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Autore: dreamrauhl    20/07/2012    2 recensioni
"forse un giorno mi arrenderò anche io alla mia presunta pazzia." (one-shot)
Genere: Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi rannicchiai nel letto, in posizione fetale.
Strinsi forte il cuscino a me, con le mani serrate in un pugno e le unghie conficcate nella federa, quasi a farmi male. Sentii i polpastrelli pulsare, le mani tremare, il sudore grondarmi da entrambi i lati del viso e inumidirmi i vestiti che pian piano si facevano sempre più impregnati di quelle goccioline salate.
Mi alzai di scatto, cercando di sedermi come meglio potei, asciugandomi il viso con la manica del pigiama e scaraventando il cuscino a terra, come se potesse azzannarmi da un momento all'altro.
Quando fui abbastanza lucida da realizzare che era stato solo un incubo e che non c'era nessun serpente, nessun ibrido, nessuna creatura congegnata dall'uomo per ammazzare o stritolare e uccidere chiunque in una presa più che mortale, mi diressi alla scrivania e cominciai a prendere qualche appunto su un blocchetto di fogli bianchi a righe.
Non era la prima volta che mi capitava di avere un incubo; almeno, non lo era da quando avevo ucciso quell'uomo senza nessuna pietà dopo che aveva assassinato mia madre e la mia sorellina più piccola, esattamente dieci anni fa.
Ero solo una ragazzina, una quattordicenne che assiste all'omicidio delle persone più importanti della sua vita, una quattordicenne che si vede privata dei suoi punti di riferimento e della sua ragione per continuare a camminare a testa alta noncurante degli sguardi della gente.
Ho sempre pensato che la gente mi facesse complimenti o mi dicesse frasi confortanti soltanto perché facevo loro pena, cosa che non era assolutamente nella mia lista di desideri.
Non volevo fare pena a nessuno, avevo quattordici anni, è vero, ma sin da piccolina avevo imparato a cavarmela da sola, a fare da sostegno a una madre troppo depressa e in crisi di astinenza per la mancanza della sua dose di droga giornaliera e a una sorellina troppo piccola perché potesse capire cosa vedeva accadere attorno a lei.
Non capiva che se sua madre delirava e scaraventava i vasi di fiori contro la parete era perché non aveva abbastanza soldi per comprarsi la droga, non capiva che se sua sorella aveva poco più di dodici anni e andava tutti i giorni a fare la spesa, si preoccupava di pagare le bollette e provvedere al sostentamento dell'intera famiglia era solo per donare un futuro alla sua sorellina, opportunità che lei si era già negata quando suo padre era morto in un incidente aereo lasciandola sola a pensare a coloro che amava.
Mi ricordo tutto di quella sera. Mia madre era in preda al suo solito attacco isterico, erano ormai tre giorni che non riusciva a procurarsi nemmeno la più misera dose di droga. Credevo fosse per il suo bene, invece mi sbagliavo. Stava così male che le occhiaie le arrivavano fino alle guance, gli occhi non riuscivano a chiudersi da 72 ore e parlava biascicando parole senza senso, senza un filo logico che le collegasse tra loro.
Nei pochi minuti di lucidità che l'astinenza da quelle sostanze le regalava, mi chiedeva come stesse mia sorella, Emily. Le rispodevo “va tutto bene mamma, non preoccuparti”, ma in realtà stava dimagrendo a vista d'occhio, le costole ormai erano ben visibili e persino le ossa delle guance cominciavano a farsi più evidenti, scavando il viso nemmeno fosse rimasto di lei solo lo scheletro. I soldi che mio padre aveva messo da parte per me nel nascondiglio di casa mia ormai scarseggiavano e stavamo esaurendo tutti i nostri risparmi. Facevo ciò che potevo per riuscire a guadagnare qualche soldo in più, magari lavando la biancheria per qualche anziana signora o pulendo le scale di un vecchio condominio in via di ristrutturazione. Non ero pagata affatto bene, ma era tutto ciò che mi consentiva il mio tempo libero, tenendo conto che avevo l'obbligo di frequenza a scuola e le commissioni da fare per la mia famiglia. Più volte gli insegnanti avevano richiesto un colloquio con mia madre, ma accampai meglio che potei qualche scusa per impedire di chiamare a casa o qualche eventuale appuntamento che avrebbe potuto far incontrare i professori con mia madre. Ero in evidente deperimento anche io, ormai non mangiavo più per dare la mia razione di cibo a mia sorella, aveva bisogno di crescere forte e io ero l'unica che potesse aiutarla; su mia madre non potevo contare.
Varie volte prima di andare a dormire pensai di portarla in un centro di riabilitazione e di implorare i medici di guarirla e farla disintossicare, ma poi mi balenava in mente il fatto che avremmo dovuto pagare e io i soldi non li avevo, la mia famiglia al completo non avrebbe potuto mettere da parte una tale somma di denaro.
Mentre un pomeriggio mi recavo al condominio per svolgere i miei compiti, incontrai un uomo per strada. Mi promise dei soldi per aiutare mia madre e la mia famiglia, ma a una condizione: prostituirmi. Che scelta avevo? Mi tappai la bocca con una mano per non urlare, poi indecisa annuii in un gesto che chiunque avrebbe scambiato per un tic involontario. Serrai i pugni e mi ripetei all'infinito che quello che stavo facendo era solo per aiutare mia madre ed Emily.
Andavo a dormire qualche ora al pomeriggio per poi uscire la sera, dove quell'uomo che mi prometteva soldi aveva deciso di mandarmi quel giorno.
Avevo solo tredici anni. Chiusi gli occhi talmente forte che quando li riaprii avevo davanti il nero e facevo fatica ad abituarmi alla luce fioca di una piccola lampadina appoggiata al comodino. Il mio dovere l'avevo fatto, anche quella sera, cercando di non pensare agli abusi che subivo nonostante chiunque poliziotto o giudice avrebbe giurato che quando tutto ciò succedeva io ero consenziente e se ne avessi avuto la voglia avrei anche potuto andarmene.
Uscii da quell'appartamento fuori portata dagli eventi mondani e mi diressi all'auto che mi aspettava dall'altra parte della strada. I miei soldi, volevo i miei soldi. Mia madre non reggeva più e io non sapevo più che fare.
“Te li darò la prossima volta, ancora non hai finito”, mi disse l'uomo.
Sentii quelle parole rimbombarmi nel cervello come sentissi il dolore di mille lame affilate trafiggermi le membra. No, non poteva avermi negato i soldi anche stavolta. Non di nuovo.
Scappai, era l'unica cosa che potevo fare. Sapevo che mi avrebbe preso e forse stordita con qualche calmante costringendomi a passare il resto della notte a casa di qualche altro cliente disposto a pagare una ragazzina pur di avere “compagnia”, se quello che facevo poteva essere definito così.
Fortunatamente riuscii ad arrivare a casa sana e salva, cavandomela con una spallina del vestito strappata e un tacco rotto. Salii in fretta le scale, aprendo lentamente il pomello della porta evitando di svegliare la piccola Emily, che forse a differenza mia era riuscita a chiudere occhio qualche ora.
Mi si presentò davanti agli occhi lo spettacolo più macabro che avessi mai visto: la casa era a soqquadro, i quadri di mio padre gettati a terra, strappati e con le cornici rotte; il divano ribaltato e una scia di sangue che portava dal salotto al piccolo atrio che si divideva portando alle camere.
Mi si gelò il sangue nelle vene, cominciai ad ansimare. Le gambe tremavano e le ginocchia non reggevano, ma dovevo sapere. Dovevo sapere cos'era successo.
Mi diressi verso le stanze appoggiandomi alle pareti e graffiando di tanto in tanto la vernice bianca, poiché il corpo spingeva verso il basso ma non per la forza di gravità.
Entrai prima nella camera da letto di Emily.
Un corpicino era disteso sul letto, i piedi che uscivano dal lenzuolo penzolando dal letto. Mi avvicinai, pregai Dio che stesse solo dormendo.
Spostai il lenzuolo e in preda al panico realizzai che qualcosa di quel corpo mancava.
Sì, qualcosa: la sua testa. Era stata tranciata da un colpo netto, non so di che arma.
Urlai, mettendomi le mani nei capelli e strappandomi numerose ciocche, in preda a una crisi di pianto i cui singhiozzi interrompevano le mie grida.
Uscii dalla stanza, non potevo sopportare la vista di quell'innocente creatura ridotta in quel modo. Spalancai la porta della stanza di mia madre, mi avvicinai al letto. Un braccio scendeva lungo il bordo e subito notai i tagli sul suo polso: la disperazione l'aveva portata a questo. Forse non sentiva nemmeno più dolore. Spostai anche stavolta il lenzuolo, temendo fosse ridotta esattamente come mia sorella. Invece no, il volto era rivolto verso l'alto in uno strano sorriso glorioso, assassino quasi. I suoi occhi erano dilatati, vuoti, con lo sguardo puntato verso la parete. Avrei potuto giurare che avesse ucciso lei mia sorella, se non fosse stato per i segni sul collo e per quello strano disegno sulla parete su cui cadeva lo sguardo.
Una faccia stilizzata con uno strano sogghigno accompagnata da questa frase: “tu non hai ancora finito”. Capii subito chi fosse l'autore di quella strage. Quell'uomo, di cui non sapevo nemmeno il nome.
Quanto tempo ci avevo messo per tornare a casa? Dieci minuti, forse venti?
Mi appoggiai alla parete e scivolai lungo il muro rompendomi le unghie e graffiando tutto, fino a cadere con un tonfo sul pavimento di legno. Scoppiai a piangere, ma a quanto pare tutte le lacrime che avevo in corpo mi avevano abbandonato. Cosa potevo fare? In fondo non avevo niente da perdere.
Chiamai la polizia dicendo ciò che avevo visto e me la filai, stando particolarmente attenta a non farmi trovare. Lo trovai facilmente, mi aspettava a pochi metri dal mio isolato evidentemente divertito. Sapeva che dopo lo avrei cercato, non appena avessi visto ciò che aveva fatto.
Era più grande e grosso di me, ma c'era qualcosa che mi dava tutta la forza che lui non avrebbe mai sognato di avere: la vendetta.
Gli spruzzai uno spray al peperoncino negli occhi, lo portavo sempre con me nel caso uno dei clienti avesse fatto qualcosa di azzardato facendomi rischiare la vita.
Lo spinsi a terra, facendogli battere violentemente la testa prima contro la portiera della macchina e richiudendogliela addosso e poi sull'asfalto, freddo e umido.
Infine, trovai un vecchio arnese di ferro accanto ai contenitori dell'immondizia e lo sbattei tanto violentemente contro la sua tempia che cominciò a perdere sangue a fiotti da qualunque buco avesse in viso: occhi, naso, bocca, orecchie.
Non avevo nulla da perdere, ormai tutto ciò che avevo non lo avevo più. Non avrebbe avuto senso lasciarlo in vita dopo che lui aveva tolto quest'opportunità a me e alla mia famiglia. Raggiunsi carponi la centrale di polizia nell'isolato successivo, dichiarando di aver ucciso quell'uomo e indicandogli persino dove fosse.
In quanto minore, non poterono condannarmi all'ergastolo, anche se comunque pensarono la mia fosse stata legittima difesa.
Si aggrapparono al fatto che fossi mentalmente instabile, dopo ciò che avevo subito con mia madre delirante e una famiglia da portare avanti ma soprattutto dopo aver visto i corpi di mia sorella e di mia madre ridotti a qualche brandello di carne, trattati come animali dopo il macello.
Ora sono rinchiusa in un ospedale psichiatrico e sono sicura che morirò qui, divorata dai miei incubi e senza qualcuno per cui valga la pena continuare a combattere contro i miei demoni, come cavia da laboratorio per quei medici che studiano lo shock che ho subito e che tuttora subisco mentre dormo.
Ho paura di chiudere gli occhi, temendo di venire divorata dalle stesse fauci di qualche ibrido che abbia gli occhi di mia madre o il profumo di pesca di mia sorella.
Le occhiaie me lo impongono, ma ogni notte mi sveglio allo stesso modo: grondante di sudore e in preda agli spasmi. Annoto ciò che sogno prima di dimenticarmelo dando una ragione a quei poveracci di prendere lo stipendio a fine mese.
Non avevo nulla da perdere e non ho nulla da perdere nemmeno ora, passati dieci anni da quella sera. Forse un giorno mi arrenderò anche io alla mia presunta pazzia.

  
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