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Autore: SAranel    20/07/2012    5 recensioni
Il piccolo John è costretto a scappare di casa, una notte, rifugiandosi nell'unico posto in cui si è sempre sentito al sicuro. E proprio mentre le cose sembrano prendere una piega tutt'altro che rassicurante, un aiuto particolare arriva in suo soccorso, un aiuto che potrebbe cambiare tutta la sua vita. Che succederà?
"John sapeva benissimo che era sbagliato, che la mamma si sarebbe preoccupata, che non avrebbe dovuto reagire a quel modo.
Era però altrettanto certo, davvero sicuro sicuro sicuro che, se non fosse andato via in quel momento, sarebbe scoppiato a piangere davanti a tutti come un poppante, lui che aveva ormai ben dodici anni, e non avrebbe avuto più il coraggio di uscire da camera sua almeno per i successivi dieci. Aveva dovuto farlo, era stato necessario.
Peccato però che in quel momento se ne stesse pentendo amaramente, al diavolo il coraggio e altre stupidaggini simili."[...]
Genere: Mistero, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao adorato fandom!
Dopo varie vicissitudini con l’ultimo capitolo dell’altra long in corso (lo sto riscrivendo, sarà prossimamente sui vostri schermi) posto una cosina scritta prima di partire, che dividerò in più capitoli per questione di lunghezza, ma che è già conclusa. Contavo di pubblicarla prima (è passato TROPPO tempo dall’ultima storia!) ma sono stata impossibilitata, quindi ho optato per oggi, con calma!
E’ sicuramente un’AU e capirete certamente perchè, e per quanto per gran parte della storia i nostri beniamini siano bambini/ragazzi, non credo si possa definire una Teen, dato che alla fine il fulcro della faccenda li coinvolge da ‘adulti’.
Comunque, bando alle ciance!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!

S.


Lost and found

*


John sapeva benissimo che era sbagliato, che la mamma si sarebbe preoccupata, che non avrebbe dovuto reagire a quel modo.
Era però altrettanto certo, davvero sicuro sicuro sicuro che, se non fosse andato via in quel momento, sarebbe scoppiato a piangere davanti a tutti come un poppante, lui che aveva ormai ben dodici anni, e non avrebbe avuto più il coraggio di uscire da camera sua almeno per i successivi dieci. Aveva dovuto farlo, era stato necessario.
Peccato però che in quel momento se ne stesse pentendo amaramente, al diavolo il coraggio e altre stupidaggini simili.
Il parco era buio ormai, più buio delle altre volte in cui vi aveva giocato accompagnato dai suoi genitori a sera tarda, e quando non udì più rumore di passi o le voci dei bambini e dei passanti in lontananza, cominciò seriamente a temere di essere rimasto nascosto tanto a lungo da non aver sentito l’avviso di chiusura dei cancelli.
Quatto quatto, uscì dal suo nascondiglio di cespugli e foglie secche e si guardò intorno, allarmato, cercando di scorgere una luce, un rumore di passi, una qualche voce che lo rassicurasse di non essere rimasto solo in quello spazio immenso. L’unico rumore che attirò la sua attenzione però, fu solo l’inquietante cigolio di un’altalena spinta dal vento notturno.
John mugolò, spaventato, con la mente in frenetica attività, alla ricerca di un modo per uscire da lì al più presto possibile. Strinse gli occhi e i pugni, pregando tra sé e sé e promettendo, giurando, che non avrebbe mai più fatto una cosa del genere, che avrebbe accettato le decisioni dei suoi genitori e tollerato il comportamento di Harry senza fiatare, se solo fosse riuscito a uscire illeso da quel brutto guaio.
Stava testando la resistenza della solida, solidissima cancellata di ferro, quando qualcosa lo fece bruscamente voltare, spaventato.
“E’ fiato sprecato, credimi” una voce tranquilla lo fece sobbalzare. “Non cederà mai, nemmeno se ti ci appendi con tutte le tue forze.”
“Chi sei?” domandò John sospettoso, il cuore che batteva all’impazzata al pensiero delle mille raccomandazioni di sua madre sul non parlare con gli sconosciuti. E in quel momento era solo, in un parco deserto, a parlare con qualcuno che non aveva mai visto in vita sua.
Quando però il proprietario di quella voce si fece avanti, rischiarato dalla pallida luce di un lontano lampione, John tirò un sospiro di agognato sollievo. Sua madre non gli aveva mai detto di non parlare con sconosciuti bambini, e quello lì davanti non poteva avere più di nove anni, uno scricciolo alto e allampanato per la sua età, con una zazzera di riccioli scuri che gli ricadevano buffamente sugli occhi. E qualcosa, in quegli occhi, troppo lontani da John perché lui potesse cogliervi quella profonda sfumatura dorata, tranquillizzava John enormemente.
“Posso dirti quello che non sono, piuttosto. Non sono un ragazzino che cerca di sradicare l’inferriata di un parco giochi perché per la sua sbadataggine ci è rimasto chiuso dentro.” disse sicuro, con lingua fin troppo sciolta per un mocciosetto della sua età.
John era senza parole, preso completamente in contropiede da quella risposta. Decise di difendersi come meglio poteva, cominciava leggermente a sentirsi in apprensione nei confronti del nuovo arrivato, anche se era solo un piccoletto arrogante.
“Anche tu sei qui, però!” sbottò John, pensando di aver centrato nel segno. “E non mi sembra che ti stia dando molto da fare per trovare una via d’uscita.”
L’altro sbuffò, scostandosi una ciocca di capelli dagli occhi con fare annoiato.
“Ti sfugge un piccolo dettaglio, piccoletto. Io sono esattamente dove desideravo essere, e non ho alcun desiderio di trovarmi in altro posto che questo”.
Piccoletto? Piccoletto a me?” disse John sbigottito, abbandonando l’idea del cancello e decidendo di scoprire qualcosa sul suo misterioso e strambo interlocutore. “E cosa cavolo vuol dire che sei dove vorresti essere?”
L’altro sbarrò gli occhi, come se la risposta dovesse essere ovvia anche al più idiota degli idioti.
“Che sono rimasto volontariamente chiuso qui dentro, al contrario di te. E se mi permetti un commento, sembri grandicello per questo genere di ripicche a mamma e papà”.
La risposta che John stava pensando di sbattere in faccia al piccolo insolente saputello, morì sulle sue labbra alla realizzazione di quello che aveva appena detto. John boccheggiò come un pesce fuor d’acqua prima di articolare una frase di senso compiuto.
“Come…come cavolo fai a sapere…?”
L’altro ridacchiò, sarcastico.
“E’ ovvio.”
“Non è ovvio per me.
“Questo è chiaro.”
Il ragazzino andò a sedersi su una delle due altalene arancioni poco lontano, su quella che fino a poco prima cigolava cupamente e che era la preferita di John. Con un cenno quasi impercettibile della testa, fece segno a John di occupare quella vicina. Sospettoso, si avvicinò, e senza interrompere il contatto visivo con il suo nuovo strambo amico, si sedette sulla rigida seduta di legno.
“Allora, hai intenzione di dire qualcosa, piccolo genio pazzoide?”
L’altro rise ancora seppure con una nota malinconica, nella voce.
“Siete tutti così prevedibili, anche nei soprannomi.”
“Forse perché sei una specie di pazzoide.”
“Comunque non vedo il motivo per cui sottolinearlo in continuazione. Insomma, qualcuno ti chiama mai adorabile bambino diligente e studioso?”.
“Perché non ce n’è bisogno! Perché non è fuori dal normale!” rispose John, infervorato. Odiava non riuscire a controbattere adeguatamente a quella lingua lunga. “E comunque, stai cambiando argomento. Devi dirmi come fai a saperlo” aggiunse, deciso a mettere luce su quella storia.
“Come faccio a sapere che sei scappato?” domandò retoricamente lo sconosciuto. “Bruttini quegli strappi sulla tua maglietta. Deve essere stato faticoso procurarteli. Cos’hai usato? Le unghie? Cavolo.”
John rimase ancora di più a bocca aperta.
“Non c’era nessuno con me! Come hai fatto?”
“Logica. Strappi troppo regolari perché tu possa esserteli procurati come avevi intenzione di riferire ai tuoi, e hai del tessuto rosso intorno alle dita e ancora infilato sotto le unghie. E se posso aggiungere un piccolo dettaglio, quelle macchie di fango sul tuo pantalone sono visibilmente auto-procurate. Ci vedo le tue dita impresse sopra”.
John non aveva più parole. Sentì un qualcosa di indefinito, frustrazione per l’essere stato miseramente scoperto misto all’inquietudine e la paura di trovarsi in quel luogo con quello strano compagno, crescergli velocemente nel petto.
“Io non…io…”
“E comunque trovo abbastanza stupido far preoccupare tua madre rifilandogli una storiella simile. Posso dire la mia?” domandò, come se fino a quel momento fosse rimasto in religioso silenzio.
“No” disse seccamente John, amareggiato.
“…Chi avevi intenzione di mettere in mezzo? Uno sconosciuto che ti ha caricato in macchina durante una passeggiata? Un passante che ti ha offerto caramelle? Un po’ infantile.
John lo guardò sottecchi.
“Tu non sai che vuol dire. Tu non mi conosci ed io non conosco te”
“Questo non vuol dire che io non possa capirti.
“Beh io non capisco te. E tu non sai cosa vuol dire avere una sorella come Harry”.
Si morse la lingua subito dopo. Non capiva il motivo per il quale continuasse ad assecondarlo, a continuare a parlare con lui mettendosi alla mercé delle sue puntigliose deduzioni. E adesso aveva anche menzionato Harry davanti a lui, con la chiara intenzione di raccontargli tutta la faccenda, come fosse un vecchio amico a cui chiedere consiglio.
“Dimmi di questa Harry. E’ per lei che sei fuggito?”
John gli rivolse un sorrisetto amaro.
“Sì. E per i miei, come hai detto prima” cominciò a spiegare John, sempre più allibito dal suo stesso comportamento. Quel ragazzo però, nonostante fosse irritante e supponente, gli ispirava una strana e istintiva fiducia.
“Cosa ti ha fatto lei?” chiese l’altro, con voce quasi comprensiva.
“Lei beve” disse, e si sentì trafiggere da mille invisibili spilli.
“Oh” fu tutto ciò che disse il ragazzino, dandosi una spinta con le gambe e lasciandosi dondolare dolcemente dall’altalena. John lo imitò, desideroso di una sferzata d’aria fresca sul suo volto accaldato.
“Io dovevo andare a Brighton con il mio amico Robbie, quest’estate. E’ una vacanza che programmavamo da secoli e per cui ho impiegato mesi a convincere i miei. Poi ieri Harry torna completamente fuori di testa a casa e tutto salta per sempre. Tutti i miei sforzi completamente andati in malora”.
Il ragazzo sull’altra altalena annuì, pensoso, come se stesse elaborando i dati appena ottenuti.
“Soldi?”
“Soldi” annuì John, senza nemmeno più sorprendersi di quanto veloce e intelligente fosse quella persona. “Devono mandarla via per un po’, da una vecchia zia nel Devon a farle cambiare aria. E ovviamente la signora non vuole accollarsi le spese di un’adolescente piena di problemi. Hanno detto di essere dispiaciuti, mortificati e tutto, ma non me la danno a bere. Ecco tutto. Contento?”.
Il ragazzino non parlò, nonostante John avesse concluso il racconto e cominciasse a sentirsi a disagio e decisamente stupido. Perché gliel’aveva detto? Perché non aveva girato i tacchi per continuare a cercare una via d’uscita?
“Beh, continua a sembrarmi una reazione abbastanza infantile. Se fossi dovuto scappare ogni volta che i miei hanno preferito mio fratello a me, avrei passato metà della mia esistenza fuori di casa”.
John non sapeva esattamente cosa rispondere a quell’affermazione. Così si mise sulla difensiva.
“Io aspettavo quella vacanza da mesi!” disse a sua discolpa. “Harry non può sempre rovinare i miei piani!”.
“Pensi che i tuoi lo abbiano fatto apposta? Pensi che a loro faccia piacere che la loro figlia adolescente beva fino a star male?”.
John si ammutolì. Arrossì furiosamente alla logica del discorso e ringraziò che non ci fosse abbastanza illuminazione perché il ragazzino potesse accorgersene.
“Io non… io non credo, no” affermò, con voce instabile. “Anche tu però hai detto che i tuoi fanno preferenze, no? Cos’ha tuo fratello in più di te?”.
Il ragazzino si bloccò, puntellando i piedi sul terreno.
“E’ semplicemente come tutti gli altri, o almeno così fa sembrare. E questo i miei lo trovano più rassicurante di…qualcuno come me”.
John sorrise, sinceramente divertito.
“E’ perché sei una specie di cervellone? Perché sembri e parli come qualcuno più grande della tua età? I miei pagherebbero per un figlio come te”.
Fu il turno dell’altro per ridacchiare, ma non c’era alcuna allegria in lui.
“Questo è quello che si dice” esclamò, la voce per la prima volta afflitta da una nota triste. “Alla fine però, non è mai vero”.
John non sapeva cosa rispondere così si limitò a darsi un’altra spinta sull’altalena. Percepiva qualcosa in quel ragazzo, qualcosa che non riusciva a spiegare; era come se dietro quella corazza di sicurezza si celasse un animo tormentato, una profonda tristezza. Per qualche secondo, l’unico suono udibile nel parco fu il lamentoso cigolio delle molle sotto il suo peso.
“Mi dispiace, comunque” disse poi, per non sembrare poco solidale nei suoi confronti. L’altro si limitò ad accennargli un piccolo sorriso, che scomparve nel giro di un secondo.
“Non fa niente”.
Silenzio.
“Perché sei qui, comunque? Perché sei rimasto qui dentro di tua spontanea volontà?” si ricordò poi di chiedergli, sinceramente curioso di scoprirlo. L’altro sembrò illuminarsi a quella domanda, come se non avesse aspettato altro che quella, fino a quel momento.
“E’ un posto tranquillo. Mi aiuta a pensare. A liberare la mente dalle cose inutili” spiegò, come se fosse perfettamente normale. “Ci vengo spesso.”
“E i tuoi?”
“I miei cosa?”
“I tuoi ti lasciano andare? Oppure scappi anche tu?” lo provocò, con sguardo complice. Il ragazzino scosse la testa.
“Oh no. Dico loro che dormo da un amico. E questo spiega largamente il loro vivo interesse per me”.
John si sforzò di capire, senza riuscirci.
“Che vuoi dire?” chiese, sperando di non essere troppo invadente. Guardandosi intorno però, decise che forse la situazione poteva giustificare un minimo di curiosità in più da parte sua. Quanto spesso avrebbe incontrato un altro quasi - coetaneo fuggiasco con cui parlare?
“Che io non ho amici” affermò, guardando davanti a sé. “Non ne ho mai avuti.”
“Oh” fu tutto ciò che riuscì a dire John. Sapeva di dover cercare di essere comprensivo, amichevole, solidale con lui, ma non trovava nulla di abbastanza convincente da poter dire. Avrebbe dovuto consolarlo, confortarlo, dirgli che c’era tempo per farsi amici a volontà ma qualcosa nello sguardo sicuro e riflessivo del suo nuovo compare sembrava dirgli che una pacca sulla spalla era l’ultima delle cose che avrebbe desiderato. Quel ragazzino sembrava perfettamente felice così com’era.
“Beh mi… mi dispiace” disse soltanto, sperando che fosse la cosa giusta da dire.
“A me no. Una distrazione in meno.”
“Gli amici non sono una distrazione” disse John, ripensando a Robbie e alle serate passate con lui. “Sono una bella cosa, invece.”
“Perdita di tempo prezioso. Un’ora spesa a giocare a, non so, Cluedo potrebbe essere impiegata per qualcosa di più utile” affermò.
John decise di non insistere. Aveva l’impressione che non sarebbe servito a nulla.
“Vedila come vuoi” disse, diplomatico.
Un lungo silenzio seguì anche quel discorso, prima che John si accorgesse che tra una parola e l’altra, il cielo, da nero pece puntellato di stelle che era, aveva cominciato a schiarire nel roseo pallore dell’alba. L’alba più bella che John avesse mai visto in vita sua.
“Bella eh?” disse il piccolo straniero, con il naso puntato all’insù. “E non devi nemmeno pagare il biglietto.”
“O fare file chilometriche ai botteghini del National Theatre” scherzò John, provocando la prima vera risata allegra nel suo compagno. “E poi vuol dire che fra poco gli autobus riprenderanno a circolare ed io potrò tornarmene a casa”.
John sollevò sorpreso un sopracciglio quando vide il viso particolare del ragazzo, adesso molto più nitido nel pallido chiarore, rabbuiarsi improvvisamente. Abbassò lo sguardo, senza poter evitare di sentirsi un po’ in colpa.
“Allora è meglio che ti aiuti a scavalcare, no? Non corri rischio di ruzzolare giù, adesso che è giorno” propose il ragazzino, cercando di nascondere al meglio l’ombra sconsolata nei suoi occhi azzurri. John lo studiò per un po’, domandandosi se fosse il caso di chiedergli come stava o se c’era qualcosa che non andava, ma gli sembrava che l’altro non fosse molto propenso a esternare il suo stato d’animo.
“Grazie mille, davvero” si limitò a dire, con entusiasmo.
Arrivati davanti al cancello, il ragazzino salì sul muretto di marmo e porse una mano a John, che lo seguì quasi immediatamente. Incrociò le dita delle mani e John vi poggiò il piede e, aiutandosi con entrambe le mani, si diede la spinta necessaria per issarsi sul cancello e atterrare agilmente dal lato opposto.
John si sistemò gli abiti e i capelli, pettinandoli con le dita della mano destra. Poi rivolse un sorriso grato allo straniero.
“Ehi, grazie ancora, davvero. Anche per… per la compagnia di stanotte” disse John al ragazzino, infilando il viso tra due sbarre tinte di verde. L’altro annuì, arrossendo in viso per un motivo a John sconosciuto, e infilandosi le mani in tasca.
“Vai dai tuoi, saranno…in pensiero” disse, e si toccò le labbra, come se non credesse che parole del genere fossero uscite dalla sua bocca. “Fai il bravo bambino e torna immediatamente a casa” scherzò, con gli occhi ancora più tristi, nonostante cercasse ancora di mascherarli.
“Si” disse John, con il cuore che batteva all’impazzata. “Lo farò.”
“Alla prossima fuga” si congedò il ragazzino, arruffandosi i capelli con una mano e facendo per voltarsi. John rise e girò anche lui i tacchi, accennando un saluto con il capo. Dopo due passi però, gli venne in mente una cosa importantissima.
“Ehi, non mi hai detto il tuo…” fece per dire ma si bloccò immediatamente, con le labbra socchiuse. Dalla parte opposta del cancello, dove poco prima il ragazzino gli stava rivolgendo un saluto con la mano, non c’era più nessuno. Il vento spinse di nuovo l’altalena, e John se ne andò, con uno strano peso sul cuore.

 

 

§

 

 

Nonostante il passare del tempo, quel ragazzino rimase sempre nei pensieri di John.
Pensò spesso a lui nel corso degli anni, alla strana conversazione avuta con lui quella notte, ai suoi occhi sicuri ma tristi, a quella sicurezza ostentata, a quella lingua capace di distruggere le tue convinzioni più solide. Non lo aveva più rivisto da quel giorno di tanti anni prima, nonostante fosse tornato più volte in quel parco giochi nella speranza di rivederlo, di sentire nuovamente la sua voce, di incrociare nuovamente il suo viso. Non lo aveva incontrato per strada, o al cinema, al teatro, nella folla natalizia nelle piazze di Londra. Era semplicemente sparito, svanito come una voluta di fumo in un soffio di vento.
John però non aveva dimenticato nessun particolare di lui.
Non era mai stato particolarmente fisionomista, o meglio ricordava certamente i tratti di una persona in grandi linee, ma il viso di quel ragazzino gli era rimasto impresso in ogni suo particolare. Aveva ben stampata in testa la forma spigolosa e particolare del suo viso, i capelli scuri e mossi, gli zigomi taglienti nel viso leggermente paffuto e la figura alta e sottile, quasi signorile nonostante la giovane età, e soprattutto i suoi occhi, i più particolari che avesse mai visto.
E di una cosa era più che sicuro: lo avrebbe riconosciuto tra mille anche dopo tutti quegli anni.

Così, si ritrovò a pensare a lui una mattina dei suoi vent’anni, un’afosa giornata di luglio, mentre usciva da casa sua sbattendo la porta dietro di sé con veemenza, pieno di rabbia.
Harry. Ancora Harry. Per l’ennesima volta Harry.
E quella volta, John ne era sicuro, le paroline dolci di scuse che sua sorella gli avrebbe certamente propinato al suo ritorno, non sarebbero servite a nulla.

John corse a perdifiato nell’aria soffocante, quasi dimenticandosi di respirare, respingendo il dolore alle gambe, che si faceva sempre più pressante, in un angolo remoto della sua mente. Cercò di chiudere il flusso dei suoi pensieri, di non pensare a nulla, di arginare la rabbia che provava verso sua sorella fino ad annullarla, a giustificarla, a relegarla nella stessa piccola stanza del suo cervello dove albergava il dolore, la sofferenza, il sacrificio, ma non servì a nulla, non in quel momento.
John continuò la sua corsa frenetica fin quando nemmeno i suoi sforzi più intensi riuscirono a fargli ignorare il suo bisogno d’ossigeno, e fu costretto a fermarsi, riprendendo fiato in avide boccate, chino con le mani sulle ginocchia.
Era arrivato da qualche parte, sul fiume, in un vecchio molo abbandonato che non conosceva. Un vecchio palazzo in rovina, forse un'antica fabbrica, troneggiava cupamente sulla riva con le sue finestre rotte e scure che lo facevano sembrare un’enorme faccia piena di orbite vuote.
John si lasciò cadere sulla rena asciutta, chiudendo gli occhi e ascoltando per qualche minuto il solo rumore dello sciabordio stanco della corrente fluviale.
“Rilassante, vero?” una voce lo distolse dal suo tanto agognato relax. John aprì gli occhi svogliatamente, con zero voglia di intavolare una conversazione con un passante curioso, cercando mentalmente una scusa per sottrarsi.
Quando però rivolse lo sguardo al disturbatore, represse per un pelo un gemito sbalordito.
Non era possibile. No davvero.
“Sei tu” disse, mettendosi in ginocchio, con i sassolini che pungevano le ginocchia come spilli. “Sei…davvero tu” ripeté, come se non fosse del tutto sicuro che quella fosse la realtà. Magari era solo uno strano sogno o una bislacca proiezione della sua mente.
Quegli occhi, però, li avrebbe riconosciuti tra mille, anche se adesso avevano perso quell’aria malinconica di tanto tempo prima. Era diventato ancora più alto, i capelli erano ancora un cespuglio ordinato di ciocche scure e il viso aveva perso ogni parvenza della pinguedine infantile, dandogli un aspetto etereo, come fosse una creatura di un altro mondo. Era davvero il ragazzo più bello, non trovava altro termine, che John avesse mai visto in vita sua.
“Capita spesso che io sia davvero io” lo prese in giro l’altro con un sorriso. “Come credo che capiti spesso anche a te di essere davvero te.”
John ignorò il gioco di parole, troppo preso dall’eccitazione di quell’incontro. Quante volte inconsciamente aveva quasi sperato di ricontrarlo un giorno, senza spiegarsi minimamente il perché?
“Non ti ho più visto al parco. Non ti ho più visto in nessun altro posto” gli disse, desideroso di conoscerne il motivo. L’altro abbassò lo sguardo, stringendosi nelle spalle.
“Ci siamo trasferiti. Il parco non era decisamente nei paraggi ed io… io non amo molto frequentare posti troppo affollati”.
John rise, sperando solo un secondo dopo di non averlo offeso.
“Scusa, è che…io…lascia perdere. E’ ok, va bene”.
L’altro si accigliò, come se non capisse esattamente il motivo di quelle scuse.
“Cosa è ok?”
“Questo…il fatto che tu non sia…ecco, così socievole. Lo avevo capito. Insomma, va bene che non ci siamo incontrati prima, capito? E’…è tutto ok.”
“Se lo dici tu, è ok” disse lo straniero con un’espressione sul viso che sembrava gridare qualcosa come ‘meglio assecondare questo matto’. John si morse la lingua, sentendosi un perfetto idiota.
“Lascia stare” liquidò poi, cercando di lasciarsi alle spalle quell’imbarazzante benvenuto. “Io sono…sono contento di rivederti, comunque.”
Il moro annuì, stringendosi nella sua camicia scura.
“Trovo anch’io che la coincidenza sia…piacevole” disse, e John cercò d’interpretarlo come un segnale positivo.
“Come mai sei qui?” gli domandò, prima che un altro particolare gli tornasse in mente. “No, aspetta, voglio indovinare. Anche questo posto stimola la tua mente e ti aiuta a pensare?” buttò li, scherzoso.
Il ragazzo assunse un’espressione compiaciuta e sorpresa, come se le parole di John lo avessero riempito di una sorta di gratificante soddisfazione.
“Vedo che ricordi perfettamente” si complimentò, con un’altra ombra di sorriso. “E’ proprio così, comunque.”
“Di certo questo posto non è affollato” John cercò di rompere ulteriormente il ghiaccio.
L’altro fece un versetto d’approvazione.
“Questo è sicuro.”
John tacque, cercando le parole giuste per esprimere quello che voleva.
“Sai, io ho… ho un bel ricordo di quella notte. Ricordo tutto, ogni cosa” decise, alla fine.
L’altro sembrò arrossire, ma annuì ancora con un movimento rigido del collo, come se quel gesto gli costasse uno sforzo immane. John si sentì lievemente a disagio per un secondo, temendo di essere il motivo di quel comportamento.
“Anch’io ci ho pensato. A lungo” ammise però, e John si aprì in un sorriso incoraggiante. “E tu sei scappato di nuovo” aggiunse poi l’altro, serio, in un tono affermativo che sembrava non tollerare repliche.
Il sorriso di John si affievolì quando quella frase gli riportò alla mente il motivo della sua presenza lì.
“Strana la vita eh?” disse, abbassando gli occhi alla sabbia sollevata dal vento davanti a sé.
“E’ sempre Harry?” chiese poi lo sconosciuto, provocando in John un sussulto.
“Ti ricordi di Harry?”
“Te l’ho detto che ricordo tutto.”
John era sbalordito.
“E’…bene” disse, cercando di venire a patti con quella realtà. Non era stata solo una sua fissazione allora. Anche lui aveva avuto un certo impatto su quel ragazzo.
“Comunque sì, è per Harry” esclamò, afferrando un sasso poco lontano e gettandolo nel fiume con un plop quasi comico. Lo sconosciuto si sedette accanto a lui.
“Cos' è successo stavolta?” gli domandò, con sguardo attento e scrutatore, come se davvero gli interessasse fortemente di John e del suo sfogo. Il ragazzo dai capelli biondi lo guardò negli occhi e gli sorrise amaramente, prima di rispondere.
“Avevo un esame importantissimo, oggi. Biochimica. E’ una delle materie di base per Medicina ed è un esame che ho rimandato il più possibile per stare con lei” cominciò a raccontare, con voce instabile. “Nei giorni scorsi non è stata tanto bene” disse, come a scusarsi di essere un buon fratello.
“E allora? Com’è andata?” gli occhi dello sconosciuto si assottigliarono in due mezzelune azzurre.
“E’ andata che ieri Harry ha bevuto ancora. Con quell’idiota della sua nuova ragazza, Alice” cominciò a raccontare, sentendo nuovamente l’astio risalirgli fino in gola. “I miei non ci sono e lei è tornata a casa stravolta. Ho passato tutta la notte a occuparmi di lei, a sentire i suoi pianti, le sue scuse, a sostenerla mentre sveniva, vomitava e… si lamentava su quanto faccia schifo la sua vita. Mi sono addormentato verso le sei, e… mi sono risvegliato quando il mio appello era passato da almeno due ore” disse, il più veloce possibile, come se buttando tutto fuori tutto, la rabbia potesse passare. Via il dente, via il dolore. Se solo fosse stato veramente possibile.
“Oh” rispose il ragazzo dai capelli scuri, donandogli una perfetta riproduzione di se stesso otto anni prima. John sorrise, suo malgrado.
“Si cresce, e con noi crescono i problemi” disse John, come un vecchio saggio che dispensa consigli ai nipotini. L’altro volse lo sguardo al fiume, pensieroso.
“Mi dispiace, davvero” gli disse, e a John parve sincero nonostante il tono neutro e senza alcun calore. “Adesso cosa farai?”
John scosse la testa.
“Non lo so. Mi toccherà riprovarci fra qualche mese e…ricominciare”.
Il ragazzo gli rivolse un’occhiata confusa, come se non gli fosse chiaro qualcosa.
“Quindi nulla è perduto, non è così?
John lo guardò, accigliato.
“No, questo è vero, ma io contavo di mettermi alla pari, di fare tutto in regola, tutto in ordine, tutto secondo…la mia tabella di marcia. E Harry ha sconvolto i miei piani.”
L’altro ragazzo rise, senza allegria.
“Non esistono tabelle di marcia. La vita non segue una regola, uno schema, un qualcosa di programmato o già scritto. La vita ti manovra a suo piacimento e tu, ed io e tutti siamo solo marionette nelle sue mani” esclamò, con voce tagliente, osservando ancora l’acqua che scorreva veloce. “Quindi faresti bene a toglierti certe convinzioni dalla testa”.
Continuò a fissare il fiume ma qualcosa diceva a John che non stesse davvero guardando. Sembrava immerso in un mondo tutto suo.
John rifletté su quelle parole indubbiamente significative, dubitando però che sarebbe mai riuscito a ignorare i suoi schemi e i suoi ritmi, per quanto avrebbe cercato di sforzarsi.
“Forse hai ragione. Anche stavolta” convenne, suo malgrado. “Ci proverò.”.
Poi un altro ricordo lo colpì e John parlò, senza poterne fare a meno.
“Problemi con tuo fratello, già che siamo in tema? Ti vedo…teso, sull’argomento.”
Il ragazzo rise, ironico, lanciando anche lui un sasso nel fiume che rimbalzò un paio di volte prima di affondare.
“Mio fratello non crea problemi. Lui è un problema, uno di quelli che ti porti dietro per tutta la vita” rispose seccamente, ma John sapeva che non era a causa della sua domanda.
Si scostò un ciuffo capriccioso dagli occhi e sospirò, cercando qualcosa per confortarlo almeno un po’.
“Sono sicuro che in fondo lui…lui ti vuole bene.”
L’altro accennò una risatina divertita, tornando a guardare John negli occhi, visibilmente interessato.
“Beh, allora potrei dire lo stesso di Harry. Sicuramente ti vuole bene, sicuramente si odia per averti fatto saltare quell’esame e per averti costretto, suo malgrado, a farle da infermiere” esclamò. “A questo punto potresti passare avanti e perdonarla, ma sono sicuro che adesso mi dirai che non è la stessa cosa.
John sbuffò e portò le ginocchia al petto, circondandole con le braccia e accoccolandosi meglio nel suo giaciglio di sabbia. Il discorso del suo vecchio amico non faceva una piega, come quello di tanti anni prima, e proprio come quel giorno al parco giochi John si sentì sopraffatto dalla verità di quelle parole, pronunciate da qualcuno che aveva incontrato soltanto due volte in tutta la sua vita ma che sembrava conoscerlo come nessun altro.
“Sei insopportabile quando fai così” sbuffò John, fingendosi stizzito, ma sorridendo al ragazzo subito dopo. “Sei bravo a farmi sentire in colpa.”
L’altro piegò le labbra in un ghigno soddisfatto.
“E’ uno dei miei tanti talenti.”
“Un talento piuttosto antipatico.”
“E’ pur sempre un talento.”
John non gli diede ulteriormente corda ma rimase a guardarlo, anche se cercando di non sembrare inopportuno. Quando si accorgeva di fissarlo da troppo tempo, abbassava la testa imbarazzato ma poi tornava alla carica, studiando i suoi lineamenti particolari, la sua figura tutt’altro che comune. Ovviamente, il ragazzo se ne accorse.
“Qualcosa d’interessante?” domandò, ma certamente conoscendo la risposta.
John avvampò e si strofinò il viso con le mani cercando di attribuire il rossore a quello sfregamento, ma senza troppe speranze di successo.
“No, niente è che… mi sembra così strano averti ritrovato” disse, semplicemente esternando il suo pensiero. L’altro fece spallucce.
“Non è così strano. Capita ogni giorno, ma nessuno ci fa caso".
“Io intendevo averti ritrovato in questa…situazione. Ricordi cosa mi dicesti, prima di sparire?”.
Il ragazzo dai capelli scuri chiuse gli occhi, unendo le punte delle dita e sfiorandosi le labbra con gli indici.
“Alla prossima fuga.”
“Alla prossima fuga.”
“Evidentemente fuggi così spesso che è straordinariamente facile incontrarti mentre scappi da qualcosa.”
John lo fulminò scherzosamente con lo sguardo.
“Antipatico.”
“E’ solo la realtà dei fatti.”
“Io avevo bisogno di cambiare aria.”
“Beh, l’hai cambiata.”
“Vuoi che vada via?”
“Non mettermi in bocca cose che non ho detto.”
“Beh, è come se me lo stessi dicendo.”
“Ti sbagli” disse ancora, e John si accorse di quanto il ragazzo si fosse arcuato verso di lui, come pronto a fermarlo nel caso fosse scappato via offeso. “Comunque dovresti tornare. Sarà in pena per te, almeno credo.”
John emise un verso sprezzante, stringendo un pugno di sabbia nel palmo, tenendolo stretto.
“Dubito. Stasera uscirà di nuovo e tornerà a casa ancora più sbronza, lo so”.
“Non puoi saperlo.”
“Tu sai sempre tutto.”
“Tu non sei me” rispose l’altro, con un ragionamento impeccabile che fece ridere John di gusto.
“Già” sussurrò John, a bassa voce. “Io sono quello idiota.”
“Lo sono tutti.”
“Tranne te.”
“Tranne me.”
Il silenzio che seguì, fu interrotto da un incessante bip bip bip che avvisava John di un SMS in arrivo. Svogliatamente prese in mano il cellulare e lo sbloccò, immaginando chi fosse il mittente del messaggio e senza alcuna voglia di rispondere o anche solo leggere quello che aveva da dire. Almeno aveva avuto la decenza di non chiamarlo e fare una scenata melodrammatica al telefono. Guardò lo schermò e scosse la testa, seccato.
“E’ lei?” domandò il ragazzo.
“Sì.”
“Cosa dice?”
John mostrò lo schermo del telefono al ragazzo, che lesse immediatamente la frase sgrammaticata, colpa certamente della fretta concitata con cui era stato scritto, ma ugualmente comprensibile.
Mi dispiace tanto John” ripeté John con un sorrisetto beffardo. “Si è sprecata, anche stavolta.”
Il ragazzo accanto a lui sollevò un sopracciglio, sorpreso.
“Non ti aspetterai che sia in grado di articolare un poema di scuse dopo la notte che ha passato?”
John boccheggiò, cercando qualcosa a cui appigliarsi per non dargliela vinta di nuovo.
“No, ma…”
“Non c’è nessun ‘ma’. Va da lei, adesso.”
“Io non posso. Non sono ancora pronto a tornare” disse con voce non troppo convinta. Stava cercando di fare il duro, di non cedere, di non ammettere che in realtà era lui a essere in pena per sua sorella, dopo il messaggio. Si era ripromesso di non lasciarsi abbindolare ancora dalle scuse di Harry, dai suoi mille ‘mi dispiace’ di ogni volta, ma non poteva farci nulla. Harry era la sua debolezza.
“Riesco a leggere i tuoi pensieri. Sei un libro aperto per me sai?” disse il ragazzo, guardandolo intensamente, come se gli stesse davvero leggendo dentro. “Sulla copertina posso leggere quanta ansia tu sia provando in questo momento, nella prima pagina posso vedere la tua frustrazione nel non riuscire a resistere nemmeno un’ora lontano da lei nonostante tu ci abbia provato in tutti i modi, e nella seconda pagina, lo sforzo sovrumano che stai compiendo per cercare di capire dove tu possa trovare la fermata dell’autobus più vicina” concluse, tutto di un fiato, lasciando John a bocca aperta. “Sull’ultima posso aiutarti. Segui la stradina in cima a quelle scale lì in fondo, per un centinaio di metri” indicò una scalinata di roccia poco lontana.
“Dovresti fare il detective. O qualcosa del genere” fu tutto quello che John riuscì a dire, con una risatina allegra. “Sei spaventoso, senza offesa.”
Il ragazzo si infilò le mani in tasca e si sollevò, giocherellando con un ramoscello secco tra le scarpe.
“E’ un lavoro troppo…noioso” rispose, provocatorio.
John fece spallucce, alzandosi anch’egli, senza staccare gli occhi di dosso al suo compagno di chiacchierate.
“Dovresti inventartene uno, allora” propose John, sorridendo.
L’altro lo guardò divertito.
“Potrei farlo, sì.”
John arrossì e lo guardò, cercando qualcosa di buono da dire e da fare, quando sarebbe stato il momento di congedarsi. Voleva chiedergli se avrebbe potuto rivederlo, se sarebbero passati altri otto anni prima di incontrarlo ancora. Si domandò se era il caso di chiedergli dove abitasse, se gli andasse una passeggiata di tanto in tanto, o perlomeno il suo numero di telefono, ma nulla uscì dalla sua bocca. Era come bloccato, ammutolito, incapace di formulare anche solo una di quelle domande.
Si lasciò accompagnare sulla strada principale, in silenzio, fino alla fermata del bus che il suo compagno gli aveva indicato e si fermò sotto la pensilina, in attesa.
Un bus rosso rombò in lontananza, annunciando il suo arrivo, e John si piegò in avanti, felice e rammaricato allo stesso tempo nel costatare che fosse proprio quello che a lui occorreva. Voleva tornare da Harry al più presto, ma allo stesso tempo non voleva lasciar andare lui.
“E’ giunto il momento dei saluti, a quanto pare” esordì il ragazzo, rompendo il silenzio, mentre il bus avanzava lentamente lungo la strada.
“A quanto pare” convenne John e del tutto inaspettatamente, vide il suo braccio muoversi di sua spontanea volontà, tendendo la mano al ragazzo di fronte a lui. Questi lo guardò stupito, come se non si aspettasse un gesto simile, ma strinse la mano a John, con presa salda. La sua mano era calda, liscia, per niente ruvida.
L’autobus arrivò alla fermata e John salì, cercando di non interrompere il contatto visivo con il ragazzo rimasto in strada, cercandolo attraverso il vetro aperto di uno dei finestrini.
“Alla prossima fuga, John” il ragazzo mormorò, ma John riuscì a sentirlo chiaramente. John sorrise e lo salutò con un gesto della mano prima di sedersi. Il suo cuore prese a battere furiosamente quando si accorse che quella di poco prima era stata la prima volta che quel ragazzo aveva pronunciato il suo nome, anche se lui non gliel’aveva mai detto.
Poi, un ricordo del molo, una chiara immagine di nemmeno dieci minuti prima, lo colpì come uno schiaffo in pieno viso.
“Il messaggio di Harry” bisbigliò a se stesso, rimuginando.
Quel ragazzo conosceva il suo nome e John invece ignorava completamente quello di lui. Che stupido era stato a non chiederglielo prima? Perché era stato tanto distratto da ignorare un particolare tanto importante?
Prima che potesse affacciarsi nuovamente per poterlo chiamare, per rubare quella piccola ma fondamentale informazione, l’autobus partì, facendolo atterrare nuovamente sulla sedia. Quando il mezzo prese velocità e John poté nuovamente mettersi in piedi e sporgersi dal vetro, sotto la pensilina non c’era più nessuno.

Continua...

  
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