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Autore: Lue    13/07/2012    6 recensioni
E sapevo benissimo di sembrare un idiota, con gli occhi spalancati, e le lacrime che scendevano e avrei voluto darmi un contegno perché ero un soldato, ma rimasi a bocca aperta, spaccato a metà tra la voglia di prenderlo a calci in culo fino ad ammazzarlo, e quella di sfiorargli gli zigomi e il collo e chiedergli dove sei stato e stringerlo a me per sempre.
Mi asciugai goffamente gli occhi con il dorso della mano, e ad un tratto mi sentii terribilmente piccolo e goffo nella mia vestaglia di lana.
Gli feci cenno di entrare e la porta si chiuse alle nostre spalle con un colpo secco.
Fuori aveva smesso di grandinare. Ma il bambino aveva iniziato a piangere.
“Shh, Hamish, stai buono”.
[Johnlock]
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes , Sig.ra Hudson
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Quello che non ti ho detto mai


"I have died everyday waiting for you
Darling don’t be afraid, I have loved you
for a thousand years, I’ll love you for a thousand more".
[A thousand years - Christina Perri]


Ho capito che era finito tutto solo quando mi sono trovato davanti alla sua tomba, lucida e fredda. Fino al giorno del funerale una parte di me aveva aspettato di vederlo apparire da dietro gli alberi che ornavano il cimitero, compiaciuto, perché naturalmente ci eravamo cascati proprio tutti. Ma quando gli altri se ne furono andati, e l’odore di terra fresca ebbe impregnato le mie mani e i miei abiti, e tutto ciò che rimaneva di lui era un nome bianco inciso su una lastra nera, allora mi accorsi che la mia condizione di vittima non sarebbe mai variata e sarei rimasto sempre sospeso nella dimensione delle possibilità perse, bloccato, imprigionato, senza via d’uscita.
Cosa sarebbe successo se non me ne fossi andato?
Se fossi riuscito a salire sul tetto in tempo, se lo avessi abbracciato e convinto a fermarsi, se lo avessi protetto da lui, da tutto, da tutti… sarebbe stato ancora qui con me?
L’idea di un passato differente esplose dentro di me mentre da solo sfioravo il riflesso del sole sulla sua lapide, e fu un pensiero talmente violento che mi costrinse a inginocchiarmi e rimanere fermo, con gli occhi chiusi e la fronte poggiata alla lastra nera.
Perché quell’idea, quel “come sarebbero potute andare le cose”, portava con sé una consapevolezza ancora più grande: il pensiero di quel futuro che era andato perduto, sgretolatosi insieme alle sue ossa su un marciapiede freddo.
Non volevo immaginarlo allora e non avrei voluto immaginarlo poi, ma a volte mi capitava di svegliarmi la notte, stringere il lenzuolo tra le mani e piangere come un bambino, perché avevo sognato la nostra vita insieme e l’avevo vista andare in frantumi al mio risveglio, e la forza che impiegavo per stringere il tessuto era la forza del dolore che provavo da quel giorno, un dolore diverso da quello che mi aveva accompagnato dopo la guerra, un dolore che mi stordiva e mi mangiava il cuore.
Mi trasferii a due numeri di distanza, perché allontanarmi troppo da quella casa sarebbe stato come allontanarmi dal suo ricordo, e non ce la facevo ancora, sei mesi non erano niente. A volte invitavo la signora Hudson a pranzo da me, ma finiva sempre che cucinava lei e passava il pomeriggio a mettere a posto la stanza perché non poteva “proprio vedere questo disordine”, e a entrambi scappava sempre un sorriso perché era come essere tornati ai vecchi tempi. Ma poi nel mio salotto disordinato nessuno dei due trovava tracce della sua presenza, e allora ogni cosa si spegneva, tornava grigia.
Un paio di giornalisti vennero a casa a cercarmi, a farmi domande, ma mi arrabbiai così tanto che né loro né i loro colleghi si azzardarono a tornare. Non c’era davvero niente da dire.
Mi chiamo John Watson, sono un medico e vivo da solo. Sì, prima vivevo con lui. No, non sono gay. Era il mio migliore amico. Sì, che l’ho amato. Certo che l’ho amato.
Lo amo ancora.
 
La gente mi trattava come se fossi una vedova sull’orlo della depressione, nonostante io facessi di tutto per apparire in forma. Sorridevo. Sorridevo moltissimo. Quando chiedevo ad Angelo notizie della sua ernia, quando insistevo per pagare (e poi mi facevo debolmente convincere da lui a lasciar perdere), sorridevo alla signora Hudson quando mi chiedeva come stavo, e ai miei colleghi al lavoro. Dovevo dimostrare che la vita andava avanti senza di lui.
Ma era faticoso. Recitare continuamente… Io sono un medico, non un attore.
Quando andavo a mangiare al ristorante di Angelo mi sedevo sempre a un tavolo che mi permettesse di voltare le spalle al bancone, ma questo non mi impediva di avvertire lo sguardo di Angelo su di me.
Una volta lo sentii parlare con uno dei camerieri, “Lui non paga qui. Il suo ragazzo era una gran persona, checché ne dicano i giornali. È morto qualche mese fa, s’è suicidato. Due gran persone, Sherlock e John, due gran persone”.
Il suo ragazzo. Dopo tutti i mesi passati a inalberarmi, “Non stiamo insieme!”, era così che ci ricordavano le persone: una coppia. E non avevo voglia di dire che non era vero, non avevo voglia di girarmi e sbuffare “Eravamo solo amici”, perché la verità dei fatti era evidente: non eravamo stati solo amici.
In fin dei conti non era stato così difficile capirlo: avevo sognato tante volte il futuro che avevo perso, e in ogni singolo fotogramma di quella vita era impresso il suo nome. Era bastato aprire gli occhi per capire che nessuno era stato e nessuno sarebbe mai stato come lui. E non parlo di… desiderio, di amore fisico, parlo del fatto che io avevo avuto bisogno di lui – e Dio solo sa quanto ne avevo ancora bisogno – e lui aveva avuto bisogno di me. Per vivere. E come nessuno sarebbe mai riuscito a sopportarlo quanto lo avevo sopportato io, nessuno sarebbe mai riuscito a capirmi quanto mi aveva capito lui, e a volte io lo avevo odiato e a volte lui aveva provato fastidio nei miei confronti, ma il più delle volte… era stato bello il nostro vivere.
C’erano un sacco di cose che non gli avevo detto e che avrei dovuto dire, ma non riuscii a confessarle in seguito nemmeno alla mia terapista, perché stavo cercando di apparire forte, stavo cercando di sopravvivere, anche se a volte avrei voluto solo chiudere gli occhi e non svegliarmi più. Avevo bisogno di lui, ed ero talmente arrabbiato, talmente arrabbiato! Se n’era andato in modo così egoista, come suo solito, senza pensare a me, a come mi sarei sentito… E adesso lui era libero, mentre io dovevo fare ogni giorno i conti con la sua assenza.
Cercai tra le sue carte un indizio, una spiegazione. Ma non trovai niente.
E mi arresi.
Lasciai che i mesi mi scorressero addosso come una doccia fredda, lavando via gli strati più superficiali del mio dolore. È vero, il tempo aiuta. Dopo tre anni dalla sua morte, riuscivo a passare davanti al 221B a testa alta senza che mi venisse una crisi d’asma, e avevo ricominciato a dormire la notte. Lavoravo in ospedale, non al St. Barts, naturalmente, e a volte mi accorgevo di notare i particolari dei pazienti senza nemmeno rendermene conto. Ma era una cosa che mi infastidiva: io non ero come lui, non lo sarei mai stato.
Era un pensiero che mi tormentava, in quella notte fredda. Non riuscivo ad addormentarmi perché fuori grandinava e il ticchettio sulle mie finestre si faceva sempre più insistente. Un rumore mi fece sobbalzare: un colpo, che non somigliava affatto a quello della grandine sui miei vetri.
Mi alzai e raggiunsi la porta. Nel comodino all’ingresso c’era ancora la mia pistola. Per sicurezza me la infilai nella vestaglia.
E ringraziai Dio per questo.
Perché se ce l’avessi avuta carica tra le mani, probabilmente una parte di me avrebbe spinto l’altra a premere il grilletto.
Perché lui era vivo e vegeto davanti ai miei occhi, con un bambino tra le braccia.
Non è possibile, non è possibile, sono matto, non puoi essere qui, sei morto, io ti amavo e tu sei morto.
“John…”.
Oh Gesù, è la tua voce, è la tua voce, non è possibile, sei qui, sei vivo, che cazzo.
E sapevo benissimo di sembrare un idiota, con gli occhi spalancati, e le lacrime che scendevano e avrei voluto darmi un contegno perché ero un soldato, ma rimasi a bocca aperta, spaccato a metà tra la voglia di prenderlo a calci in culo fino ad ammazzarlo, e quella di sfiorargli gli zigomi e il collo e chiedergli dove sei stato e stringerlo a me per sempre.
Mi asciugai goffamente gli occhi con il dorso della mano, e ad un tratto mi sentii terribilmente piccolo e goffo nella mia vestaglia di lana.
Gli feci cenno di entrare e la porta si chiuse alle nostre spalle con un colpo secco.
Fuori aveva smesso di grandinare. Ma il bambino aveva iniziato a piangere.
“Shh, Hamish, stai buono”.





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Eeeh boh! E' un esperimento. L'ho già scritta tutta, quindi la pubblicherò piuttosto in fretta - credo.
Bon :) ciao!


   
 
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