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Autore: EvgeniaPsyche Rox    16/07/2012    7 recensioni
Roxas Hagen vive un'esistenza che è lontana anni luce da ciò che si può considerare come una vita normale.
E' stato spedito nella clinica Werner a sedici anni e mezzo;ora ne aveva diciotto e a lui sembrava sempre di essere al punto di partenza.
Anzi.
Talvolta gli pareva addirittura che la sua situazione fosse peggiorata.
-Un migliore amico che fa di tutto pur di infrangere le regole, un odiosissimo compagno di stanza, terapie di gruppo, pazienti del terzo piano, passati che continuano imperterriti a bussare alla porta...
Forse non ricordava neanche che cosa fosse una vita normale. -
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Axel, Hayner, Roxas
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Nessun gioco
Capitoli:
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[Per la musa ispiratrice che è venuta a trovarmi nei miei sogni, rivelandomi il titolo di questa storia
-E sì, prendetemi pure per una pazza che parla con un frammento di un proprio sogno, ma per me è stato un evento importante-
e per Jim Morrison, che mi ha incantata, facendomi innamorare perdutamente delle sue parole brucianti e piene.]

 

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Insidie interiori.

 

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1. Psycho

 

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Si nascondeva sempre in soggiorno, in quel minuscolo spazio tra il mobile e il muro.
Il mobile in questione era un enorme armadio trasparente pieno di vecchie fotografie, bicchieri e piatti particolari per gli ospiti, bambole di porcellana e statuette di vetro.
Era stretto. Tremendamente stretto e ogni volta che riempiva i polmoni per prendere aria, sentiva una lieve pressione alla pancia.
Però cercava di non curarsene e sporgeva un poco il volto, scrutando con estrema attenzione la soglia della porta; non appena sentiva scattare la serratura, si accucciava ulteriormente e si sforzava in ogni modo di rendere impercettibili i propri respiri pesanti.
Udiva poi il rumore dei sacchetti di carta venire appoggiati velocemente sul tavolo della cucina e una voce galleggiare nella casa. «Roxas?»
Lui si metteva una mano sulla bocca e nascondeva un lieve sorriso soddisfatto.
«Roxas?», questa volta il richiamo si faceva più alto, ma ancora nessuna risposta.
«Roxas?», la voce un poco tremante, una lieve nota di preoccupazione. «Roxas! Roxas, ci sei?»
Dopo tornava a respirare, piano piano, zitto zitto, per non farsi sentire, rimanendo però sempre nascosto.
«Roxas?! Roxas, rispondi!», la paura spiccava in un grido e il terrore si faceva spazio nel torace della donna. «Roxas!»
E lui sbucava finalmente fuori, con il cuore colmo di sofferenza e pena per la madre, avviandosi poi verso la soglia della porta. «Sono qui.»
Successivamente lei si metteva sempre una mano al petto, tirando un sospiro di sollievo, mentre la fronte però si corrugava quasi immediatamente in un'espressione arrabbiata. «Roxas, lo sai che detesto questi scherzi. Lo capisci o no che mi fai stare veramente male?»
Il giovane si limitava a restare in silenzio: le labbra serrate, gli occhi blu come quelli del padre immersi nelle iridi verdi della madre.
«Non saprei proprio cosa fare se ti dovesse succedere qualcosa.», e, dopo aver detto ciò, la donna si chinava verso l'esile figura del figlio, avvolgendolo in un caloroso abbraccio.

 

 

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''Gli uomini che escono in barca
Per sfuggire al peccato & alla melma della città
contemplano la placenta delle stelle serotine
dal ponte, sdraiati
& passano l'equatore
& praticano rituali per l'esumazione dei morti
iniziazioni pericolosi
Per segnare il passaggio a nuovi livelli

Sentirsi al limite di un esorcismo
di un rito di passaggio

Attendere, o cercare la maturità
l'illuminazione in un'arma''

 

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Chiuse il libro con un tonfo senza leggere l'ultima riga poco più in basso, sospirando pesantemente.
Socchiuse gli occhi per un attimo e tastò con estrema attenzione la copertina della sua unica e vera fonte di distrazione; riaprì lentamente le palpebre e scrutò il volto dell'uomo di cui era innamorato perdutamente.
Strofinò delicatamente l'indice sui suoi occhi, sul naso, sulle labbra e poi risalì sui capelli, rileggendo più e più volte il titolo.
''Tempesta elettrica.
Poesie e scritti perduti.''

Un altro sospiro. Strinse con forza il libro e si impose di appoggiarlo sul comodino accanto a sé; si alzò faticosamente dal letto e non si prese neanche la briga di sistemare le coperte bianche.
Bianche. Schifosamente bianche come i muri della sua stanza, come il materasso. Bianco. Orrendo bianco.
Un bianco soffocante. Una purezza finta che nascondeva un grigiore tinto di macchie nere e rosse; un'ingenuità falsa che avvolgeva quel fottutissimo edicio che detestava a morte.
Si diresse lentamente nel piccolo bagno -Schifosamente bianco anche quello- e si chinò verso il lavandino, lavandosi la faccia con dell'acqua fredda; alzò la testa e si guardò il volto gocciolante allo specchio con un'espressione indecifrabile.
Occhi blu solcati da occhiaie. Blu, orribilmente blu, come sognavano tutte le ragazze; ma no, non era il blu che loro amavano, era il blu di un pazzo, perché lui era pazzo, eccome se lo era.
Anzi, no.
Lui non era pazzo. Non lo era. Lui era normale, erano gli altri ad essere pazzi.
Tutta quella gente disgustosa che lo circondava era pazza. Tutti, tutti.
Lui no. Non era pazzo.
Prese un'altra manciata d'acqua e se la lanciò sulle guance pallide e scavate dalla stanchezza.
Lui era normale, gli altri erano pazzi.
Lui era normale, gli altri erano pazzi.
Avanti, Roxas. Ripetilo. Un'altra volta. Ancora e poi potrai affrontare l'ennesima giornata di merda in questo posto del cazzo.
Lui era normale, gli altri erano pazzi.
Era quella la consapevolezza che si era costruito lentamente stando in quel luogo di matti. La consapevolezza che andava contro ciò che gli insegnavano: ''Qui nessuno è pazzo o normale, abbiamo tutti dei problemi che riusciremo a risolvere. Chi prima, chi dopo.''
«Ma vaffanculo.», sibilò a denti stretti il giovane al ricordo di quella dannata frase; chiuse il rubinetto e si sbottonò la camicia da notte, lanciandola sul pavimento. Quel giorno non aveva voglia di sistemare niente di niente. Era una giornata più merdosa della solita merda che è ogni giorno, come diceva il suo migliore amico.
Ecco, era una di quelle giornate.
Il problema era che in quell'ultimo periodo giorni del genere si ripetevano troppo frequentemente.
Stava forse peggiorando? Forse.
Ma che importava, in fondo? Niente.
Tanto ci avrebbero pensato le donne delle pulizie alla stanza, anche se il regolamento imponeva che si doveva mantenere un certo ordine con i propri materiali.
Ecco, sì, il regolamento. Un'altra stronzata di quel dannato posto.
Si tolse i pantaloni azzurri e li lasciò scivolare sulle piastrelle del bagno, raggiungendo l'armadio di legno, in contrasto in mezzo a tutto quel bianco: aprì le ante e afferrò la maglia più larga che aveva insieme ad un paio di jeans chiari.
Indossò velocemente gli indumenti e aprì la porta della camera, ritrovandosi il volto assonnato del suo migliore amico, il quale stava proprio per bussare.
Qualche centimetro più alto di lui; capelli disordinati di un biondo cenere, proprio come i suoi, occhi castani e quel mezzo sorriso ironico stampato sul volto era forse la cosa che più lo caratterizzava.
Hayner Wiedenkeller era un suo coetaneo che era entrato in quel posto praticamente nello stesso periodo in cui era arrivato lui.
Roxas rimase immobile, il palmo ancora appoggiato sulla maniglia e lo sguardo fisso nelle iridi dell'altro che sembrava essere particolarmente pensieroso, o forse semplicemente mezzo addormentato.
«Bella maglia.», borbottò l'altro dopo qualche altro secondo passato in silenzio, strofinandosi l'occhio sinistro prima di sbadigliare; il giovane dalle iridi blu abbassò lo sguardo verso l'indumento che raffigurava la sua band preferita.
«L'hai già vista un miliardo di volte.», osservò successivamente, sollevando istintivamente il soppraciglio destro. «Aspetta, ho già capito. Ti serve un favore.»
Hayner ridacchiò nervosamente, svegliandosi del tutto; successivamente fece cenno al compagno di seguirlo mentre iniziò ad incamminarsi per i lunghi corridoi.
Roxas sospirò e chiuse la porta dietro di sé, incrociando le braccia al petto mentre scuoteva la testa con aria rimprovera. «Allora, che cos'hai combinato questa volta?»
«Niente, giuro.», mugugnò infantilmente Hayner, ottenendo un'occhiataccia dall'altro presente. «Ho solo, ecco... Mmmh... Hai presente l'alcolizzata del terzo piano?»
Il giovane corrugò la fronte, scendendo lentamente le scale. «Hayner, il terzo piano è pieno di alcolizzati.»
«L'intero edificio è pieno di alcolizzati, se è per questo. Pensa che sono il sessanta per cento di tutti i pazienti.», spiegò l'amico, divagando. «Comunque, no, io stavo parlando della tizia bionda.»
«Larxene?», azzardò il suo interlocutore, mostrandosi assai perplesso. «Ti prego, non dirmi ch-»
«No, no, aspetta, aspetta. Non è come credi!», si affrettò a giustificarsi Hayner, mostrando entrambi i palmi. «Cioè, l'ho beccata mentre pomiciava allegramente con il suo compagno di stanza. Non so chi cazzo era, comunque... Poi...»
Ma Roxas lo precedette, intuendo già com'era andata a finire la situazione. «Sei andato a dirlo al suo ragazzo, ho già capito. E adesso lei ti vuole spezzare le ossa, ho capito bene?»
«Veramente non ha detto che mi vuole spezzare le ossa. Ha semplicemente detto che vuole ridurmi a brandelli e che tutto ciò che resterà di me saranno dei miserabili stuzzichini.», osservò con un mezzo sorriso sghembo il compagno, ghignando.
«Wow.», commentò apaticamente il biondo, abituato ai guai in cui si metteva sempre l'amico; raggiunsero finalmente il piano terra e si avviarono verso l'enorme sala mensa a sinistra, incrociando un paio di ragazzi ritardatari come loro.
«Io non ho ancora capito perché non usiamo l'ascensore come fa praticamente metà della gente qui dentro.», farfugliò improvvisamente il ragazzo dagli occhi marroni, mettendosi le mani dietro la nuca, sbadigliando nuovamente. «E' una faticaccia immensa fare le scale.»
Roxas sospirò per l'ennesima volta, ripetendo la medesima frase di ogni maledetto giorno. «E' proprio per questo; l'ascensore lo usano tutti e di conseguenza se lo utilizzassimo anche noi dovremmo vedere qualche faccia da culo. Lo sai che io non voglio parlare con nessuno di prima mattina. Soprattutto con i coglioni dell'ultimo piano.»
«Ma loro vanno quasi sempre nell'altra mensa.», replicò il compagno. «Dicono che lì il cibo sia migliore.»
«Stronzate. Quando mi stavo nascondendo dalla Dahl sono capitato in quella mensa durante l'ora di pranzo e c'era un brodo che sapeva di formaggio andato a male.»
Hayner scoppiò a ridere. «Un brodo che ha il gusto di formaggio?»
«Ma che ne so.», borbottò l'altro scrollandosi le spalle. «Resta il fatto che faceva schifo e che preferisco avvelenarmi qui che nell'altra mensa.»
La mensa era sicuramente la sala più grande dell'intero edificio: vi erano una ventina di tavoli in tutto e ciascuno di essi possedeva sette sedie, anche se poi i presenti le spostavano un po' come volevano, con il risultato che vi erano tavoli che disponevano di un paio di posti e altri che, al contrario, ne avevano addirittura undici.
Le tavoglie, anch'esse bianche, erano ruvide e alla fine dei pasti erano sempre stropicciate, se non addirittura strappate.

«Comunque, tornando al discorso di prima», parlò improvvisamente Hayner, tirando diversi spintoni per farsi spazio tra i ragazzi più piccoli, consapevole del fatto che essi non avrebbero osato fiatare. «ho sentito che questa sera Larxene verrà in sala tv proprio per suonarmele di santa ragione.»
«Così impari ad intrufolarti al terzo piano per saltare le ore della signora Olsen.», commentò aspramente l'altro, scrollandosi le spalle prima di arrivare di fronte al volto rugoso e accigliato della cuoca con il vassoio in mano. «'Giorno Mary.», mormorò poi apaticamente, sbattendo più volte le palpebre.
«Buongiorno Mary!», salutò con più vivacità l'amico, mettendo una mano sulla spalla del biondo. «Allora, quali sono le novità del giorno?»
La donna sospirò pesantemente, facendo un cenno con la testa alla collega prima di rivolgersi ai due ragazzi: ormai stavano in quel posto da così tanto tempo che erano riusciti a farsi amica addirittura la cuoca. In realtà la donna non aveva più di quantarant'anni: eppure ne dimostrava addirittura cinquanta.
Il volto stanco e segnato da profonde rughe ovunque, le dita storte e ingiallite, la pelle stanca e decadente. Una di quelle persone che non aveva fatto altro che lasciarsi andare alle lussurie della vita, tra alcool e fumo; troppo, troppo fumo. Ricordava benissimo come, a sedici anni appena compiuti, era anche in grado di finire tre pacchetti di sigarette al giorno.
E quelli erano i risultati finali. Diceva di non rimpiangere nulla, ma sia Roxas che Hayner sapevano che erano solo un mucchio di stronzate.
Certo che rimpiangeva. Eccome se rimpiangeva. Rimpiangeva la sua infanzia, la sua adolescenza e la scarsità della sua attuale vita. Il suo non aver voluto di più dal futuro, il suo essersi arresa ad una misera cuoca di una mensa piena di pazzi.
Sospirò ancora -Era già la quinta volta nel corso della giornata; si chiese a quanti sospiri sarebbe arrivata a fine serata-. «Koch si è slogato una caviglia.», disse mettendo una decina di biscotti sul vassoio, sotto lo sguardo inorridito e nauseato del biondo.
Hayner sgranò gli occhi. «Cosa? Koch?! Vuoi proprio dire... Quel Koch?», la cuoca annuì e lui scoppiò in una grassa risata, mettendosi addirittura una mano sulla pancia. «Quanto ci godo!», commentò poi a voce un po' troppo alta, dato che i ragazzi dietro -Già abbastanza infuriati per la lentezza quotidiana dei due che passavano almeno cinque minuti a chiacchierare con Mary- gli lanciarono un'occhiataccia.
«Ma si può sapere di chi state parlando?», si intromise improvvisamente Roxas, nonostante non fosse un'amante del gossip come lo era il compagno.
«Di Koch! Riku Koch, quello del terzo piano! Non l'hai mai visto? Qualche volta passeggia insieme agli altri scemi del villaggio.», spiegò sghignazzando il giovane, afferrando il proprio vassoio pieno di biscotti, prendendo poi la piccola scatoletta di latte. «Lo detesto a morte. Anzi, a dire il vero quelli del terzo piano li detesto tutti.»
Roxas venne assalito da un improvviso brivido; ricordò bene come un paio di volte era stato paragonato a quel ragazzo dai lunghi capelli argentati.
Prima da un ragazza di cui gli sfuggiva il nome, poi dal preside stesso.
Era successo circa tre mesi fa, quando Hayner ne aveva combinata un'altra delle sue, mettendo in mezzo come al solito anche lui; così, senza neanche accorgersene, si era ritrovato di fronte al volto spossato dell'uomo dai lunghi capelli grigi. «Io non so più cosa fare con voi due.», aveva poi ammesso, massaggiandosi le tempie. «Così finirete per farvi cacciare fuori, lo sapete?»
Hayner si era scrollato le spalle, indifferente. «Questa volta non ho fatto niente di male. Era solo uno scherzetto, tanto per passare il tempo.»
Il compagno, seduto accanto a lui, aveva invece roteato lo sguardo da una parte all'altra dell'ambiente circostante. «Ma se è praticamente svenuta. Bello scherzo del cazzo, Hayner. I miei più sinceri complimenti.»
L'uomo non aveva neanche badato al loro linguaggio, ormai abituato a simili situazioni con i due. «Le punizioni neanche servono con voi due.»
«Allora che ne dice di chiudere un occhio e berci una bella tazza di tè, parlando allegramente dei vecchi tempi andati?», chiese sarcasticamente Hayner con il solito ghigno dipinto sul volto, ottenendo una gomitata da parte dell'amico. «Hayner, piantala. Così non migliori la situazione, anzi.»
La discussione era poi sfociata in litigio e alla fine di tutto, dopo l'ennesima sgridata da parte del preside, quest'ultimo aveva scosso la testa rivolgendosi al giovane dalle iridi blu, borbottando: «Mi ricordi molto il ragazzo del terzo piano. Riku Koch. Avete questo stesso carattere intrattabile che dovete assolutamente migliorare, se volete uscire da qua.»
E lui aveva sentito una rabbia tremenda assalirgli il corpo e avvolgergli le viscere; ciò che l'aveva fatto infuriare non era stato il paragone di per sé, ma la frase finale.
Se volete uscire di qui.
Uscire di qui.
Uscire. Di. Qui.

Roxas aveva sedici anni e mezzo quando era finito nella clinica di recupero Werner: ora ne aveva diciotto e a lui sembrava di essere sempre al punto di partenza.
Anzi.
Talvolta gli pareva addirittura che la situazione fosse peggiorata.





«Mi vuoi aiutare o no?»
«No.»
Circa cinque ore dopo, durante la pausa dopo pranzo, Hayner si era recato nella camera dell'amico, dato che quest'ultimo non aveva alcuna voglia di uscire in giardino.
«Sei proprio un amico del cazzo.», commentò aspramente, incrociando le braccia al petto e socchiudendo gli occhi. «Ti ho solo chiesto di pararmi il culo nel caso Larxene questa sera venisse davvero a staccarmi la testa.»
Roxas sospirò, appoggiando la testa contro il vetro della finestra. «E va bene, va bene. Però mi devi un favore.»
L'altro accennò un largo sorriso a trentadue denti, spalancando le braccia. «Dai, facciamo come dice la signora Dahl: diamoci un caloroso abbraccio per ricordarci quanto ci vogliamo bene!»
Il giovane dalle iridi blu si lasciò sfuggire una lieve risata e Hayner sorrise allegramente, felice di aver fatto ridere l'amico una volta ogni tanto; il primo così si avvicinò e si lasciò avvolgere dalle braccia dell'altro, il quale ridacchiò dopo poco. «Siamo proprio delle femminucce del cazzo, porca miseria.»
Roxas accennò un sorriso malinconico. «E allora? Che importanza ha se siamo delle femminucce del cazzo? Qui dentro siamo tutti malati comunque.»
L'espressione del compagno cambiò improvvisamente e corrugò la fronte. «Sì, tranne noi due, però.»
«No, Hayner, no.», il diciottenne scosse la testa e appoggiò le mani sul petto dell'amico, spingendolo appena per allontanarsi. «Lo sai anche tu che noi non siamo da meno. Dobbiamo mettercelo in testa, cazzo. Siamo qui dentro da più di un anno e non facciamo altro che ripeterci che siamo normali e bla, bla, bla.», poi si zittì per qualche secondo, osservando intensamente gli occhi dell'altro. «Se fossimo normali ci avrebbero già fatti uscire da tempo. Anzi, se fossimo normali non saremmo neanche finiti qui dentro. E' questa la ver-»
«Vaffanculo.», sussultò, venendo improvvisamente interrotto dal brusco commento di Hayner che si voltò, spalancando la porta della stanza per poi sbatterla rumorosamente dietro di sé senza aggiungere altro.
«Hayner, no, aspet-», appena si staccò dalla finestra un'ondata di stanchezza gli avvolse le gambe e il mondo iniziò a vorticare intorno a sé: Roxas tremò e schiuse le labbra, come se avesse voluto aggiungere qualcos'altro; ma la voce gli si bloccò in gola come un groppo e si acasciò a terra, chiudendo le palpebre.



Era buio, quando si risvegliò.
Le tenebre riempivano la stanza e gli sembrò di galleggiare nell'oscurità più totale; era come essere immersi nel nero, vuoto e viscido nero.
Nero. Nero che riempiva tutto.
Lui era l'unico colore in contrasto, con quel pigiama bianco era una macchia nel dipinto nero e galleggiante nel nulla.
C'era una voce in lontananza, nel tunnel, o forse era una stanza. Non lo sapeva, era tutto troppo nero.
''Cosa? Non ti ho sentito, ripeti!''
Ma la voce gli si bloccò di nuovo in gola.
Aveva già sentito quella voce. Era familiare, l'aveva sentita, certo che sì, ma di chi era?
''Ripeti, per favore!''
Una voragine di immagini e ricordi lo travolse improvvisamente, trascinandolo e divorandogli il corpo.
Volle strillare, ma non ci riuscì.
Volle chiamare aiuto, ma la voce gli si spezzò.
Chi era. Di chi era quella voce. Non ricordava, non ricordava, era questo il problema.
C'era qualcosa di importante che gli era sfuggito dalle mani. Non l'aveva afferrato in tempo.

 

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«Roxas, mi senti?
Sono io.
Ti ricordi ancora di me?»

 

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Riaprì le palpebre di scatto e si sentì soffocare i polmoni, come se per tutto quel tempo avesse inspiegabilmente trattenuto il respiro.
I demoni del suo passato erano venuti a trovarlo ancora; si erano impossessati di nuovo del suo corpo e gli avevano macchiato i sogni, sporcandoli.
Cercò di alzare la testa tenendosi sui gomiti e posò lo sguardo sull'orologiò appoggiato sul comodino: le sue iridi blu si dilatarono immediatamente e fu costretto a mordersi il labbro inferiore per soffocare un'imprecazione poco elegante non appena scoprì che erano le sedici e cinque minuti.
Era la prima volta che rimaneva svenuto per così tanto tempo e la cosa lo turbò profondamente; il nero lo stava divorando da dentro, gli rissucchiava via le forze ogni giorno e gli rendeva impossibile anche le attività più semplici.
Scendere le scale la mattina stava diventando difficile; risalirle era impossibile, ogni passo gli sembrava un dolore atroce e le ossa gli facevano male, così come tutto il resto del corpo.
Sapeva che lei si era ormai impossessata di lui. Lo stava rissucchiando, lo divorava in vortice infinito e immenso. Ormai era caduto dentro e le speranze di uscire erano sempre più scarse; ogni giorno una piccola candela si spegneva e i suoi occhi si facevano sempre più vuoti.
Non ce l'avrebbe fatta. Era troppo debole, troppo piccolo ed impotente di fronte a lei.
Quella che all'inizio gli era sembrata la sua unica ancora di salvezza, ora era diventata la sua ossessione che lo stava uccidendo lentamente e inesorabilmente.
Si alzò a fatica, cercando poi di rimanere in piedi nonostante le gambe tremanti; chiuse di scatto gli occhi e si sforzò di ignorare l'acuto dolore che iniziò a percorrergli lo stomaco.
Aveva saltato le attività pomeridiane, ma non era la prima volta che faceva una cosa del genere: talvolta se ne restava chiuso in camera per semplice mancanza di voglia, mentre altre volte erano semplicemente le energie ad abbandonarlo completamente.
Fortunatamente sarebbe riuscito ad andare all'appuntamento settimanale con il suo psicologo; la clinica ne possedeva una quindicina circa ed ogni paziente aveva diritto ad un incontro di un'ora alla settimana con uno di loro.
Quando era entrato in quel postaccio gli era capitato il dottor Lauer: era rimasto in silenzio per ben cinque sedute di fila e alla fine aveva fatto impazzire del tutto il povero dottore, costringendo così il preside a cambiargli psicologo.
Il dottor Astron era un uomo di circa quarant'anni e si era laureato con il massimo dei voti in un'accademia americana; oltre ad essere un uomo estremamente disponibile, era l'unica persona che veniva considerata normale da Roxas.
Prima di lasciare la stanza si avviò verso il comodino, aprendo il libro nel punto in cui aveva abbandonato la lettura qualche ora prima; sospirò appena e si tuffò nell'ultima riga della poesia: 

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''Uccidere l'infanzia, l'innocenza
in un attimo''

 

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Qualche volta anche svegliarsi la mattina era diventato difficile per lui.
Perfino respirare era diventato complicato e pesante. Anzi, soprattutto respirare.
Si avviò verso la soglia della porta, ignaro di ciò che avrebbe trovato al suo ritorno.
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*Note di Ev'*
No, allora. Prima di tutto ringrazio immensamente questa storia perché è grazie ad essa che ho scoperto i Muse. <3 E ringrazio la loro canzone ''Undisclosed Desires'' che ho ascoltato per tipo cinquanta volte durante la scrittura, senza stancarmi mai.
Detto ciò, salve a tutti.
Avevo in mente di scrivere una storia del genere da parecchi anni, e non sto scherzando. Insomma, finalmente il momento è giunto, quindi, eccomi qua.
Una storia drammatica, un Roxas insieme al suo migliore amico finito in una clinica di recupero per motivi ancora sconosciuti.
Per il nostro caro protagonista l'unico filo che lo conduce alla sua 'vecchia vita' è appunto il libro di Jim Morrison che legge ogni giorno; tutto il resto è grigiore per lui, una monotonia continua e perenne.
Che dire... In questi ultimi giorni, non so perché, ho smesso per un po' di continuare le storie. Mi sono dedicata invece tantissimo alla scrittura di frasi e /o aforismi. Una botta di energia continua. Scrivevo, frammenti di pensieri, flash brevi, mah... Però ieri sera ho deciso di dedicarmi a questa storia. Non so ogni quanto l'aggiornerò, ma credo che sarò più veloce de 'La Terra Di Mezzo.'
Boh, niente, ci tengo tanto, davvero tanto, a questa storia dato che spero di trasformarla in un futuro libro o qualcosa del genere, quindi mi auguro che voi recensiate, soprattutto se la metterete tra le seguite.
Siamo in un sito dove ci si deve confrontare -bla, bla, bla-, quindi non vi costa nulla lasciare uno straccio di commento decente.
Alla prossima,

E.P.R.

 

   
 
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