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Autore: 9Pepe4    20/07/2012    3 recensioni
Katniss/Peeta implicito; accenni Katniss/Gale
Missing moment ambientato tra il secondo e il terzo volume.
Mi metto a sedere di scatto e le lenzuola stropicciate mi si aggrovigliano alle gambe; so che sono nell’ospedale del Distretto 13, ma continuo a urlare a perdifiato. Perché so con altrettanta sicurezza che Peeta non è qui, e il pensiero del suo sangue mi causa una crisi isterica.
[...] Contro tutte le mie aspettative, è Gale ad arrivare. Ancora sconvolta dalle immagini nitide del mio incubo, faccio fatica ad accorgermi che è lui, e per un po’ lotto con le sue mani, divincolandomi e continuando a gridare.
«Shhht» bisbiglia lui, ma con forza. «Katniss, zitta. Sono io, Gale».
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gale Hawthorne, Katniss Everdeen
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ab imis
{Dal più profondo}


Sembra che questo ospedale sia tutto uguale, centimetro per centimetro.

Considerato però che ogni macchia di colore mi balla davanti agli occhi, la monotonia non mi disturba affatto. Piuttosto, anzi, è un bel sollievo.
Aiuta la mia testa a riposare.
Ciò che la monotonia non può placare, però, è il nome che mi martella ripetutamente nelle tempie, ossessionandomi sia nelle ore di luce che in quelle di buio.
Peeta. Peeta. Peeta.
Il ragazzo che era disposto a barattare la propria vita per la mia, il ragazzo per il quale sarei morta, ora è nelle mani di Capitol City, senza che io possa fare nulla per aiutarlo.
A fatica, cerco di staccarmi da quei pensieri, mettendo a fuoco la scodella che ho davanti.
Mi hanno tolto le flebo da poco tempo – dalla visita di Prim, che li ha persuasi che non avrei più cercato di lasciarmi morire di fame – e ora cercano di nutrirmi con cibo solido.
Cioè, solido si fa per dire, visto che quello che mi riempie il piatto sembra più una brodaglia liquida o, al limite, viscosa.
Emetto un lieve sospiro, rimestando la zuppa col mio cucchiaio.
Ho smesso di pensare di lasciarmi morire, dato che ormai ho capito che un mio eventuale decesso non salverebbe affatto Peeta da quello che sta passando – qualsiasi cosa sia.
Anche per amore della mia sorellina, cerco di convincermi a buttar giù almeno un boccone, ma mi basta guardare la zuppa per sentire il mio stomaco contorcersi.
Improvvisamente, la porta si apre.
Alzo la testa, e il movimento basta per farmi vedere degli sprazzi di luce davanti agli occhi.
Poi la mia vista si snebbia e riconosco Gale, il mio migliore amico di sempre.
Sono felice di vederlo, ma non riesco proprio a sorridergli. Non ne ho la minima voglia.
Così, per mascherare la cosa – non voglio ferirlo – mi ficco una cucchiaiata in bocca.
«Ciao» dice Gale, avvicinandosi al mio letto.
Il mio viso si contrae in una smorfia. La consistenza della zuppa, per quanto ciò possa sembrare incredibile, è ancora più ributtante del suo aspetto.
Sono tentata di risputare tutto nel piatto ma, con un grande sforzo di volontà, riesco a mandare giù quello che ho in bocca.
«Ciao» dico poi, guardando Gale.
Lui si siede sul bordo del mio letto. «Come va, oggi?» mi domanda, un po’ preoccupato.
Alle sue parole, una fitta di dolore mi attraversa il cranio.
Come vuole che vada? Peeta è ancora chissà dove. Probabilmente, proprio in questo momento, è circondato da una manciata di aguzzini intenti a torturarlo.
Serro le labbra, cercando di non mettermi a urlare.
«Come sempre» rispondo, laconica.
Gale mi getta un’occhiata dispiaciuta. «Coraggio, Catnip» mi dice, allungando una mano per spostarmi una ciocca di capelli dagli occhi. «Puoi affrontare tutto questo».
Deglutisco, perché so che non sta parlando della mia convalescenza. Non solo, almeno. Sa quanto sia dura per me non avere notizie di Peeta.
Vorrei dirgli qualcosa, ma le tempie iniziano a pulsarmi per il dolore.
Mi sembra di avere la fronte in fiamme, la testa sul punto di esplodere, e improvvisamente non riesco più a capire cosa sto facendo qui, né dove sia il qui. Non mi viene facile neanche capire chi sono io, a dirla tutta.
La stanza inizia a girare e io emetto un gemito.
Colgo il movimento del ragazzo che salta giù dal mio letto, ma subito serro le palpebre perché sembra che la luce aumenti il dolore.
Ma neanche stare ad occhi chiusi serve a qualcosa. Non so più cosa sia reale o cosa non lo sia. Dal mio punto di vista, potrebbe trattarsi tutto di un sogno, compresa la stretta che si stringe sul mio polso.
«Katniss!» esclama una voce, allarmata, ma effettivamente potrei essermela immaginata.
In mezzo alla baraonda di suoni e colori che mi circonda, c’è solo una cosa che so per certa essere vera.
Ed è lui, il proprietario del nome che continua a pulsarmi nelle tempie.
Peeta.
Sì, sono sicura al cento per cento che Peeta sia reale, solo che lo è molto lontano da qui.
Mi aggrappo disperatamente a quello che ricordo di lui, e dopo un po’, partendo da lì, riesco a ricostruire qualcosa anche su di me. Pensando alla sua voce, al fatto che abbiamo la stessa età, al motivo per il quale abbiamo iniziato a parlarci e a conoscerci, fino ad arrivare al perché sono finita in quella dannata arena.
Sono Katniss Everdeen. Ho diciassette anni. Ho partecipato agli Hunger Games. Ho una sorella di nome Prim.
Poco a poco, il dolore sembra cessare, o almeno affievolirsi.
Apro gli occhi, e davanti a me c’è Gale. Ha chiamato mia madre e un medico del Distretto 13. I due stanno parlando di qualcosa – probabilmente di me – e mia madre mi è abbastanza vicina da potermi accarezzare i capelli.
Mi accorgo che Gale ha tra le mani la mia scodella. Probabilmente stavo per farla cadere a terra e lui l’ha salvata.
Notando che lo sto guardando, il mio amico assume un’espressione quasi contrita, stringendosi nelle spalle.
In effetti, ha fatto bene a impedire che la scodella si sfracellasse al suolo. Non oso immaginare come gli abitanti del Distretto 13, così maniaci del risparmio, avrebbero preso tanto buon cibo –immagino che ognuno abbia i suoi gusti – spiattellato sul pavimento.
A dispetto di tutto, devo arricciare le labbra per soffocare un risolino. Gale se ne accorge, e mi dà un’occhiata complice.
Traggo un enorme respiro.
Sono immensamente grata che lui sia qui con me.

Nonostante il breve momento in cui la tensione si è allentata, però, la notte non è migliore delle precedenti.
So che ho un incubo: un incubo fatto da immagini frammentarie che si succedono ad una velocità nauseante. Non capisco cosa stia succedendo, capisco solo che è qualcosa di orrendo, e un momento dopo colgo un lampo luminoso degli occhi azzurri di Peeta, che si aprono su un viso ricoperto di sangue e lividi.
È il frammento di un secondo, ma mi basta.
L’istante dopo, sto urlando a pieni polmoni.
Mi metto a sedere di scatto e le lenzuola stropicciate mi si aggrovigliano alle gambe; so che sono nell’ospedale del Distretto 13, ma continuo a urlare a perdifiato. Perché so con altrettanta sicurezza che Peeta non è qui, e il pensiero del suo sangue mi causa una crisi isterica.
Mentre grido con tutte le mie forze, cercando di buttar fuori almeno una parte dell’orrore che provo, una parte di me si aspetta che arrivi qualche infermiere.
Una puntura nel braccio e via, cadrò addormentata in men che non si dica.
Invece, contro tutte le mie aspettative, è Gale ad arrivare. Ancora sconvolta dalle immagini nitide del mio incubo, faccio fatica ad accorgermi che è lui, e per un po’ lotto con le sue mani, divincolandomi e continuando a gridare.
«Shhht» bisbiglia lui, ma con forza. «Katniss, zitta. Sono io, Gale».
Ci vuole un po’ perché le sue parole mi penetrino nel cervello, ma alla fine ammutolisco.
Ed è un bene, considerato che non ho più fiato e la gola mi fa male.
Però faccio fatica a respirare. L’aria entra troppo velocemente nei miei polmoni, e viene strizzata fuori subito dopo. Ho un attacco di panico?
Con mano ferma, Gale mi aiuta a ridistendermi sul letto. La respirazione va un po’ meglio, ma ora sento il cuore martellarmi tra le costole. Peeta, Peeta!
Il mio amico mi rimbocca le coperte, come se fossi una bambina piccola, poi mi accarezza il volto per tranquillizzarmi. Mi viene da pensare che i suoi movimenti lenti sono gli stessi che chiunque userebbe per calmare un animale ferito.
«Dormi, se ce la fai» mi sussurra. «Io starò vicino a te».
Non mi si sdraia accanto, probabilmente perché il mio letto è piuttosto stretto, o forse non vuole rischiare di spaventarmi, però si allunga su di me quel tanto che basta per abbracciarmi.
Chiudo gli occhi, obbediente, ma poi devo riaprirli subito, perché il mio incubo è in agguato dietro le palpebre. Mi sembra quasi di sentire l’odore del sangue rappreso sul viso di Peeta.
Faccio un altro paio di tentativi. Ogni volta che sono sul punto di appisolarmi, però, immagini sempre più realistiche e cruente mi invadono la mente, ridestandomi con un sussulto.
Cerco di concentrarmi sul calore di Gale, sul ritmo del suo respiro, ma mi accorgo che non funziona.
Il suo è un abbraccio piacevole, però non mi tranquillizza. Mi chiedo perché. Dopotutto, prima di essere rispediti nell’arena, Peeta ha spesso dormito con me, e la sua stretta funzionava contro i brutti sogni.
Ci rimugino su attentamente, più che altro per tentare di distrarmi dalle mie paure sempre più folli.
Forse, mi dico dopo un po’, tutto risale alla nostra sfida degli Hunger Games.
A quando io e Peeta eravamo in quella grotta, e dormivamo nello stesso sacco a pelo per scaldarci a vicenda. È successo qualcosa, lì dentro, e non soltanto il fatto che abbiamo rischiato di morire entrambi, non soltanto la recita dell’idillio. In quel momento, Peeta era la sola parvenza di un rifugio, e forse da allora ho iniziato ad associare le sue braccia alla sicurezza.
Le sue braccia. Appunto.
Non quelle di Gale.
Arrivata alla mia conclusione, che non so per quale motivo mi lascia un certo amaro in bocca, rinuncio completamente alla speranza di riaddormentarmi.
Purtroppo, però, non posso evitare di pensare, e il mio cervello lavora freneticamente, tormentato dalle spaventose immagini di Peeta picchiato, torturato, mezzo annegato e fustigato.
Cerco di dirmi che sono mie fantasie, che non posso sapere quello che gli stanno facendo davvero, ma in qualche modo questo peggiora la situazione.
Perché se gli stanno facendo qualcosa di diverso da quello che immagino, gli stanno facendo qualcosa di peggio.
Alla fine, proprio quando credo che non ce la farò più, arriva il mattino.
Gale si solleva con un respiro un po’ brusco. Trovo incredibile che abbia passato tutta la notte a tenermi abbracciata: a giudicare da come si sgranchisce le braccia e da come tende la schiena, dev’essere stata una posizione scomodissima.
«Sei riuscita a dormire?» mi domanda, schiarendosi la voce.
Io non voglio mentirgli, ma non voglio nemmeno farlo star male, quindi faccio uno strano cenno, a metà tra l’assenso e il diniego. Non ci metto nemmeno una gran convinzione.
Gale mi guarda e capisce. «Se vuoi vado a chiamarti un infermiere» si offre. «Possono darti qualcosa per farti dormire».
Non so cosa rispondere. I farmaci basteranno a non farmi avere incubi?
Gale si china su di me. «Le cose andranno meglio, Katniss. Vedrai» mi dice, in tono consolatorio.
La sua voce è confortante. Se fossi un animale, di certo mi fiderei di lui.
Purtroppo, però, sono un essere umano, e se una parte di me tenta di bisbigliarmi che peggio di così non può andare, un’altra ribatte che al peggio non c’è mai fine.
Ed è a quest’ultima che credo.
«Ora devo andare» dice Gale, con un sospiro. «Ma torno presto, promesso».
Faccio segno di sì con la testa e sto a guardarlo mentre si allontana.
Poi mi giro su un fianco e solo in quel momento mi accorgo che sto tremando. Afferro con forza due lembi di lenzuolo e me li stringo addosso. La mia presa è così ferrea che le mie nocche sbiancano. Serro gli occhi e cerco di dimenticare dove sono, di dirmi che quello che ho attorno non sono due falde di coperte, no. Sono le braccia di Peeta.
Ma, come Peeta mi ha detto un giorno nell’arena, non sono affatto brava a mentire.
Nemmeno a me stessa.
  
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