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Autore: Lely1441    15/07/2012    3 recensioni
«Cosa c’è?», sussurrò Alessandra nel buio.
«Niente, torna a dormire».
Giulia si liberò dal suo abbracciò e si portò più distante da Alessandra, lasciandola priva del suo calore.
Nell’aria, solo una litania silenziosa.
“Non mi ami più non ti amo più non ci amiamo più”.

Seconda classificata al contest "Il Triangolo No!" indetto sull'EFP Forum.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Pillole (di vita)
 
Up on the melancholy hill, there’s a plastic tree; are you here with me, just looking out on the day of another dream?
 
Stese sopra l’enorme giardino della famiglia Lattanzi, Alessandra e Giulia fissavano il cielo da quelle che sembrano ore, le mani intrecciate nell’erba. Erano passati due giorni dalla fine dei loro esami di maturità, e la prima reazione era stata quella di riconquistarsi con l’ozio quell’estate passata a sgobbare sopra le tanto odiate “sudate carte”, come aveva citato ridendo Giulia.
«Giulia?»
«Mmh?», mormorò l’altra, rotolando pigramente su un fianco e posando la testa sopra lo sterno di Alessandra. «Che succede?»
«Abbiamo scelto due università diverse, in altre città… Sei sicura di voler restare insieme?»
«Ne abbiamo già parlato, Alessandra…», sospirò Giulia, chiudendo gli occhi. «Non sono io quella che ha dei dubbi. Io non ho intenzione di lasciarti andare, e tu?»
Alessandra voltò la testa, fissandola pensierosa.
«Non mi lascerai mai andare?»
«Mai», le sorrise, alzandosi di quel che bastava per lasciarle un lieve bacio sulla fronte. «Te lo prometto».
 
Quando aprì gli occhi, Alessandra rimase per un po’ completamente immobile, ascoltando il proprio respiro calmarsi e tornare regolare. Solo allora si accorse del lenzuolo che le intrappolava le caviglie e scalciò per liberarsene, ma era un’altra la stretta che trovava soffocante, e della quale non riusciva ad affrancarsi. Si alzò e raggiunse a piedi scalzi la cucina, mettendo sul fornello un pentolino d’acqua per il tè. Persino in estate, persino con tutto quel caldo non sarebbe mai riuscita a fare a meno di un tè bollente la mattina.
Mentre aspettava che l’acqua fosse pronta, si appoggiò al tavolo e fissò distrattamente la linea indistinta del suo profilo che le proiettava la superficie metallizzata del frigorifero. Si sfiorò lo stomaco, sospirando, profondamente frustrata. Di sicuro non era questa la vita che si sarebbe aspettata dieci anni prima: sola nell’appartamento lasciatole dalla vecchia zia, supplente per grazia divina, totalmente rinchiusa in sé stessa, vittima di un’apatia esistenziale che quasi non le lasciava requie… No, non l’avrebbe mai immaginato.
Erano diversi mesi che nemmeno ci pensava, a Giulia. Lei era il simbolo più grande del suo fallimento personale, quindi sostanzialmente tentava sempre di evitarne lo spettro crudele.
Il ‘ma’ della sua vita, forse l’unico.
Scosse la testa e versò il contenuto nella tazza bianca - così anonima, così da lei - e vi tuffò una bustina di tè Assam. La prese tra le mani, incurante di scottarsi, e rimase a fissare per un po’ il lento tingersi dell’acqua, le volute più scure girare in cerchio fino a rendere il liquido di un colore omogeneo.
“Te lo prometto”.
Quante bugie.
Buttò la bustina e aggiunse un po’ di latte, senza mettere zucchero nel tè.
Era il giorno del suo ventinovesimo compleanno, e si sentiva terribilmente demoralizzata.
 
Quella dove abitava era una cittadina dalle modeste dimensioni: non troppo piccola, ma nemmeno paragonabile ad una città vera e propria. Fu per questo che non si stupì di trovare un gruppetto di sue allieve sulla propria strada, una volta uscita di casa per farsi un giro.
«Buongiorno, professoressa!», la salutò Teresa, la più sfacciata tra tutte. Un’allieva difficile, una da 8 in condotta, che era riuscita a far vedere i sorci verdi al docente di religione. Alessandra si voltò con un sorriso, ringraziando mentalmente di essere una delle poche nelle sue grazie. Molto probabilmente, nel caso opposto, sarebbe stata apostrofata con ben altro epiteto.
«Ragazze! Vi state godendo il primo giorno di libertà?», domandò loro, sorridendo. Erano cinque, sempre loro, sempre insieme: Teresa, Anna (che non riusciva mai a tener chiusa la bocca), Vittoria (degna compare di Anna), Ilaria (la ragazza più ingenua sulla faccia della terra) e Ludovica, che più spiccava per il suo quasi eterno silenzio. Ne avevano discusso molto, durante i consigli di classe; a cosa potesse essere dovuto quel suo mutismo, quella sua volontà di scomparire tra gli altri. Gli altri colleghi avevano scrollato le spalle, onestamente sollevati all’idea che almeno qualcuno di quella terribile V C non fosse scatenato come la classe, ma lei rimaneva poco convinta. Sentiva che non era un silenzio normale, o perlomeno caratteriale: era un silenzio dovuto dall’abitudine, un po’ come il suo.
«La quiete prima della tempesta!», le rispose Teresa, con un tono a metà tra il sarcastico e l’acido.
«Gli esami sembrano così lontani…», sospirò Vittoria, e il sorriso di Alessandra si allargò.
«Certo, lontani… Ne riparliamo il 22», rispose, godendosi lo sguardo terrorizzato delle sue allieve.
«Su, su, prof…», riprese  Teresa, cominciando a tallonarla mentre attraversava la strada, diretta al grande prato cittadino poco distante. «Proprio non vuole dirci quali saranno le materie della terza prova?»
Alessandra roteò gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
«Non è perché sono solo una supplente che voi potete trarre da me ogni tipo di informazione utile!»
«Sempre meglio di quell’acida della Bacci, perlomeno», esclamò Anna, riferendosi alla precedente docente di storia e filosofia. «Quella ci avrebbe distrutti all’orale».
«E non è detto che non lo farò io», terminò Alessandra, fermandosi e facendo loro capire di voler continuare la passeggiata da sola. «Voi pensate a ripassare per bene, il resto è solo questione di fortuna. Buona giornata, e buon riposo per oggi!»
Si voltò, sorridendo nell’udire Ilaria lamentarsi della tipica sfortuna che l’avrebbe sicuramente fregata all’esame, e si allontanò in fretta. Si sentiva lo sguardo di Ludovica addosso, e questo la turbava particolarmente. Quelle ragazze le stavano simpatiche, ma tentava di non dar loro eccessiva confidenza.
“Come ogni buon insegnante”, si disse. “O come ogni buon codardo”, ebbe anche la cortesia di correggersi.
 
«Tesoro!», trillò sua madre al telefono, facendo automaticamente salire il mal di testa di Alessandra.
«Mamma. Che piacere sentirti».
Sperò che il suo tono fosse abbastanza seccato da farla desistere, ma non accadde niente di quanto si augurava. In effetti, non accadeva mai.
«Non mi dirai che ti ho svegliato, vero? Sono già le otto!»
«Ma figurati, stavo facendo giusto ora un corso di aggiornamento per l’insegnamento», sbadigliò la figlia, nascondendo la faccia nel cuscino.
«Ancora con questi aggiornamenti? Quando si decideranno a darti una cattedra? Hai trent’anni ormai, è ora di farti una famiglia, un futuro…»
Alessandra represse l’istinto di urlare, pensando che ci avrebbe solo rimesso l’umore della giornata.
«Una famiglia? E con chi, di grazia?», rispose ironicamente, sollevandosi sui gomiti e fissando il materasso sotto di sé.
«Ti chiamavo giusto per questo! Ti ricordi di Maurizio, vero? Il figlio di Luisa…»
«Mamma, se cerchi di nuovo di accasarmi giuro che ti chiudo il telefono in faccia. A me piacciono le donne, mamma, le donne».
«Oh, ma piantala con queste sciocchezze adolescenziali! È ora di crescere, piccola, di tornare su binari giusti, normali…»
«Per me è questa la normalità. È questa la mia normalità. E tu sei pregata di rispettarla».
I gomiti cominciavano a dolerle, così tornò in posizione prona, sbuffando.
«Certo che sei proprio impossibile come tuo padre. Cosa ti costerebbe fare perlomeno un tentativo?»
«Hai altro da dirmi, mamma?», sospirò Alessandra.
«No, nulla di che… Facciamo che ci vediamo uno di questi giorni per pranzo, magari martedì? E ti prego, promettimi di pensarci».
«La gente promette, promette, promette… e poi non mantiene mai. Ne riparliamo più avanti, va bene? Ciao, mamma».
Spense il cellulare senza nemmeno stare ad ascoltare il suo commiato, stendendosi su un fianco e lasciando cadere l’oggetto sul parquet.
“Te lo prometto”.
Chiuse gli occhi e sentì il peso nel suo petto ingrandirsi, ancora. Non pianse, no, erano anni che non lo faceva, e probabilmente aveva dimenticato persino come si facesse.
Rimase solamente a farsi inghiottire da sé stessa, come se avesse avuto un buco nero che pian piano si stesse mangiando le componenti rimaste sane.
Chiuse gli occhi e non pianse, no, ma si chiese se quella sua eterna inerzia non fosse ben peggiore di tutta la rabbia del mondo.
 
«Cosa c’è?», sussurrò Alessandra nel buio.
«Niente, torna a dormire».
Giulia si liberò dal suo abbracciò e si portò più distante da Alessandra, lasciandola priva del suo calore.
Nell’aria, solo una litania silenziosa.
“Non mi ami più non ti amo più non ci amiamo più”.
 
Fuori pioveva con violenza, la corrente elettrica continuava a saltare e i vetri delle finestre tremavano ad ogni nuovo tuono, quasi fossero sul punto di esplodere. Alessandra si sbrigò a chiudere le imposte lasciate aperte e venne colpita in volto dalla pioggia, che il forte vento faceva quasi cadere in orizzontale. Imprecando fra sé e sé chiuse i vetri, domandandosi perché a giugno ci dovesse essere un simile temporale. Ah, già, i temporali estivi.
Ma chi li aveva inventati?
Erano quasi le undici di sera, e l’unica cosa che desiderava in quel momento era di mettersi comoda a leggere qualcosa. Sicuramente, non udire il campanello di casa squillare.
Piuttosto perplessa, scrutò dallo spioncino e quello che vide le fece desiderare di far finta di non essere in casa. Aveva paura, ma aprì lo stesso.
«Ludovica».
La ragazza alzò lo sguardo, smarrita, e solo allora notò il labbro gonfio e la guancia arrossata.
«Non volevo disturbare…», mormorò la ragazza, stringendosi contro il borsone che portava in spalla.
«Cos’è successo?», domandò Alessandra, prendendole la grossa sacca e posandola sul pavimento, lasciandola entrare. «Stai bene?»
Ludovica si guardò spaesata intorno, poi riprese a parlare come se non l’avesse udita.
«Non volevo disturbare», ripeté. «Ma non sapevo da chi andare. Le mie amiche non sanno nulla, e quello che sa una lo sanno tutti e-», si bloccò, capendo di essersi sbilanciata troppo.
«Ludovica…»
«Non dovrei essere qui, lo so. È la mia insegnante e tutto il resto, ma davvero non sapevo cosa fare», mormorò, chinando il capo come se si sentisse profondamente umiliata. E probabilmente lo era.
«Vieni con me», le disse gentilmente la donna, posandole una mano sulla schiena e conducendola in bagno, dove la fece sedere sul bordo della vasca. La luce lì era più forte, e illuminava quasi sinistramente il volto malridotto dell’allieva.
«Mi dispiace, davvero…»
«Come te lo sei fatta?», la interruppe Alessandra, aprendo il tappo del disinfettante e buttandone un’ampia dose su una garza pulita. Ludovica non rispose, e Alessandra decise di insistere. Le posò le mani sulle ginocchia e premette con forza, non muovendosi finché la ragazza non mormorò un:
«Non voglio casini».
Alessandra le afferrò spazientita il volto, strofinando con troppo vigore il lungo graffio.
«Ci vogliono dei punti di sutura, qui non possiamo fare tanto altro. Ti devo portare al pronto soccorso».
Ludovica le rivolse uno sguardo terrorizzato, e Alessandra avrebbe davvero voluto dirle che si sbagliava, che non era necessario, ma non poteva.
«Non c’è altra soluzione, non puoi rimanere in queste condizioni».
Uscì dal bagno e iniziò ad infilarsi gli alti stivali, così presa dai suoi pensieri che quando Ludovica la raggiunse silenziosamente non se ne accorse e trasalì, sorpresa.
«Non c’è proprio altra soluzione?»
Quegli occhi spauriti le ricordarono altri occhi, i suoi, quando aveva ripetuto come un’eco la stessa frase che le aveva detto l’unica persona di cui aveva fiducia all’epoca. Contenevano quella sorta di fiducia inespressa che teme di venire tradita da un momento all’altro.
Per un attimo la sua certezza tentennò, attaccata dal fantasma di un passato che pensava morto per sempre; ma fu solo un istante, perché afferrò la borsa e le chiavi della macchina, facendole segno di seguirla.
Agisci sempre e solo per il tuo bene, di quello degli altri non ti interessa.
“Invece sbagliavi, e continui a sbagliare. Non mi hai lasciato il tempo di dimostrarti che avevi torto”.
 
So call in the submarine ‘round the world will go; does anybody know if we’re looking out on the day of another dream?
 
Quando raggiunsero il parcheggio dell’ospedale e Alessandra spense il motore, ebbe quasi l’impressione che Ludovica fosse svenuta.
«Sei sveglia?», le chiese, sfiorandole la fronte. Si era presentata bagnata come un pulcino, e nella foga del momento la donna non aveva neanche pensato a farla asciugare. Si sentì improvvisamente un’idiota.
Ludovica si mosse appena sul sedile, a disagio, prima di voltarsi di nuovo verso il finestrino con un moto di stizza che fece a sua volta spazientire l’altra.
«Non possiamo fare altro?»
«Devi capire che io non sono tua madre, o qualcuno da cui poter andare a piangere quando non ti va di fare qualcosa; non sono neanche una delle tue amiche. Sono un’insegnante, e come tale ho il compito di tutelare la tua salute. Quindi ora scendi senza far tante storie, o ti porto qui il dottore».
Non era mai stata così dura senza motivi più che validi con i suoi allievi, ma Alessandra si sentiva compressa nel suo ruolo di insegnante, e come tale sapeva di dover fare il proprio dovere. Non poteva assecondare i capricci di una ragazzina.
Ludovica chinò il capo in avanti, e per un momento la donna temette che stesse per mettersi a piangere o addirittura per rimettere, ma non accadde nulla. Stava semplicemente raccogliendo l’ordine delle sue idee, esattamente come quando a scuola la sottoponevano ad una domanda particolarmente difficile. Le fece tenerezza, ma fu determinata nel non cambiare espressione o motivazione.
«Abbiamo già avuto problemi in casa. Mio fratello non riesce a gestire bene la morte di mio padre, sono due anni che si comporta male con me e mia madre. Ogni tanto si sfoga così, ma era la prima volta che si accaniva contro di me… Sono scappata di casa».
Ludovica alzò gli occhi neri sul viso della sua insegnante, con una rassegnazione mista alla rabbia per essere stata costretta ad aprirsi così, con la forza. «Se io ora entro lì dentro, avviseranno qualcuno, forse perderà il lavoro. E io non posso permetterlo. Prima o poi gli passerà, ma soprattutto non posso tradire mio fratello».
Alessandra la fissò con serietà, pensando che non era assolutamente d’accordo con quel tipo di discorso, ma dopotutto non poteva costringerla ad andare contro la propria famiglia.
«E di tua madre cosa mi dici?»
Un velo di tristezza calò sullo sguardo di Ludovica, ma si costrinse a rispondere con voce neutra: «Lo ha sempre difeso. Non vorrebbe mai lasciarlo, e mi darebbe la colpa se succedesse qualcosa che gli facesse perdere il lavoro».
La donna sospirò, posando il capo contro il poggiatesta. Eppure, c’era una sola cosa che andava fatta.
«Devi farti guardare. Scendi».
La ragazza ubbidì, e insieme si avviarono verso la grande entrata del pronto soccorso.
«Che cosa diremo?», chiese Ludovica, mentre un fortissimo odore di disinfettante le investiva entrambe e le faceva storcere il naso.
Alessandra la guardò e abbozzò un sorriso.
«Qualcosa ci inventeremo».
La donna si diresse al bancone dietro il quale stava l’infermiera addetta. Tornò e notò la cera pallidissima della sua allieva.
«Andrà tutto bene», le disse.
«Non si fanno mai promesse che non dipendono da noi», le rispose piano la ragazza, una frase che la colpì tantissimo.
Non sapendo come rispondere, le strinse una mano.
«Cercherò di fare in modo che le cose vadano bene», disse. Dopotutto, i tentativi sono molto più onesti delle promesse.
Ludovica annuì, e ricambiò la stretta.
Forse, però, in quel momento nasceva più che un tentativo, più che una promessa. Nasceva un tentativo di promessa, o la promessa di un tentativo.
 
Well you can’t get what you want but you can get me, so let’s set up and see, ‘cause you are my medicine when you’re close to me.
 
Due anni dopo
 
Giunta davanti alla villetta a schiera, verificò che l’indirizzo segnato sul taccuino e il numero civico della targhetta corrispondessero, si fece coraggio e suonò. Mentre attendeva che qualcuno le venisse ad aprire il cancello, notò nel giardino un’altalena, una piccola bicicletta ed un pallone giallo, e si chiese se alla fine Giulia non avesse cambiato idea. Nessuno resta fedele a sé stesso, nessuno è in grado di comprendersi fino in fondo, o non è capace di sopportare il peso di ciò che è. La considerazione la rese triste, ma proprio in quel momento si aprì la porta di casa e spuntò una donna castana, che restò ferma sulla soglia, senza avvicinarsi al cancello.
«Desidera?»
Alessandra aveva immaginato varie volte, nel corso degli anni, come sarebbe stato un suo nuovo incontro con Giulia, e se ci sarebbe stato. Di sicuro, l’idea di un’altra ad accoglierla non l’aveva mai sfiorata.
«Cerco Giulia. Sono…» Un’amica? La sua precedente amante? «Sono una sua vecchia conoscenza».
L’altra valutò un paio di secondi la risposta, poi con un sorriso venne ad aprirle il cancello, conducendola fino dentro casa.
«Giulia? Hai visite!»
La prima cosa di cui Alessandra si accorse, però, non fu la donna con le gambe raccolte sopra al divano, quanto la bambina stesa sul tappeto a disegnare.
«Ciao, Alessandra».
Alzò lo sguardo, turbata, ed incontrando gli occhi scuri dell’altra sentì per la prima volta il panico. Cosa ci faceva lei, lì? Cos’era venuta a fare? Poteva solamente disturbare la serenità di qualcuno che l’aveva sbattuta fuori dalla sua vita tanto tempo prima. Quasi leggendole nel pensiero, Giulia incalzò:
«Hai bisogno di qualcosa?»
L’altra la fissò spaesata, poi guardò la bambina.
«Volevo solo rivederti. È da parecchio che non ci incontriamo».
Come se fosse infastidita dall’attenzione rivolta alla piccola, Giulia si alzò e accarezzò la testa della bimba a terra.
«Ti va di giocare un po’ fuori con zia Mara, tesoro?»
Mara sollevò interrogativamente un sopracciglio in direzione di Giulia, ma non commentò, prendendo per mano la nipote e aprendo la porta-finestra che dava sul giardino, uscendo nell’assolata giornata di maggio.
«E ora dimmi cosa vuoi».
Il tono di Giulia era gelido, distante. Alessandra si chiese davvero cosa si aspettava di diverso, e si diede della stupida per questo.
«Volevo rivederti, te l’ho detto. Sono anni che abbiamo preso strade diverse, ero curiosa di vedere che fine avessi fatto».
Giulia la guardò con commiserazione, e il cuore di Alessandra si restrinse dolorosamente. Cosa si era aspettata? Che l’avrebbe accolta con un sorriso ed un abbraccio?
«Sempre egoista come al solito, vero, piccola? In questo non sei cambiata affatto». Giulia si rialzò dal tappeto e tornò a sedersi sul divano, incrociando le braccia. Alessandra sentì gli occhi pizzicarle, un improvviso freddo la fece rabbrividire.
«Sono venuta a vedere la tua vita senza me», ammise, con uno strano atto di sincerità che non le era proprio.
Restarono in silenzio per un po’, ad osservarsi come si osservano due animali che riprendano fiato dopo un primo scontro, feriti, doloranti. Uno scontro che forse durava da anni e che nessuna delle due aveva mai vinto davvero.
«Hai perso questa vita. Hai perso una donna che ti adorava, una nipote da crescere, la serenità. Io invece non ho perso granché, probabilmente ci ho solo guadagnato».
«È la figlia di tua sorella Simona?», le domandò Alessandra, ricordando con un moto di affetto quella ragazzina pallida che le spiava curiosa da dietro le finestre di casa sua, quando si baciavano in giardino.
«Già».
«Ti assomiglia tantissimo».
Giulia posò il capo contro lo schienale del divano.
«Vattene. Mi hai fatto già male una volta, ora non tentare di rovinare quel poco di buono che ho».
Alessandra sospirò, e finalmente fece quello che doveva fare da una vita.
«Ti chiedo scusa».
«Grazie, ma non me ne faccio assolutamente nulla. Vattene».
La donna annuì e tornò sui suoi passi.
“Una totale perdita di tempo, nient’altro che questo”, si disse con rabbia, salendo in macchina.
 
Quando entrò in casa c’era una sola luce accesa, quella della camera da letto.
«Com’è andata?», le domandò Ludovica, sentendo il rumore della porta. Alessandra la raggiunse, sfilandosi i sandali e sedendosi sul letto pieno dei fogli e degli appunti della ragazza.
«Un disastro».
«Le hai detto quello che volevi dirle?»
Alessandra annuì, prendendosi il volto tra le mani.
«Ho fatto una tale sciocchezza…»
«Nessuno ti dava la garanzia che sarebbe andata bene», le rispose Ludovica, raccogliendo i fogli e posandoli per terra, avvicinandosi alla donna. «Ma hai fatto comunque ciò che dovevi. Hai fatto il tuo dovere».
Le strinse una mano, per infonderle quello stesso coraggio che da anni si promettevano (o meglio, tentavano di promettersi) di avere. Alessandra si voltò e le accarezzò una guancia.
«Grazie per essere rimasta comunque».
«Dovere», sorrise Ludovica, prima di baciarla.
Due anni prima, dopo la maturità di Ludovica, Alessandra aveva ricevuto una lettera di Ludovica, che nel frattempo si era trasferita dagli zii che abitavano a diverse decine di chilometri da lì. Il contenuto l’aveva commossa, ma si era ripromessa di non darle spago; dopotutto, pensava, si trattava solo di una cotta.
Poi però Ludovica aveva cominciato a farle visita, costantemente, senza pretendere da lei nient’altro che un’ora di chiacchierata ogni settimana. Lei, così silenziosa, finalmente si apriva.
Senza neanche accorgersene, Alessandra aveva smesso di vederla come un’allieva e aveva iniziato a vederla come una giovane donna iscritta a Giurisprudenza, che aveva preso in mano la sua vita e sapeva quindi cosa farne. Senza neanche accorgersene, avevano finito con il fare sempre più tardi, la sera, ad incontrarsi anche fuori quegli appuntamenti prestabiliti. Erano finite a condividere quella casa e quella stessa camera durante i weekend.
Le piaceva da morire quel suo modo di baciarla. Le veniva incontro e non riusciva a fare a meno di toccarla, di sentirla sotto le dita, le braccia, lo stomaco. Ludovica doveva riuscire a sentirla sua in maniera quasi morbosa quando facevano l’amore, forse per trasmetterle tutto quello che sentiva.
Si stese sotto di lei, lasciandosi baciare sul collo e massaggiandole la schiena, sospirando e sentendo premere da sopra gli shorts la coscia sinistra della compagna. La aiutò a togliersi la canottiera e si sfilò la camicetta, tornando quindi supina e graffiandole inavvertitamente il fianco che le aveva stretto. Ludovica si chinò a baciare prima il suo seno, senza però scoprirlo, quindi l’addome, fino al bordo dei pantaloncini. Le infilò una mano da sotto il bordo inferiore destro, arrivando subito alle slip che scostò, accarezzando con due dita la pelle umida e terribilmente pulsante, almeno per Alessandra. Riprendendo a baciarle lo stomaco, cominciò a stuzzicarle le grandi labbra con indice e pollice, finché non entrò dentro di lei. Alessandra rimase senza fiato, un po’ per il caldo soffocante, un po’ per il momento; chiuse gli occhi e spinse il bacino contro la compagna, sentendo il cuore accelerare.
 
«Mi dici cos’hai?», le chiese Giulia, scostandosi irritata da lei.
Alessandra la fissò e mormorò:
«Non ci riesco più, non è possibile continuare a stare insieme se riusciamo a stare bene solo quando siamo in intimità. Non funziona così».
Le pupille di Giulia si allargarono, mentre assumeva un’espressione impaurita.
«Vedrai che riusciremo ad aggiustare tutto, è solo un periodo, può capitare…»
Alessandra annuì, ma il suo cuore era distante.
 
Ludovica le prese una mano dopo il suo orgasmo, facendole capire cosa desiderava, e Alessandra le posò un bacio sulla tempia, prima di rovesciare le posizioni.
 
«Ti avevo detto di passare a prendere anche quel saggio di francese, lo sai che era importante…», la rimproverò Giulia, e Alessandra sentì qualcosa rompersi dentro di sé. Qualcosa che sarebbe rimasto rotto per molti anni.
«Non posso tenere a mente tutte le sciocchezze che dici!», sibilò, con le lacrime agli occhi, consapevole della sua cattiveria, della loro cattiveria.
 
Alessandra la baciò a lungo, prima di stendersi accanto alla compagna. Ludovica la abbracciò e le accarezzò il braccio, stretta a lei.
«Ora sei pronta per piangere?»          
La donna la fissò. E poi, quasi come fosse un miracolo, sentì le prime lacrime affacciarsi agli occhi.
«Sì».
 
«Non ti amo più».
Giulia annuì.
«Lo sapevo già da tempo».
 
«Mi sono perdonata».
 
If you can’t get what you want then you come with me.
 
 
Note personali:
Questa storia si è classificata seconda al contest “Il Triangolo No!” indetto sull’EFP Forum.
Sono molto contenta della posizione, dato che non è uscita come avevo sperato: diciamo che quasi tutta la storia è rimasta incastrata nella mia testa, e non ne è uscita. Questo è solo un breve estratto, con un finale molto più positivo di quello che inizialmente gli avevo dedicato.
Faccio i miei complimenti alle altre partecipanti e alla prima classificata, ovviamente, e ringrazio le giudici per i giudizi (ho corretto gli errori segnalati)! A presto ♥
   
 
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