Ciao adorato fandom!
Dopo varie vicissitudini
con l’ultimo capitolo dell’altra long in corso (lo
sto riscrivendo, sarà prossimamente
sui vostri schermi) posto una cosina scritta prima di partire, che
dividerò in
più capitoli per questione di lunghezza, ma che è
già conclusa. Contavo di
pubblicarla prima (è passato TROPPO tempo
dall’ultima storia!) ma sono stata
impossibilitata, quindi ho optato per oggi, con calma!
E’ sicuramente un’AU e capirete certamente
perchè, e per quanto per gran parte
della storia i nostri beniamini siano bambini/ragazzi, non credo si
possa
definire una Teen, dato che alla fine il fulcro della faccenda li
coinvolge da
‘adulti’.
Comunque, bando alle
ciance!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!
*
John sapeva benissimo che
era sbagliato, che la mamma si sarebbe preoccupata, che non avrebbe
dovuto
reagire a quel modo.
Era però altrettanto certo, davvero sicuro
sicuro sicuro che, se non fosse andato via in quel momento,
sarebbe
scoppiato a piangere davanti a tutti come un poppante, lui che aveva
ormai ben dodici anni, e non
avrebbe avuto più il
coraggio di uscire da camera sua almeno per i successivi dieci. Aveva dovuto farlo, era
stato necessario.
Il parco era buio ormai,
più buio delle altre volte in cui vi aveva giocato
accompagnato dai suoi genitori
a sera tarda, e quando non udì più rumore di
passi o le voci dei bambini e dei
passanti in lontananza, cominciò seriamente a temere di
essere rimasto nascosto
tanto a lungo da non aver sentito l’avviso di chiusura dei
cancelli.
Quatto quatto, uscì dal
suo nascondiglio di cespugli e foglie secche e si guardò
intorno, allarmato,
cercando di scorgere una luce, un rumore di passi, una qualche voce che
lo
rassicurasse di non essere rimasto solo in quello spazio immenso.
L’unico
rumore che attirò la sua attenzione però, fu solo
l’inquietante cigolio di un’altalena
spinta dal vento notturno.
John mugolò, spaventato,
con la mente in frenetica attività, alla ricerca di un modo
per uscire da lì al
più presto possibile. Strinse gli occhi e i pugni, pregando
tra sé e sé e promettendo,
giurando, che non avrebbe mai
più
fatto una cosa del genere, che avrebbe accettato le decisioni dei suoi
genitori
e tollerato il comportamento di Harry senza fiatare, se solo fosse
riuscito a
uscire illeso da quel brutto guaio.
Stava testando la
resistenza della solida, solidissima
cancellata di ferro, quando qualcosa lo fece bruscamente voltare,
spaventato.
“E’ fiato sprecato,
credimi” una voce tranquilla lo fece sobbalzare.
“Non cederà mai, nemmeno se ti
ci appendi con tutte le tue forze.”
“Chi sei?” domandò John
sospettoso, il cuore che batteva all’impazzata al pensiero
delle mille
raccomandazioni di sua madre sul non parlare con gli sconosciuti. E in
quel
momento era solo, in un parco deserto, a parlare con qualcuno che non
aveva mai
visto in vita sua.
Quando però il proprietario di quella voce si fece avanti,
rischiarato dalla
pallida luce di un lontano lampione, John tirò un sospiro di
agognato sollievo.
Sua madre non gli aveva mai detto di non parlare con sconosciuti bambini, e quello lì davanti
non poteva
avere più di nove anni, uno scricciolo alto e allampanato
per la sua età, con
una zazzera di riccioli scuri che gli ricadevano buffamente sugli
occhi. E
qualcosa, in quegli occhi, troppo lontani da John perché lui
potesse cogliervi
quella profonda sfumatura dorata, tranquillizzava John enormemente.
“Posso dirti quello che non sono, piuttosto. Non sono un
ragazzino che cerca di
sradicare l’inferriata di un parco giochi perché
per la sua sbadataggine ci è
rimasto chiuso dentro.” disse sicuro, con lingua fin troppo
sciolta per un
mocciosetto della sua età.
John era senza parole,
preso completamente in contropiede da quella risposta. Decise di
difendersi
come meglio poteva, cominciava leggermente a sentirsi in apprensione
nei
confronti del nuovo arrivato, anche se era solo un piccoletto arrogante.
“Anche tu sei qui, però!”
sbottò John, pensando di aver centrato nel segno.
“E
non mi sembra che ti stia dando molto da fare per trovare una via
d’uscita.”
L’altro sbuffò,
scostandosi una ciocca di capelli dagli occhi con fare annoiato.
“Ti sfugge un piccolo dettaglio, piccoletto. Io sono
esattamente dove
desideravo essere, e non ho alcun desiderio di trovarmi in altro posto
che
questo”.
“Piccoletto? Piccoletto a me?”
disse John sbigottito, abbandonando l’idea del cancello e
decidendo di scoprire
qualcosa sul suo misterioso e strambo interlocutore. “E cosa
cavolo vuol dire
che sei dove vorresti essere?”
L’altro sbarrò gli occhi, come se la risposta
dovesse essere ovvia anche al più
idiota degli idioti.
“Che sono rimasto volontariamente chiuso qui dentro, al
contrario di te. E se
mi permetti un commento, sembri grandicello per questo genere di
ripicche a
mamma e papà”.
La risposta che John stava
pensando di sbattere in faccia al piccolo insolente saputello,
morì sulle sue
labbra alla realizzazione di quello che aveva appena detto. John
boccheggiò
come un pesce fuor d’acqua prima di articolare una frase di
senso compiuto.
“Come…come cavolo fai a
sapere…?”
L’altro ridacchiò,
sarcastico.
“E’ ovvio.”
“Non è ovvio per me.”
“Questo è chiaro.”
Il ragazzino andò a
sedersi su una delle due altalene arancioni poco lontano, su quella che
fino a
poco prima cigolava cupamente e che era la preferita di John. Con un
cenno
quasi impercettibile della testa, fece segno a John di occupare quella
vicina.
Sospettoso, si avvicinò, e senza interrompere il contatto
visivo con il suo
nuovo strambo amico, si sedette sulla rigida seduta di legno.
“Allora, hai intenzione di dire qualcosa, piccolo genio
pazzoide?”
L’altro rise ancora
seppure con una nota malinconica, nella voce.
“Siete tutti così prevedibili, anche nei
soprannomi.”
“Forse perché sei
una specie di pazzoide.”
“Comunque non vedo il
motivo per cui sottolinearlo in continuazione. Insomma, qualcuno ti
chiama mai adorabile bambino diligente e
studioso?”.
“Perché non ce n’è
bisogno! Perché non è fuori dal
normale!” rispose John, infervorato. Odiava non
riuscire a controbattere adeguatamente a quella lingua lunga.
“E comunque, stai
cambiando argomento. Devi dirmi come fai a saperlo” aggiunse,
deciso a mettere
luce su quella storia.
“Come faccio a sapere che sei scappato?”
domandò retoricamente lo sconosciuto.
“Bruttini quegli strappi sulla tua maglietta. Deve essere
stato faticoso
procurarteli. Cos’hai usato? Le unghie? Cavolo.”
John rimase ancora di più
a bocca aperta.
“Non c’era nessuno con me! Come hai
fatto?”
“Logica. Strappi troppo
regolari perché tu possa esserteli procurati come avevi
intenzione di riferire
ai tuoi, e hai del tessuto rosso intorno alle dita e ancora infilato
sotto le
unghie. E se posso aggiungere un piccolo dettaglio, quelle macchie di
fango sul
tuo pantalone sono visibilmente auto-procurate. Ci vedo le tue dita
impresse
sopra”.
John non aveva più parole.
Sentì un qualcosa di indefinito, frustrazione per
l’essere stato miseramente
scoperto misto all’inquietudine e la paura di trovarsi in
quel luogo con quello
strano compagno, crescergli velocemente nel petto.
“Io non…io…”
“E comunque trovo
abbastanza stupido far preoccupare tua madre rifilandogli una storiella
simile.
Posso dire la mia?” domandò, come se fino a quel
momento fosse rimasto in
religioso silenzio.
“No” disse seccamente
John, amareggiato.
“…Chi avevi intenzione di
mettere in mezzo? Uno sconosciuto che ti ha caricato in macchina
durante una passeggiata?
Un passante che ti ha offerto caramelle? Un po’ infantile.”
John lo guardò sottecchi.
“Tu non sai che vuol dire.
Tu non mi conosci ed io non conosco te”
“Questo non vuol dire che
io non possa capirti.”
“Beh io non capisco te. E
tu non sai cosa vuol dire avere una sorella come Harry”.
Si morse la lingua subito
dopo. Non capiva il motivo per il quale continuasse ad assecondarlo, a
continuare a parlare con lui mettendosi alla mercé delle sue
puntigliose
deduzioni. E adesso aveva anche menzionato Harry davanti a lui, con la
chiara
intenzione di raccontargli tutta la faccenda, come fosse un vecchio
amico a cui
chiedere consiglio.
“Dimmi di questa Harry. E’ per lei che sei
fuggito?”
John gli rivolse un
sorrisetto amaro.
“Sì. E per i miei, come hai detto prima”
cominciò a spiegare John, sempre più
allibito dal suo stesso comportamento. Quel ragazzo però,
nonostante fosse
irritante e supponente, gli ispirava una strana e istintiva fiducia.
“Cosa ti ha fatto lei?” chiese l’altro,
con voce quasi comprensiva.
“Lei beve” disse, e si sentì trafiggere
da mille invisibili spilli.
“Oh” fu tutto ciò che
disse il ragazzino, dandosi una spinta con le gambe e lasciandosi
dondolare
dolcemente dall’altalena. John lo imitò,
desideroso di una sferzata d’aria
fresca sul suo volto accaldato.
“Io dovevo andare a
Brighton con il mio amico Robbie, quest’estate. E’
una vacanza che
programmavamo da secoli e per cui ho impiegato mesi a convincere i
miei. Poi
ieri Harry torna completamente fuori di testa a casa e tutto salta per
sempre.
Tutti i miei sforzi completamente andati in malora”.
Il ragazzo sull’altra
altalena annuì, pensoso, come se stesse elaborando i dati
appena ottenuti.
“Soldi?”
“Soldi” annuì John, senza nemmeno
più sorprendersi di quanto veloce e
intelligente fosse quella persona. “Devono mandarla via per
un po’, da una
vecchia zia nel Devon a farle cambiare aria. E ovviamente la signora non vuole accollarsi le spese di
un’adolescente piena di problemi. Hanno detto di essere
dispiaciuti,
mortificati e tutto, ma non me la danno a bere. Ecco tutto.
Contento?”.
Il ragazzino non parlò,
nonostante John avesse concluso il racconto e cominciasse a sentirsi a
disagio
e decisamente stupido. Perché gliel’aveva detto?
Perché non aveva girato i
tacchi per continuare a cercare una via d’uscita?
“Beh, continua a sembrarmi
una reazione abbastanza infantile. Se fossi dovuto scappare ogni volta
che i
miei hanno preferito mio fratello a me, avrei passato metà
della mia esistenza
fuori di casa”.
John non sapeva
esattamente cosa rispondere a quell’affermazione.
Così si mise sulla difensiva.
“Io aspettavo quella vacanza da mesi!” disse a sua
discolpa. “Harry non può
sempre rovinare i miei piani!”.
“Pensi che i tuoi lo
abbiano fatto apposta? Pensi che a loro faccia piacere che la loro
figlia adolescente
beva fino a star male?”.
John si ammutolì. Arrossì
furiosamente alla logica del discorso e ringraziò che non ci
fosse abbastanza
illuminazione perché il ragazzino potesse accorgersene.
“Io non… io non credo, no”
affermò, con voce instabile. “Anche tu
però hai
detto che i tuoi fanno preferenze, no? Cos’ha tuo fratello in
più di te?”.
Il ragazzino si bloccò,
puntellando i piedi sul terreno.
“E’ semplicemente come tutti gli altri, o almeno
così fa sembrare. E questo i
miei lo trovano più rassicurante di…qualcuno come
me”.
John sorrise, sinceramente
divertito.
“E’ perché sei una specie di cervellone?
Perché sembri e parli come qualcuno
più grande della tua età? I miei pagherebbero per
un figlio come te”.
Fu il turno dell’altro per
ridacchiare, ma non c’era alcuna allegria in lui.
“Questo è quello che si
dice” esclamò, la voce per la prima volta afflitta
da una nota triste. “Alla
fine però, non è mai vero”.
John non sapeva cosa
rispondere così si limitò a darsi
un’altra spinta sull’altalena. Percepiva qualcosa
in quel ragazzo, qualcosa che non riusciva a spiegare; era come se
dietro
quella corazza di sicurezza si celasse un animo tormentato, una
profonda
tristezza. Per qualche secondo, l’unico suono udibile nel
parco fu il lamentoso
cigolio delle molle sotto il suo peso.
“Mi dispiace, comunque” disse poi, per non sembrare
poco solidale nei suoi
confronti. L’altro si limitò ad accennargli un
piccolo sorriso, che scomparve
nel giro di un secondo.
“Non fa niente”.
Silenzio.
“Perché sei qui, comunque?
Perché sei rimasto qui dentro di tua spontanea
volontà?” si ricordò poi di
chiedergli, sinceramente curioso di scoprirlo. L’altro
sembrò illuminarsi a
quella domanda, come se non avesse aspettato altro che quella, fino a
quel
momento.
“E’ un posto tranquillo. Mi aiuta a pensare. A
liberare la mente dalle cose
inutili” spiegò, come se fosse perfettamente
normale. “Ci vengo spesso.”
“E i tuoi?”
“I miei cosa?”
“I tuoi ti lasciano
andare? Oppure scappi anche tu?” lo provocò, con
sguardo complice. Il ragazzino
scosse la testa.
“Oh no. Dico loro che dormo da un amico. E questo spiega
largamente il loro
vivo interesse per me”.
John si sforzò di capire,
senza riuscirci.
“Che vuoi dire?” chiese, sperando di non essere
troppo invadente. Guardandosi
intorno però, decise che forse la situazione poteva
giustificare un minimo di
curiosità in più da parte sua. Quanto spesso
avrebbe incontrato un altro quasi
- coetaneo fuggiasco con cui parlare?
“Che io non ho amici”
affermò, guardando davanti a sé. “Non
ne ho mai avuti.”
“Oh” fu tutto ciò che
riuscì a dire John. Sapeva di dover cercare di essere
comprensivo, amichevole,
solidale con lui, ma non trovava nulla di abbastanza convincente da
poter dire.
Avrebbe dovuto consolarlo, confortarlo,
dirgli che c’era tempo per farsi amici a volontà
ma qualcosa nello sguardo
sicuro e riflessivo del suo nuovo compare sembrava dirgli che una pacca
sulla
spalla era l’ultima delle cose che avrebbe desiderato. Quel
ragazzino sembrava
perfettamente felice così com’era.
“Beh mi… mi dispiace”
disse soltanto, sperando che fosse la cosa giusta da dire.
“A me no. Una distrazione in meno.”
“Gli amici non sono una
distrazione” disse John, ripensando a Robbie e alle serate
passate con lui.
“Sono una bella cosa, invece.”
“Perdita di tempo
prezioso. Un’ora spesa a giocare a, non so, Cluedo
potrebbe essere impiegata per qualcosa di più
utile” affermò.
John decise di non insistere. Aveva l’impressione che non
sarebbe servito a
nulla.
“Vedila come vuoi” disse, diplomatico.
Un lungo silenzio seguì
anche quel discorso, prima che John si accorgesse che tra una parola e
l’altra,
il cielo, da nero pece puntellato di stelle che era, aveva cominciato a
schiarire nel roseo pallore dell’alba. L’alba
più bella che John avesse mai
visto in vita sua.
“Bella eh?” disse il
piccolo straniero, con il naso puntato all’insù.
“E non devi nemmeno pagare il
biglietto.”
“O fare file chilometriche
ai botteghini del National Theatre” scherzò John,
provocando la prima vera
risata allegra nel suo compagno. “E poi vuol dire che fra
poco gli autobus
riprenderanno a circolare ed io potrò tornarmene a
casa”.
John sollevò sorpreso un
sopracciglio quando vide il viso particolare del ragazzo, adesso molto
più
nitido nel pallido chiarore, rabbuiarsi improvvisamente.
Abbassò lo sguardo,
senza poter evitare di sentirsi un po’ in colpa.
“Allora è meglio che ti
aiuti a scavalcare, no? Non corri rischio di ruzzolare giù,
adesso che è
giorno” propose il ragazzino, cercando di nascondere al
meglio l’ombra
sconsolata nei suoi occhi azzurri. John lo studiò per un
po’, domandandosi se
fosse il caso di chiedergli come stava o se c’era qualcosa
che non andava, ma
gli sembrava che l’altro non fosse molto propenso a esternare
il suo stato
d’animo.
“Grazie mille, davvero” si limitò a
dire, con entusiasmo.
Arrivati davanti al
cancello, il ragazzino salì sul muretto di marmo e porse una
mano a John, che
lo seguì quasi immediatamente. Incrociò le dita
delle mani e John vi poggiò il
piede e, aiutandosi con entrambe le mani, si diede la spinta necessaria
per
issarsi sul cancello e atterrare agilmente dal lato opposto.
John si sistemò gli abiti
e i capelli, pettinandoli con le dita della mano destra. Poi rivolse un
sorriso
grato allo straniero.
“Ehi, grazie ancora,
davvero. Anche per… per la compagnia di stanotte”
disse John al ragazzino,
infilando il viso tra due sbarre tinte di verde. L’altro
annuì, arrossendo in
viso per un motivo a John sconosciuto, e infilandosi le mani in tasca.
“Vai dai tuoi, saranno…in pensiero”
disse, e si toccò le labbra, come se non
credesse che parole del genere fossero uscite dalla sua bocca.
“Fai il bravo
bambino e torna immediatamente a casa” scherzò,
con gli occhi ancora più
tristi, nonostante cercasse ancora di mascherarli.
“Si” disse John, con il
cuore che batteva all’impazzata. “Lo
farò.”
“Alla prossima fuga” si
congedò il ragazzino, arruffandosi i capelli con una mano e
facendo per
voltarsi. John rise e girò anche lui i tacchi, accennando un
saluto con il
capo. Dopo due passi però, gli venne in mente una cosa
importantissima.
“Ehi, non mi hai detto il tuo…” fece per
dire ma si bloccò immediatamente, con
le labbra socchiuse. Dalla parte opposta del cancello, dove poco prima
il
ragazzino gli stava rivolgendo un saluto con la mano, non
c’era più nessuno. Il
vento spinse di nuovo l’altalena, e John se ne
andò, con uno strano peso sul
cuore.
§
Nonostante il passare del
tempo, quel ragazzino rimase sempre nei pensieri di John.
Pensò spesso a lui nel
corso degli anni, alla strana conversazione avuta con lui quella notte,
ai suoi
occhi sicuri ma tristi, a quella sicurezza ostentata, a quella lingua
capace di
distruggere le tue convinzioni più solide. Non lo aveva
più rivisto da quel
giorno di tanti anni prima, nonostante fosse tornato più
volte in quel parco
giochi nella speranza di rivederlo, di sentire nuovamente la sua voce,
di
incrociare nuovamente il suo viso. Non lo aveva incontrato per strada,
o al
cinema, al teatro, nella folla natalizia nelle piazze di Londra. Era
semplicemente sparito, svanito come una voluta di fumo in un soffio di
vento.
John però non aveva dimenticato nessun
particolare di lui.
Non era mai stato particolarmente fisionomista, o meglio ricordava
certamente i
tratti di una persona in grandi linee, ma il viso di quel ragazzino gli
era
rimasto impresso in ogni suo particolare. Aveva ben stampata in testa
la forma
spigolosa e particolare del suo viso, i capelli scuri e mossi, gli
zigomi
taglienti nel viso leggermente paffuto e la figura alta e sottile,
quasi
signorile nonostante la giovane età, e soprattutto i suoi occhi, i più particolari che
avesse mai visto.
E di una cosa era più che sicuro: lo avrebbe riconosciuto
tra mille anche dopo
tutti quegli anni.
Harry. Ancora Harry. Per
l’ennesima volta Harry.
E quella volta, John ne
era sicuro, le paroline dolci di
scuse che sua sorella gli avrebbe certamente propinato al suo ritorno,
non
sarebbero servite a nulla.
John continuò la sua corsa
frenetica fin quando nemmeno i suoi sforzi più intensi
riuscirono a fargli
ignorare il suo bisogno d’ossigeno, e fu costretto a
fermarsi, riprendendo
fiato in avide boccate, chino con le mani sulle ginocchia.
Era arrivato da qualche
parte, sul fiume, in un vecchio molo abbandonato che non conosceva. Un
vecchio
palazzo in rovina, forse un'antica fabbrica, troneggiava cupamente
sulla riva
con le sue finestre rotte e scure che lo facevano sembrare
un’enorme faccia
piena di orbite vuote.
John si lasciò cadere
sulla rena asciutta, chiudendo gli occhi e ascoltando per qualche
minuto il
solo rumore dello sciabordio stanco della corrente fluviale.
“Rilassante, vero?” una
voce lo distolse dal suo tanto agognato relax. John aprì gli
occhi
svogliatamente, con zero voglia di intavolare una conversazione con un
passante
curioso, cercando mentalmente una scusa per sottrarsi.
Quando però rivolse lo
sguardo al disturbatore, represse per un pelo un gemito sbalordito.
Non era possibile. No davvero.
“Sei tu” disse, mettendosi
in ginocchio, con i sassolini che pungevano le ginocchia come spilli.
“Sei…davvero tu” ripeté, come
se non fosse del tutto sicuro che quella fosse la
realtà. Magari era solo uno strano sogno o una bislacca
proiezione della sua
mente.
Quegli occhi, però, li
avrebbe riconosciuti tra mille, anche se adesso avevano perso
quell’aria malinconica
di tanto tempo prima. Era diventato ancora più alto, i
capelli erano ancora un
cespuglio ordinato di ciocche scure e il viso aveva perso ogni parvenza
della
pinguedine infantile, dandogli un aspetto etereo, come fosse una
creatura di un
altro mondo. Era davvero il ragazzo più bello,
non trovava altro termine, che John avesse mai visto in vita sua.
“Capita spesso che io sia
davvero io” lo prese in
giro l’altro con un sorriso. “Come credo che capiti
spesso anche a te di essere davvero te.”
John ignorò il gioco di
parole, troppo preso dall’eccitazione di
quell’incontro. Quante volte
inconsciamente aveva quasi sperato di ricontrarlo un giorno, senza
spiegarsi
minimamente il perché?
“Non ti ho più visto al
parco. Non ti ho più visto in nessun altro posto”
gli disse, desideroso di
conoscerne il motivo. L’altro abbassò lo sguardo,
stringendosi nelle spalle.
“Ci siamo trasferiti. Il parco non era decisamente nei
paraggi ed io… io non
amo molto frequentare posti troppo affollati”.
John rise, sperando solo
un secondo dopo di non averlo offeso.
“Scusa, è che…io…lascia
perdere. E’ ok, va bene”.
L’altro si accigliò, come
se non capisse esattamente il motivo di quelle scuse.
“Cosa è ok?”
“Questo…il fatto che tu non sia…ecco,
così socievole. Lo avevo capito. Insomma,
va bene che non ci siamo incontrati prima, capito?
E’…è tutto ok.”
“Se lo dici tu, è ok”
disse lo straniero con un’espressione sul viso che sembrava
gridare qualcosa
come ‘meglio assecondare questo
matto’.
John si morse la lingua, sentendosi un perfetto idiota.
“Lascia stare” liquidò poi, cercando di
lasciarsi alle spalle
quell’imbarazzante benvenuto. “Io
sono…sono contento di rivederti, comunque.”
Il moro annuì, stringendosi nella sua camicia scura.
“Trovo anch’io che la coincidenza
sia…piacevole” disse, e John cercò
d’interpretarlo come un segnale positivo.
“Come mai sei qui?” gli
domandò, prima che un altro particolare gli tornasse in
mente. “No, aspetta,
voglio indovinare. Anche questo posto stimola la tua mente e ti aiuta a
pensare?” buttò li, scherzoso.
Il ragazzo assunse
un’espressione compiaciuta e sorpresa, come se le parole di
John lo avessero
riempito di una sorta di gratificante soddisfazione.
“Vedo che ricordi perfettamente” si
complimentò, con un’altra ombra di sorriso.
“E’ proprio così, comunque.”
“Di certo questo posto non
è affollato” John cercò di rompere
ulteriormente il ghiaccio.
L’altro fece un versetto
d’approvazione.
“Questo è sicuro.”
John tacque, cercando le
parole giuste per esprimere quello che voleva.
“Sai, io ho… ho un bel
ricordo di quella notte. Ricordo tutto, ogni cosa” decise,
alla fine.
L’altro sembrò arrossire,
ma annuì ancora con un movimento rigido del collo, come se
quel gesto gli
costasse uno sforzo immane. John si sentì lievemente a
disagio per un secondo,
temendo di essere il motivo di quel comportamento.
“Anch’io ci ho pensato. A lungo” ammise
però, e John si aprì in un sorriso
incoraggiante. “E tu sei scappato di nuovo”
aggiunse poi l’altro, serio, in un
tono affermativo che sembrava non tollerare repliche.
Il sorriso di John si affievolì quando quella frase gli
riportò alla mente il
motivo della sua presenza lì.
“Strana la vita eh?” disse, abbassando gli occhi
alla sabbia sollevata dal
vento davanti a sé.
“E’ sempre Harry?” chiese
poi lo sconosciuto, provocando in John un sussulto.
“Ti ricordi di Harry?”
“Te l’ho detto che ricordo
tutto.”
John era sbalordito.
“E’…bene” disse, cercando
di venire a patti con quella realtà. Non era stata solo una
sua fissazione
allora. Anche lui aveva avuto un certo impatto su quel ragazzo.
“Comunque sì, è per Harry”
esclamò, afferrando un sasso poco lontano e gettandolo nel
fiume con un plop quasi comico. Lo
sconosciuto si
sedette accanto a lui.
“Cos' è successo
stavolta?” gli domandò, con sguardo attento e
scrutatore, come se davvero gli
interessasse fortemente di John e del suo sfogo. Il ragazzo dai capelli
biondi
lo guardò negli occhi e gli sorrise amaramente, prima di
rispondere.
“Avevo un esame
importantissimo, oggi. Biochimica. E’ una delle materie di
base per Medicina ed
è un esame che ho rimandato il più possibile per
stare con lei” cominciò a
raccontare, con voce instabile. “Nei giorni scorsi non
è stata tanto bene”
disse, come a scusarsi di essere un buon fratello.
“E allora? Com’è andata?”
gli occhi dello sconosciuto si assottigliarono in due mezzelune azzurre.
“E’ andata che ieri Harry
ha bevuto ancora. Con quell’idiota della sua nuova ragazza,
Alice” cominciò a
raccontare, sentendo nuovamente l’astio risalirgli fino in
gola. “I miei non ci
sono e lei è tornata a casa stravolta. Ho passato tutta la
notte a occuparmi di
lei, a sentire i suoi pianti, le sue scuse, a sostenerla mentre
sveniva,
vomitava e… si lamentava su quanto faccia schifo la sua
vita. Mi sono
addormentato verso le sei, e… mi sono risvegliato quando il
mio appello era
passato da almeno due ore” disse, il più veloce
possibile, come se buttando
tutto fuori tutto, la rabbia potesse passare. Via il dente, via il
dolore. Se
solo fosse stato veramente possibile.
“Oh” rispose il ragazzo
dai capelli scuri, donandogli una perfetta riproduzione di se stesso
otto anni
prima. John sorrise, suo malgrado.
“Si cresce, e con noi crescono i problemi” disse
John, come un vecchio saggio
che dispensa consigli ai nipotini. L’altro volse lo sguardo
al fiume,
pensieroso.
“Mi dispiace, davvero” gli disse, e a John parve
sincero nonostante il tono
neutro e senza alcun calore. “Adesso cosa farai?”
John scosse la testa.
“Non lo so. Mi toccherà riprovarci fra qualche
mese e…ricominciare”.
Il ragazzo gli rivolse
un’occhiata confusa, come se non gli fosse chiaro qualcosa.
“Quindi nulla è perduto,
non è così?
John lo guardò,
accigliato.
“No, questo è vero, ma io
contavo di mettermi alla pari, di fare tutto in regola, tutto in
ordine, tutto
secondo…la mia tabella di marcia. E Harry ha sconvolto i
miei piani.”
L’altro ragazzo rise,
senza allegria.
“Non esistono tabelle di marcia.
La
vita non segue una regola, uno schema, un qualcosa di programmato o
già
scritto. La vita ti manovra a suo piacimento e tu, ed io e tutti siamo
solo marionette nelle sue
mani” esclamò, con
voce tagliente, osservando ancora l’acqua che scorreva
veloce. “Quindi faresti
bene a toglierti certe convinzioni dalla testa”.
Continuò a fissare il
fiume ma qualcosa diceva a John che non stesse davvero guardando.
Sembrava
immerso in un mondo tutto suo.
John rifletté su quelle
parole indubbiamente significative, dubitando però che
sarebbe mai riuscito a
ignorare i suoi schemi e i suoi ritmi, per quanto avrebbe cercato di
sforzarsi.
“Forse hai ragione. Anche stavolta” convenne, suo
malgrado. “Ci proverò.”.
Poi un altro ricordo lo
colpì e John parlò, senza poterne fare a meno.
“Problemi con tuo
fratello, già che siamo in
tema? Ti vedo…teso, sull’argomento.”
Il ragazzo rise, ironico,
lanciando anche lui un sasso nel fiume che rimbalzò un paio
di volte prima di
affondare.
“Mio fratello non crea problemi. Lui è
un problema, uno di quelli che ti porti dietro per tutta la
vita” rispose seccamente,
ma John sapeva che non era a causa della sua domanda.
Si scostò un ciuffo
capriccioso dagli occhi e sospirò, cercando qualcosa per
confortarlo almeno un
po’.
“Sono sicuro che in fondo lui…lui ti vuole
bene.”
L’altro accennò una risatina divertita, tornando a
guardare John negli occhi,
visibilmente interessato.
“Beh, allora potrei dire lo stesso di Harry. Sicuramente ti
vuole bene,
sicuramente si odia per averti fatto saltare quell’esame e
per averti
costretto, suo malgrado, a farle da infermiere”
esclamò. “A questo punto
potresti passare avanti e perdonarla, ma sono sicuro che adesso mi
dirai che non è la stessa cosa.”
John sbuffò e portò le
ginocchia al petto, circondandole con le braccia e accoccolandosi
meglio nel
suo giaciglio di sabbia. Il discorso del suo vecchio amico
non faceva una piega, come quello di tanti anni prima, e
proprio come quel giorno al parco giochi John si sentì
sopraffatto dalla verità
di quelle parole, pronunciate da qualcuno che aveva incontrato soltanto
due
volte in tutta la sua vita ma che sembrava conoscerlo come nessun altro.
“Sei insopportabile quando
fai così” sbuffò John, fingendosi
stizzito, ma sorridendo al ragazzo subito
dopo. “Sei bravo a farmi sentire in colpa.”
L’altro piegò le labbra in
un ghigno soddisfatto.
“E’ uno dei miei tanti talenti.”
“Un talento piuttosto
antipatico.”
“E’ pur sempre un
talento.”
John non gli diede
ulteriormente corda ma rimase a guardarlo, anche se cercando di non
sembrare
inopportuno. Quando si accorgeva di fissarlo da troppo tempo, abbassava
la
testa imbarazzato ma poi tornava alla carica, studiando i suoi
lineamenti
particolari, la sua figura tutt’altro che comune. Ovviamente,
il ragazzo se ne
accorse.
“Qualcosa d’interessante?”
domandò, ma certamente conoscendo la risposta.
John avvampò e si strofinò il viso con le mani
cercando di attribuire il
rossore a quello sfregamento, ma senza troppe speranze di successo.
“No, niente è che… mi sembra
così strano averti ritrovato” disse, semplicemente
esternando il suo pensiero. L’altro fece spallucce.
“Non è così strano. Capita ogni giorno,
ma nessuno ci fa caso".
“Io intendevo averti
ritrovato in questa…situazione. Ricordi cosa mi dicesti,
prima di sparire?”.
Il ragazzo dai capelli
scuri chiuse gli occhi, unendo le punte delle dita e sfiorandosi le
labbra con
gli indici.
“Alla prossima fuga.”
“Alla prossima fuga.”
“Evidentemente fuggi così
spesso che è straordinariamente facile incontrarti mentre
scappi da qualcosa.”
John lo fulminò
scherzosamente con lo sguardo.
“Antipatico.”
“E’ solo la realtà dei
fatti.”
“Io avevo bisogno di
cambiare aria.”
“Beh, l’hai cambiata.”
“Vuoi che vada via?”
“Non mettermi in bocca
cose che non ho detto.”
“Beh, è come se me lo
stessi dicendo.”
“Ti sbagli” disse ancora,
e John si accorse di quanto il ragazzo si fosse arcuato verso di lui,
come
pronto a fermarlo nel caso fosse scappato via offeso.
“Comunque dovresti
tornare. Sarà in pena per te, almeno credo.”
John emise un verso
sprezzante, stringendo un pugno di sabbia nel palmo, tenendolo stretto.
“Dubito. Stasera uscirà di nuovo e
tornerà a casa ancora più sbronza, lo
so”.
“Non puoi saperlo.”
“Tu sai sempre tutto.”
“Tu non sei me” rispose
l’altro, con un ragionamento impeccabile che fece ridere John
di gusto.
“Già” sussurrò John, a bassa
voce. “Io sono quello idiota.”
“Lo sono tutti.”
“Tranne te.”
“Tranne me.”
Il silenzio che seguì, fu
interrotto da un incessante bip bip bip
che avvisava John di un SMS in arrivo. Svogliatamente prese in mano il
cellulare e lo sbloccò, immaginando chi fosse il mittente
del messaggio e senza
alcuna voglia di rispondere o anche solo leggere quello che aveva da
dire.
Almeno aveva avuto la decenza di non chiamarlo e fare una scenata
melodrammatica al telefono. Guardò lo schermò e
scosse la testa, seccato.
“E’ lei?” domandò il
ragazzo.
“Sì.”
“Cosa dice?”
John mostrò lo schermo del
telefono al ragazzo, che lesse immediatamente la frase sgrammaticata,
colpa
certamente della fretta concitata con cui era stato scritto, ma
ugualmente
comprensibile.
“Mi dispiace tanto John”
ripeté John
con un sorrisetto beffardo. “Si è sprecata, anche
stavolta.”
Il ragazzo accanto a lui
sollevò un sopracciglio, sorpreso.
“Non ti aspetterai che sia in grado di articolare un poema di scuse dopo la notte che ha
passato?”
John boccheggiò, cercando
qualcosa a cui appigliarsi per non dargliela vinta di nuovo.
“No, ma…”
“Non c’è nessun
‘ma’. Va da lei, adesso.”
“Io non posso. Non sono
ancora pronto a tornare” disse con voce non troppo convinta.
Stava cercando di
fare il duro, di non cedere, di non ammettere che in realtà
era lui a essere in pena per sua
sorella,
dopo il messaggio. Si era ripromesso di non lasciarsi abbindolare
ancora dalle
scuse di Harry, dai suoi mille ‘mi
dispiace’ di ogni volta, ma non poteva farci nulla.
Harry era la sua
debolezza.
“Riesco a leggere i tuoi
pensieri. Sei un libro aperto per me sai?” disse il ragazzo,
guardandolo
intensamente, come se gli stesse davvero leggendo dentro.
“Sulla copertina
posso leggere quanta ansia tu sia provando in questo momento, nella
prima
pagina posso vedere la tua frustrazione nel non riuscire a resistere
nemmeno
un’ora lontano da lei nonostante tu ci abbia provato in tutti
i modi, e nella
seconda pagina, lo sforzo sovrumano che stai compiendo per cercare di
capire
dove tu possa trovare la fermata dell’autobus più
vicina” concluse, tutto di un
fiato, lasciando John a bocca aperta. “Sull’ultima
posso aiutarti. Segui la
stradina in cima a quelle scale lì in fondo, per un
centinaio di metri” indicò
una scalinata di roccia poco lontana.
“Dovresti fare il
detective. O qualcosa del genere” fu tutto quello che John
riuscì a dire, con
una risatina allegra. “Sei spaventoso, senza
offesa.”
Il ragazzo si infilò le
mani in tasca e si sollevò, giocherellando con un ramoscello
secco tra le scarpe.
“E’ un lavoro troppo…noioso”
rispose,
provocatorio.
John fece spallucce, alzandosi anch’egli, senza staccare gli
occhi di dosso al
suo compagno di chiacchierate.
“Dovresti inventartene uno, allora” propose John,
sorridendo.
L’altro lo guardò divertito.
“Potrei farlo, sì.”
John arrossì e lo guardò,
cercando qualcosa di buono da dire e da fare, quando sarebbe stato il
momento
di congedarsi. Voleva chiedergli se avrebbe potuto rivederlo, se
sarebbero
passati altri otto anni prima di incontrarlo ancora. Si
domandò se era il caso
di chiedergli dove abitasse, se gli andasse una passeggiata di tanto in
tanto,
o perlomeno il suo numero di telefono, ma nulla uscì dalla
sua bocca. Era come
bloccato, ammutolito, incapace di formulare anche solo una di quelle
domande.
Si lasciò accompagnare
sulla strada principale, in silenzio, fino alla fermata del bus che il
suo
compagno gli aveva indicato e si fermò sotto la pensilina,
in attesa.
Un bus rosso rombò in
lontananza, annunciando il suo arrivo, e John si piegò in
avanti, felice e
rammaricato allo stesso tempo nel costatare che fosse proprio quello
che a lui
occorreva. Voleva tornare da Harry al più presto, ma allo
stesso tempo non
voleva lasciar andare lui.
“E’ giunto il momento dei
saluti, a quanto pare” esordì il ragazzo, rompendo
il silenzio, mentre il bus
avanzava lentamente lungo la strada.
“A quanto pare” convenne
John e del tutto inaspettatamente, vide il suo braccio muoversi di sua
spontanea volontà, tendendo la mano al ragazzo di fronte a
lui. Questi lo
guardò stupito, come se non si aspettasse un gesto simile,
ma strinse la mano a
John, con presa salda. La sua mano era calda, liscia, per niente
ruvida.
L’autobus arrivò alla
fermata e John salì, cercando di non interrompere il
contatto visivo con il
ragazzo rimasto in strada, cercandolo attraverso il vetro aperto di uno
dei
finestrini.
“Alla prossima fuga, John” il ragazzo
mormorò, ma John riuscì a sentirlo
chiaramente. John sorrise e lo salutò con un gesto della
mano prima di sedersi.
Il suo cuore prese a battere furiosamente quando si accorse che quella
di poco
prima era stata la prima volta che quel ragazzo aveva pronunciato il
suo nome,
anche se lui non gliel’aveva mai detto.
Poi, un ricordo del molo,
una chiara immagine di nemmeno dieci minuti prima, lo colpì
come uno schiaffo
in pieno viso.
“Il messaggio di Harry”
bisbigliò a se stesso, rimuginando.
Quel ragazzo conosceva il
suo nome e John invece ignorava completamente quello di lui. Che
stupido era
stato a non chiederglielo prima? Perché era stato tanto
distratto da ignorare
un particolare tanto importante?
Prima che potesse affacciarsi nuovamente per poterlo chiamare, per
rubare
quella piccola ma fondamentale informazione, l’autobus
partì, facendolo
atterrare nuovamente sulla sedia. Quando il mezzo prese
velocità e John poté
nuovamente mettersi in piedi e sporgersi dal vetro, sotto la pensilina
non
c’era più nessuno.
Continua...