.

Stavano vivendo in un tempo che non apparteneva a nessuno dei due e lì dentro niente si sarebbe mantenuto intatto. Il peso dell’assenza, delle parole non dette, di ciò che si è perso e di ciò che si è lasciato andare sarebbe stato solo Sherlock a portarlo, ora.

Sospirando ancora, districò la mano da quella di John ed immerse le dita nella tasca interna della giacca. Ne riemersero stringendo una chiave che, cautamente, il detective appoggiò nella mano aperta del medico.

John capì, e gli sorrise. « Grazie » sussurrò.

Sherlock non rispose. Fu il suo turno di mettersi una mano davanti agli occhi, le dita premute contro le palpebre nel tentativo di controllare le lacrime.

« Sherlock, va bene così... » mormorò ancora John: « non svegliarmi ».

Il detective prese un profondo respiro. « Ti amo... » sussurrò con voce rotta senza riuscire a guardarlo.

John chiuse gli occhi, annuendo piano.

« Lo so. Lo amavo anche io ».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono cose che vengono alla mente solo dopo.

Dopo la vita, dopo la morte. Dopo un istante: quello in cui tutto cambia.

Fotogrammi di una vita che avrebbe voluto vivere senza saperlo.

Hanno trent’anni, lui e John, e sono stesi fra le lenzuola del suo letto, nudi. C’è odore di sesso nell’aria, ci sono fronti sudate e sorrisi imbarazzati, ci sono parole sconnesse e risate e tutto sembra immerso in una tranquillità confortante.

Hanno quarant’anni ora e John prepara il tè in cucina. Lui lo guarda dalla poltrona in salotto e sorride, pensando che dev’essere quella, proprio quella, la sensazione che da l’amore. La capacità di trovare interessante anche la semplice quotidianità, se passata in compagnia della persona che si ama.

Hanno cinquant’anni ed Hamish è al suo primo giorno di scuola. Ha la sua intelligenza e la bontà di John. Osserva il suo compagno chinarsi ad allacciargli la giacca, riempiendolo di raccomandazioni davanti all’entrata della scuola elementare, ed Hamish gli ripete per l’ennesima volta di aver perfettamente capito. Da un bacio sulla guancia ad entrambi loro e corre via. Sente John prendergli la mano. Famiglia.

Hanno sessant’anni e all’improvviso il 221B di Baker Street è diventato troppo piccolo per loro. Il lavoro comincia ad essere difficile, Hamish ha vinto una borsa di studio fuori sede ed è da molto tempo che i loro capelli hanno cominciato ad ingrigirsi, tanto che il grigio ha quasi mangiato sia il nero che il biondo. Acquistano una casetta nelle campagne del Sussex. John legge seduto in una poltrona da giardino in vimini e lui alleva api. E per quanto monotona, è felicità anche quella.

Hanno settant’anni e la moglie di Hamish è una brava ragazza. I loro nipoti catturano rane in giardino e pretendono di poterle dissezionare. John dice a Lily che non è educato, per una signorina, rotolarsi nel fango ma lei gli risponde, dall’alto dei suoi sei anni, che se suo fratello maggiore Simon e suo cugino Phillip possono farlo, allora lo farà anche lei. Mycroft non è esattamente d’accordo per quanto riguarda suo nipote Phillip, ma tanto non ascolteranno comunque.

Hanno ottant’anni e sono stesi sul loro letto, uno di fronte all’altro, e si tengono per mano. John gli dice che è più vecchio di lui, che è naturale che se ne vada per primo, e prima di chiudere gli occhi, gli ripete di amarlo. E anche lui glielo dice. Gli dice anche che non è giusto, ma ormai John non può più sentirlo.

Ha novant’anni, e a conti fatti la vita gli ha dato così tanto. La vita gli ha dato John. E John gli ha dato un figlio, una nuora e tre nipoti nonostante i modi anticonvenzionali con cui tutte queste cose sono state ottenute. È da solo in un letto d’ospedale, Hamish è uscito per andare a prendersi un caffè, e pensa che non è giusto che lui lo veda morire. Vuole raggiungere John ed è esattamente quello che fa.

Ma le cose non sono andate così, e non lo sarebbero state mai.

Ha trent’anni Sherlock Holmes quando pensa a tutto ciò, in piedi davanti alla lapide dell’unico amico che abbia mai avuto e dell’unica persona che abbia mai amato.

È novembre. Sono passati tre mesi dalla telefonata del dottor Harris, arrivata in piena notte. Tre mesi da un funerale onorevole e gremito di gente. Tre mesi dal pianto di pochi e dal dolore di molti.

Sherlock aveva imparato tanto, in quei tre mesi. Si era reso conto che il senso di colpa non lo avrebbe mai abbandonato. Aveva capito che stare in silenzio davanti ad una sorella in lutto era l’equivalente di assumersi tutta la responsabilità – una cosa che avrebbe fatto comunque, ma forse era meglio dirglielo, e scusarsi. Non era mai stato bravo in quelle cose (c’era sempre stato John). Aveva infine dovuto convivere con un’assenza di giorno in giorno sempre più pensante, perché carica di tutte le ombre di quelle nuove emozioni che non avevano avuto il tempo di vivere, che lui non aveva avuto modo di scoprire.

Mesi in cui aveva pensato molte volte di distruggersi, di lasciare il proprio corpo a deperire in un vicolo, ma ogni volta un orologio da polso con il quadrante scheggiato gli ricordava John e lui cambiava idea. E lui tirava avanti. E lui sopravviveva.

Ora Sherlock Holmes pensa. Pensa tanto. Pensa al futuro che avrà e al futuro che non potrà più avere. Pensa al tempo perduto. Pensa a John, sempre, ogni giorno, perché ora vive nei suoi ricordi e lui non ha la minima intenzione di lasciarlo morire anche lì.

« Aspettami » sussurra alla sua tomba: « arrivo. Tu aspettami ».

Allora avremo tutto il tempo del mondo.

È facile andare avanti. Come camminare.

Un piede avanti all’altro ed il gioco è fatto.

 

 

 

The End ~

 

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Credo che partorire sia meno faticoso.

 

 

 

1. le testate giornalistiche elencate sono le principali di Londra (e del Regno Unito).

 

2. Spero abbiate apprezzato il tocco dei titoli degli articoli ;D

"Il Ritorno di Sherlock Holmes" è il titolo della raccolta in cui Conan Doyle fa rientrare in scena Holmes dopo le cascate di Reichenbach.

"Moriarty Esisteva Davvero" è la traduzione (non proprio letterale, ma secondo me più azzeccata) di "Moriarty was Real", frase molto utilizzata ultimamente dal fandom.

"Il Detective che è Sopravvissuto" è un omaggio ad Harry Potter ed al suo "Il Ragazzo che è Sopravvissuto" (The-boy-who-lived).

"La Caduta di Reichenbach" (The Reichenbach Fall) credo non abbia bisogno di spiegazioni.

"L'Avventura della Casa Vuota" è uno dei racconti della raccolta del Ritorno, sempre by sir Doyle.

"Io Credo in Sherlock Holmes" (I Believe in Sherlock Holmes) è un altro dei cavalli di battaglia del fandom, insieme a "I'm Fighting John Watson's War" (io combatto la battaglia di John Watson).

La frase "era il mio migliore amico e crederò sempre in lui" (He was my best friend ad I'll always believe in him) è ciò che John scrive sul blog subito dopo la caduta ed il relativo scandalo. E praticamente è anche il suo ultimo post (finora).

Ma suvvia, dovrebbe essere ripetizione dell'ovvio per noi sherlockians 8D

 

3. "A Scandal in Belgravia", episodio 2x01, frase di Mycroft (ormai famigerata): "Caring is not an advantage, Sherlock".

 

4. Tutto quello che viene detto sulla psicosi delirante è descritto dal punto di vista criminologico/forense; non essendo io una psichiatra e/o psicologa, e scrivendo solo di ciò che so per insegnamenti nel sopracitato campo, chiedo scusa se le informazioni sulla patologia possono sembrare incomplete a chi studia nel campo apposito.

 

5. Citazione tributo da "Shutter Island".

 

6. Leggere "Alla Ricerca del Tempo Perduto" è una delle grandi imprese in cui mi voglio cimentare, ma che non ho ancora fatto. L'opera, come dice Sherlock, è divisa in sette libri e detiene il Guinnes dei Primati come opera letteraria più lunga (sono più di 3.700 pagine). Quello che sta leggendo John, e da cui proviene la breve citazione (perché Proust era uno logorroico), è il terzo libro, ovvero "I Guermantes".

 

7. Le coste umane sono dodici paia e sono divise in tal modo: le prime sette coppie a partire dall'alto vengono dette coste vere (o sternali) perché si collegano, tramite cartilagine, direttamente allo sterno; L'ottavo, nono e decimo paio vengono dette coste false (o asternali) perché le loro cartilagini si uniscono non allo sterno, ma alle cartilagini della costa immediatamente superiore; infine, l'undicesimo e il dodicesimo paio vengono chiamate coste fluttuanti, perché sono le più piccole e non sono legate a nulla. Per questo motivo sono anche fragili, e sono uno di punti preferiti di chi si trova a menar per le mani.

   
 
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