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Autore: Yuri_e_Momoka    23/07/2012    0 recensioni
Avevo iniziato a sedermi al suo posto, nella sua poltrona: vederla vuota mi riempiva di malinconia e, inoltre, speravo che qualche traccia della sua intelligenza fosse assorbibile attraverso quella fodera in pelle sintetica; speravo che il mio cervello potesse lavorare più in fretta.
Se fossi stato al suo posto, mi avrebbe trovato in poche ore, e questo soltanto perché la polizia avrebbe dovuto ultimare tutta la burocrazia e mettere in atto tutte le procedure prima di agire. Se fossi stato al suo posto, a quest’ora mi sarei già trovato a Baker Street a sorseggiare caffè caldo.
La verità era che ero spaventato a morte perché stare seduto su quella poltrona non faceva di me Sherlock Holmes.
Genere: Angst, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Lestrade , Quasi tutti, Sherlock Holmes , Sig.ra Hudson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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TSS - 5 Guardai l’orologio: ancora 2 ore prima della scadenza dell’ultimatum. 1 5 H… 15 ore sarebbero state un’eternità per Sherlock.
Una volta tanto mi trovavo in anticipo a un appuntamento, davanti a un’abitazione anonima nella periferia di Londra, con l’intonaco cadente in qualche punto, le tende tirate e nessun segno di vita. Eppure le informazioni erano precise: i rapitori, i terroristi, gli assassini o qualunque cosa fossero, si trovavano lì, assieme ai loro ostaggi, ai loro fornitori personali di minacce sotto forma di carne.
Mentre attendevamo in una macchina scura e incognita, con la tensione a sorreggerci le schiene, con i respiri a scandire i secondi, mi ero preparato a ciò che avrei trovato all’interno di quella casa: attrezzi raccapriccianti, sangue, il suo, Sherlock senza dita, forse senza una mano o senza un piede o un orecchio. La verità era che non mi interessava minimamente quali atrocità avessi trovato e quanto orribilmente fosse stato mutilato, fintanto che avesse avuto ancora la testa attaccata al resto del corpo.
Dall’auto sull’altro lato della strada il poliziotto seduto di fianco al sergente Donovan fece un impercettibile cenno; la radio di Lestrade goglottò e in un attimo dieci uomini si riversarono fuori dalle macchine sparpagliate e circondarono la casa con le armi in pugno. Io, ovviamente, ero tenuto nelle retrovie, ma non mi perdevo il più piccolo movimento, stringendo la mia pistola con due mani.
Gli agenti non bussarono e non intimarono la resa: uno di loro aprì la porta con un calcio, altri due lo seguirono per verificare la sicurezza della stanza e poi, improvvisamente, ci ritrovammo dentro a correre dappertutto, rasentando i muri come topi.
Si capiva subito che quello era il posto giusto: la casa era sporca e trascurata, permeata dalla polvere a da un disgustoso odore di marcio: sangue e decomposizione.
Le porte sbattevano per tutta la casa, da ogni stanza provenivano le voci dei poliziotti che dichiaravano quella zona libera e sicura. Corsi in cantina assieme a Lestrade e Donovan e ci ritrovammo in quello che sembrava il laboratorio di un macellaio o di un chirurgo improvvisato: i muri dell’ambiente, umido e freddo, erano ricoperti di gommapiuma, per attutire i rumori – immaginavo, soprattutto le urla; vi era un bancone degli attrezzi che mostrava una collezione di oggetti taglienti, seghe, coltelli e pinze, alcuni ancora macchiati di sangue come gli stracci abbandonati sul pavimento sporco. Qua e là siringhe usate e boccette rotte di penicillina, ovunque l’odore penetrante della formaldeide. Sul lato più lontano dalla strada era appoggiato un tavolo operatorio, coperto da un ammasso di lenzuola insanguinate. Impiegammo pochi istanti a capire che quegli stracci seguivano il profilo di un corpo umano. Da un’estremità si intravedevano uscire dei capelli scuri, dall’altro un piede talmente menomato e incrostato di sangue da essere quasi irriconoscibile. Colui che apparve sul tavolo, dopo aver scostato le lenzuola, era invece riconoscibilissimo: quel volto corrispondeva alla foto che avevo visto di Eduardo Lucas.
Se erano stati fatti dei tentativi per limitare le infezioni, avevano dato risultati molto deludenti: il fetore della cancrena ci investì, risalendo da quel corpo che non ero nemmeno sicuro fosse ancora vivo. Ma non era ciò che stavo cercando. Sentii Donovan richiedere un’ambulanza dalla sua radio e forse Lestrade chiedermi di aiutarlo a fare qualcosa. Alzavo e ribaltavo tutto ciò che potevo, aprivo ogni porta e ogni armadio, senza pensare minimamente alle prove che avrei potuto distruggere. Tutti i miei danni furono vani perché in quella casa e in quella cantina non c’era nessun altro.
«John!» gridò Lestrade per l’ennesima volta. «Dobbiamo tenerlo vivo finché non arrivano i paramedici, sbrigati e vieni a fare qualcosa!»
Sapevo perfettamente cosa. Scostai Lestrade e mi chinai sopra al volto di Lucas, incurante di tutto il sangue infetto e dei suoi occhi vitrei.
«Dov’è? Dove si trova?!» gridai per essere sicuro che mi sentisse bene. Lo presi per una spalla ridotta pelle e ossa. «Dov’è Sherlock? Perché non è qui?!»
«Non ti dirà niente se non rimane vivo, John!» esclamò Lestrade cercando di spingermi via.
Lucas non mi avrebbe più risposto in ogni caso.
Gridai per la frustrazione.
 
Brixton. Era lì che si trovava la sede dei rapitori, l’altra casa era solo la loro prigione e il loro mattatoio personale. Lucas l’aveva sussurrato a Lestrade prima di morire di setticemia in quel luogo da incubo. Ciò che non aveva fatto in tempo a rivelare, invece, era dove si trovasse Sherlock.
Quando raggiungemmo Brixton le due ore erano già scadute e io avevo vissuto l’arresto come una successione di fotogrammi al di là di un vetro di disperazione: quella casa era perfettamente pulita, non una traccia di sangue, né di Sherlock.
L’interrogatorio pressante a cui erano stati sottoposti i tre uomini – due francesi e un inglese – aveva permesso alla polizia di scoprire qualcosa in più su quell’organizzazione che, se riferita ai loro numerosi precedenti casi, non era nuova a Scotland Yard. Ma non vi fu il benché minimo riferimento a James Moriarty o a Sherlock Holmes; giuravano di non aver mai sentito parlare né dell’uno né dell’altro. Sembravano entrambi fantasmi di miti mai esistiti.
Mi sentivo letteralmente immerso nel fallimento: una pesante e appiccicosa cortina scura mi impediva di muovere qualsiasi passo verso una zona più luminosa. Non avevo più altro scopo nella vita che stare seduto in quella sala d’attesa del Bart’s, vicino all’obitorio, dove il cadavere di Lucas aveva rivelato ciò che già sapevamo, ovvero praticamente niente.
Avevo sempre tenuto in considerazione il fatto che sia io che Sherlock avremmo potuto perdere la vita in uno di quegli sconsiderati inseguimenti in cui ci gettavamo senza riflettere, oppure durante un’emozionante sparatoria contro il criminale appena scovato o colpiti da un cecchino che decideva di vendicarsi. Probabilmente avrei accettato più di buon grado la sua morte se fosse avvenuta così, improvvisamente, nel mezzo dell’azione in cui vivevamo e di cui ci nutrivamo entrambi; ma convivere col fatto che fosse morto a causa della mia inadeguatezza non era possibile.
Un passo leggero avvolto da calzature ospedaliere si fermò di fronte a me. Non alzai lo sguardo ma intravidi dei piedi familiari e delle calze colorate e infantili.
«John…» Molly si asciugò discretamente il naso, «sappiamo che hai fatto tutto quello che hai potuto e che non è colpa tua. Lo sa anche lui. La polizia continuerà a cercare!»
Se era morto, lui sapeva solo che non sono stato capace di salvarlo, ma non era il caso di esprimere quell’amaro pensiero ad alta voce. Molly cercava di consolarmi ed io ero stanco. Annuii per farle capire che apprezzavo il gesto, lei cercò di recuperare un po’ di allegria offrendomi un tè e si allontanò per andare a procurarselo.
C’era un inusuale silenzio in quel luogo remoto dell’ospedale; avvicinandosi ai morti la gente si sentiva in dovere di abbassare il tono della voce, come se si potessero svegliare. Se ciò fosse stato davvero possibile, avrei gridato con tutto il fiato. Ma la mia vita non era fatta di grida e chiasso: era fatta di intuizioni, di sussurri e di occhiate complici, di codici decifrati, di respiri trattenuti prima di uno sparo e di quelli soffocati nel buio di un nascondiglio; di quelli liberati in un’improvvisa ammirazione e di quelli esasperati in un attimo di rivalità. D’ora in avanti la mia vita sarebbe stata ancora più silenziosa.
Approfittai della solitudine per prendere in mano il telefono e fare qualcosa di cui altrimenti mi sarei vergognato. Premetti lentamente sui tasti, indugiai sulla tastiera accarezzandola col pollice in un momento di esitazione, poi inviai il messaggio. Appena in tempo, perché una mano robusta si appoggiò sulla mia spalla facendomi sussultare.
«John» salutò Culverton Smith, aggirando la fila di sedie e sedendosi di fianco a me. Avvertii indistintamente qualcosa di sgradevole che mi fece allontanare di qualche centimetro. Il dottore estrasse le mani dalle tasche del camice e le intrecciò in grembo, senza dire altro.
Non apprezzavo quella presenza invadente, in quel momento, per cui trovai qualcosa di cui parlare e con la quale fare terminare quell’incontro casuale. «Non c’era niente di interessante sul corpo di Lucas?»
Smith sospirò pesantemente, guardando il vuoto. «Nessun indizio, se è quello che vuole sapere: palese presenza di batteri da infezione, parecchie tracce dei materiali in cantina e formaldeide qua e là. Dev’esserci entrato in contatto attraverso gli oggetti nella stanza.»
In quel momento ricollegai quella sensazione sgradevole che avevo provato all’odore sulle mani del dottore. «Formalina» riconobbi, «hanno fatto passi avanti con le ultime imbalsamazioni…»
No. C’era qualcosa che non tornava: nella cantina avevo trovato solamente barattoli di formaldeide, non c’era nessuna traccia di formalina, la sua versione più evoluta, né nelle confezioni né nelle siringhe che avevo trovato. Però i resti di Sherlock erano stati trattati con la formalina.
Era indubbiamente formalina, come lo era quella che sentivo provenire dal dottor Smith, un ricercatore che trascorreva la maggior parte del suo tempo in laboratorio, che possedeva una grande varietà di conoscenze tecniche ma che non aveva bisogno di metterle in pratica.
Alzai gli occhi e notai che mi stava guardando.
«Formaldeide, volevo dire» mi corressi, sentendo la bocca inaridirsi all’improvviso.
«Già» concordò lui, senza staccarmi gli occhi di dosso.
Un brivido lungo la spina dorsale mi portò un’ispirazione. «È meglio che me l’appunti. Avrebbe una penna?»
«Oh! Uh… certo.» Si tastò le tasche sul petto senza risultato, ripiegando su quelle dei pantaloni ed estraendone, infine, una penna corta. Avevo un vecchio scontrino in tasca, ma non aveva molta importanza dove stessi per scrivere. Quando il pennino raffinato scorse sulla carta lasciò dietro di sé una spessa scia di particolare inchiostro verde.
Trassi un lungo, profondo respiro: non era il caso di lasciarsi andare a qualcosa di avventato, prima bisognava riflettere, prendere in considerazione le variabili, escludere le possibilità. Questo era ciò che avrebbe sicuramente fatto Sherlock Holmes. Non io.
«Lui dov’è?» Mi rivolsi al dottor Smith cercando di incatenare il suo sguardo al mio. Volevo apparire determinato, e lo ero; volevo incutergli timore, volevo che sapesse che il rispetto della legge, in quel momento, era l’ultima delle mie priorità e che ero pronto ad afferrargli il collo e stringerlo finché non avesse parlato.
«Lui?» domandò Smith simulando sconcerto.
«Mi porti subito da lui» intimai avvicinandomi minacciosamente, facendogli capire che quella era la sua ultima possibilità di ubbidire senza nessun osso rotto. Non afferrò il messaggio.
«Questo atteggiamento minaccioso è del tutto ingiusti-» Gli afferrai il colletto della camicia, osservai il colore del suo viso virare al rosso, avvicinai pericolosamente la punta della penna al suo occhio sinistro.
«Lei mi porterà immediatamente nel luogo dove si trova Sherlock Holmes, o io l’accecherò, le caverò gli occhi e la torturerò finché qualcuno non mi sparerà in testa, ma consideri il fatto che a quell’ora lei sarà probabilmente già morto!»
Udii un rumore poco distante: un bicchiere di plastica era caduto a terra spandendo il proprio contenuto fumante; Molly Hooper era spuntata dal corridoio assistendo alla scena con gli occhi spalancati.
«J-John?»
«Lui sa dov’è Sherlock, Molly!»
«No, io-» Strattonai il colletto.
«Lo sa.»
Molly si guardò alle spalle con inaspettata determinazione. «Ti copro io, John.» Svanì nuovamente correndo dietro l’angolo.
«L’arresteranno per questo» disse Smith, in un tentativo di minaccia.
«Mi porti da lui e vedrà che ci arresteranno insieme, a me non importa, ma forse lei potrà risparmiarsi un paio d’anni di prigione.»
Smith spostò lo sguardo da una parte all’altra. «Mi lasci e lo farò.»
Allentai solo un poco la presa, per permettergli di muoversi, poi lo feci alzare. L’avrei tenuto così anche per chilometri e chilometri, anche se Sherlock si fosse trovato in Francia o in Cina. Mi sarebbe dovuto interessare cosa ne avesse fatto e perché proprio lui, quale storia vi fosse sotto, quale ipotetica vendetta o rancore l’avesse spinto a fare una cosa del genere; ma non m’importava.
Il dottor Smith, accompagnato dalla mia solida stretta, svoltò l’angolo a sinistra. Non ci stavamo dirigendo all’uscita dell’ospedale; significava che Sherlock era lì? Era davvero così vicino? Vidi, appesi ai muri, la segnaletica che conduceva alle scale. Imprigionato nei sotterranei, magari? Chi visita mai i sotterranei di un ospedale? Avremmo potuto setacciare tutta Londra prima di prendere in considerazione quel posto.
Superammo le scale. Tenevo ancora il dottore per il colletto, costringendolo a tendere la schiena, e allo stesso tempo gli stringevo un braccio. Non provai nemmeno a pensare di cosa mi avrebbero potuto accusare, non mi importava.
Iniziai ad irrigidirmi a mia volta, a mano a mano che ci avvicinavamo alla fine del corridoio: in quella direzione c’era solamente la sala dell’obitorio. Dovevamo aver sbagliato strada.
«Non faccia scherzi, Smith» gli sussurrai con uno sfarfallio di panico che avrei voluto restasse celato.
«Nessuno scherzo» replicò seccamente, «è qui.»
Ci fermammo di fronte alla porta pallida, un sommesso vociare più distante aumentò la mia agitazione. Avrei dovuto spingerlo dentro per evitare di essere visti, temevo che Molly non riuscisse a tenerci lontano da possibili spettatori, ma allo stesso tempo…
«Non le interessa più?» fece Smith, brusco. «Allora le dispiace lasciarmi andare? Ho del lavoro di cui occuparmi.»
«Silenzio ed entri» lo incoraggiai con una spinta.
Avevo sperato che, una volta entrati, la stanza si fosse trasformata in qualcos’altro, una sala d’attesa, un bar… avevo sperato di aver sbagliato a leggere la targa all’esterno e di essermi orientato male all’interno dell’edificio, ma gli alti, profondi scaffali che si addossavano alle pareti, divisi in scomparti ed etichettati, i tavoli di metallo e il violento odore misto di disinfettante e morte mi privarono di ogni dubbio e di ogni speranza. Lasciai vagare lo sguardo sui nomi impressi sui cubicoli senza riuscire a soffermarmi su nessuno di loro.
Mi accorsi tardi di aver allentato la presa su Smith, il quale si divincolò con facilità. Pensai che avrebbe colto l’occasione per colpirmi e scappare, invece si limitò a incrociare le braccia con atteggiamento offeso e a guardare verso l’angolo più lontano.
«Pretendo di ricevere un extra per questo trattamento.»
«Anch’io avevo sperato che la conclusione sarebbe stata più cerebrale.»
Dall’angolo remoto e buio era giunta una terza voce intrusa. Mi era rimbombata nelle orecchie come se si fosse trovata nella mia testa, l’unico luogo, tra l’altro, in cui credevo di poterla ancora udire.
Bastarono un paio di passi e Sherlock si svestì delle ombre che l’avevano tenuto nascosto.
«Adesso lasciaci» disse ancora, rivolgendosi a Smith, ma con gli occhi fissi su di me.
«Va bene, ma fate in fretta, stanno per portare un altro paio di cadaveri.» Si interruppe e rise, come se si fosse ricordato di una battuta divertente. «Tre, forse, a giudicare dalla faccia del dottor Watson!»
Udii ancora la sua risata allontanarsi e la porta che si chiudeva alle sue spalle.
Sherlock stava immobile e muto, come aspettandosi che fossi io a parlare, come se fosse il mio turno di agire; ma non potevo fare niente, non sapevo più cosa pensare e mi sentivo immerso in un’atmosfera sinistra. Sherlock era di fronte a me, vivo, in un luogo dove ogni cosa, soprattutto lui, avrebbe dovuto essere morta. Teneva le mani nelle tasche del cappotto e dovetti combattere con forza l’impulso di afferrarle tra le mie per rendermi conto dei danni, accertarmi di quante dita avesse ancora, capire se avesse bisogno di medicazioni. C’era qualcosa, nella sua espressione calma che mi diceva che quello non poteva essere un uomo al quale avevano appena amputato delle dita, né che era stato rapito, tenuto prigioniero e torturato. La risata del dottor Smith continuava a riecheggiare in quella stanza metallica come una tetra eco. Mi rendevo conto di essere di fronte a qualcosa che non avevo capito e che ogni mia mossa avventata non mi avrebbe procurato altro che umiliazione.
Come in risposta al mio desiderio, Sherlock estrasse le mani dalle tasche: erano intatte e perfettamente sane, nessun dito mancante e nessuna ferita, pallide, forti e affusolate come al solito. Improvvisamente i miei ricordi parvero stridere con la realtà, iniziai a domandarmi se quelle che avevo visto scivolare fuori dai pacchetti potessero davvero assomigliare alle dita di Sherlock. Sicuramente non lo erano.
Sentivo un’invadente felicità risalire fin dallo stomaco, ma il dubbio, lo sconcerto e persino la rabbia che si accumulavano via via nel mio petto le impedivano di fuoriuscire.
«Hai risolto il caso grazie agli odori, John. Ho sempre detto che gli odori sono importanti.»
Non risposi. Non potevo, non capivo. Non volevo. La sua indifferenza di fronte al mio disorientamento mi rendeva furioso.
«Sapevo che non l’avresti risolto con i miei stessi metodi, per questo ho cercato di metterti a disposizione molte strade diverse. Due odori diversi, due casi diversi. È stato… istruttivo, no?»
Istruttivo? Forse avrebbe persino voluto dire divertente?
«Anche se, tecnicamente, non avresti risolto il secondo caso: il tempo era già scaduto…»
«Che diavolo significa?!» La mia voce sovrastò la sua, la mia rabbia e la mia frustrazione esplosero in un istante senza che potessi controllarle e avevano ormai via libera.
«Non è il luogo giusto per alzare la voce, John.»
«Ed è il luogo giusto per riapparire dopo avermi fatto credere di essere morto per colpa mia?»
Fece una pausa, non per riflettere, ma per permettere al rimbombo della mia voce di  posarsi al suolo come polvere inutile. «Sì.»
Il mio respiro si fece pesante nel tentativo di frenare un altro sfogo che si tradusse in una risata debole e incerta.
«Ma sbagli a dire che sarei morto per colpa tua, John; sarei morto per via del mio assassino. I casi non vanno presi sul personale. Il messaggio che mi hai mandato…»
«Cancella quel messaggio, dannazione!»
«Perché dovrei? L’hai mandato a me.» Prese il suo telefono dalla tasca dei pantaloni e lesse: «Mi dispiace davvero – John. Toccante, ma del tutto superfluo.»
Un gioco. Per lui era sempre un gioco, persino quando si trattava di me: era un gioco quando si era alleato con Culverton Smith per manomettere i risultati delle analisi, ed era un gioco anche il riapparire all’improvviso senza spiegazioni e scoprire quale sarebbe stata la mia reazione. Stava cercando un modo originale per vantarsi delle sue facoltà? Ora avrebbe avuto tutti gli spunti che voleva per criticare le mie capacità di ragionamento di fronte all’ovvietà e per sfoggiare come lui avesse risolto il caso in soli 3 minuti, mentre io avevo brancolato come un disperato, sovraccaricato da ansia, paura, affetto, determinazione e poi di nuovo terrore, ostacolato da me stesso, dal mio essere umano. Ma continuavo a non capire lo scopo di tutto ciò e mi rassegnai all’ottenere qualche forma di dispiacere da parte sua.
Non potei guardarlo negli occhi, avvertivo lo spiacevole tarlo della delusione in me. «Perché l’hai fatto?» domandai dopo aver pensato: ‘Perché hai fatto questo a me?’
«Per allenarti, John.»
Non capivo perché continuasse a ripetere il mio nome in quel modo; forse per farmi calmare, come una specie di mantra. In qualche modo sembrava funzionare, anche se dentro di me continuavo ad avvertire un’orribile sensazione di delusione e abbandono.
«Era qualcosa che andava fatto, dovevi capire certe cose, prepararti al futuro.»
Continuavo a non capire. Non mi importava più.
«Era un caso estremamente semplice, ma bisognava saper riconoscere gli indizi importanti da quelli piazzati per depistare. Avevo già avuto a che fare con questo gruppo di individui, in passato. Commettono crimini di solito di natura politica – prediligono in assoluto la vendita di informazioni confidenziali di alte cariche, segreti di Stato, e simili – e poi fanno ricadere la colpa su gruppi terroristici o associazioni a delinquere che sono, in genere, troppo ampie per essere setacciate da cima a fondo, facendo perdere le loro tracce mentre la polizia, stupidamente, perde tempo interrogando tutti gli anarchici del paese.»
Una volta tanto, non mi interessava conoscere le geniali intuizioni di Sherlock Holmes; per quanto fossi furioso, per quanto mi sentissi usato e umiliato, non potevo fare a meno di pensare che non era mai stato in pericolo. Il sollievo mi liberò, in piccola parte, dalla mia rabbia.
«Era evidente che questa volta avessero commesso un passo falso per punire uno di loro che si era infiltrato nel governo britannico. I riferimenti agli anarchici erano assolutamente deboli – quel graffito, per esempio, era del tutto fuori posto – ma la polizia non l’ha saputo capire, come al solito. Tu ce l’hai fatta in qualche modo, alla fine. È bastato fare una visita a casa di Lucas per poter ricostruire ogni cosa. Il profumo, unico oggetto femminile, denotava una relazione segreta; il fatto che Lucas svolgesse il lavoro di traduttore, ma che in casa non avesse nulla che facesse riferimento alla Francia – nonostante tutti quei cimeli inutili –  nemmeno un dizionario, mi ha fatto pensare che nascondesse qualcosa, la sua relazione o addirittura una doppia vita. Tutte queste sono rimaste supposizioni finché non ho visto il quaderno: la polizia avrà pensato che fossero scarabocchi, vero? Omini stilizzati che ballavano. Era un codice, e nemmeno troppo difficile. L’ho fotografato e l’ho decifrato in meno di una notte, bastava avere un po’ di pazienza. Si trattava di informazioni private su Trelawney Hope e sui suoi confidenti che Lucas spediva regolarmente a suoi complici, i quali potevano rivenderle. Era chiaro che avesse deciso di smetterla con questi affari pericolosi, visto che era stato rapito. I suoi complici volevano probabilmente estorcergli le ultime informazioni: l’hanno torturato e, per coprire il rapimento, hanno avuto la pittoresca idea di simulare l’attacco di un gruppo anarchico ad alcuni Paesi europei, mandando pezzi qua e là, credendo di risultare credibili spedendoli solo alle monarchie, ma commettendo errori grossolani che, alla fine, anche tu hai saputo cogliere. Hanno capito tardi che tutte le informazioni scritte in un codice facilmente decifrabile si trovavano ancora nell’appartamento, che però era sotto sorveglianza e che non avevano tempo di perlustrare, così hanno pagato profumatamente una ditta di traslochi che si intrufolasse e portasse via qualunque cosa, liberandosi così di tutte le prove che potessero condurre a loro. A questo punto bastava scoprire i nomi, il metodo che hai usato tu era-»
«Cosa c’entravi tu, in tutto questo?» Non mi interessavano i magri complimenti alle mie rare intuizioni, non mi importava sapere come tutti gli indizi si fossero trovati a mia disposizione, né quanto tempo avessi sprecato cercandoli inutilmente. Le sue spiegazioni erano solo un brusio di sottofondo alla mia domanda ridondante.
«Il caso era risolto e c’era un sacco di materiale con cui impegnare la tua mente poco allenata.»
«Capisco. Il caso era così noioso, per te, che hai deciso divertirti usandomi come cavia e osservandomi cercare di uscire dal labirinto?»
«Non è stato divertente» rispose lui, con un’ingenuità talmente sincera da farmi irritare ancora di più, «mi sono annoiato ad aspettarti, e non mi piace indossare gli stessi vestiti per tanto tempo. Ho cercato di metterti fretta con quel messaggio, ma 15 ore erano comunque un’eternità.»
«Non eri davvero malato… vero?» Ormai iniziavo a intuire come tutto ciò che era accaduto fosse stato orchestrato per i suoi scopi.
«No. Volevo un po’ di tempo da solo per organizzare le cose con Smith.»
Quindi Moriarty non c’entrava niente. Sherlock aveva preso il suo posto.
«E Mycroft… non sembrava molto preoccupato.»
«L’avevo avvertito precedentemente in modo che non ficcasse il naso.»
Distesi e contrassi la mano sinistra, così combattuto dal desiderio di prenderlo a pugni e di abbracciarlo allo stesso tempo da avere le braccia formicolanti. Abbracciarlo, sì, avrei voluto farlo. Due persone normali l’avrebbero fatto dopo un’avventura simile, ma Sherlock aveva l’innata – o forse allenata – capacità di eliminare in me ogni tipo di razionalità. Alla fine mi rassegnai, era la soluzione migliore. Non ero in grado di sostenere una prova di resistenza con la mente di Sherlock Holmes.
Mi stava ancora scrutando, cercando di indagare all’interno della mia mente, forse chiedendosi perché non rispondessi, perché avessi rinunciato ad arrabbiarmi, perché non fossi rimasto sorpreso dalle sue brillanti deduzioni. Cercava di capire quale sarebbe stata la mia prossima mossa. Forse ero l’unica persona in grado di sorprenderlo, perché il più delle volte, quando ero con lui, sorprendevo addirittura me stesso.
«Era un addestramento» constatai infine, come se volessi giustificarlo. Non avrei dovuto farlo, non meritava il perdono, non così in fretta, ma c’era sempre una parte, dentro mi me, che voleva difenderlo. «Gli addestramenti sono sempre difficili, alle volte crudeli.»
Trassi un profondo respiro. Era tutto finito, avrei potuto far finta che non fosse accaduto niente, ma non era quello lo scopo di un addestramento.
Sherlock si avvicinò a me per la prima volta – forse aveva davvero temuto di essere colpito.
«Sei stato… bravo, John. La prossima volta sarai più veloce.»
Ero sicuro che un giorno mi sarei pentito di quel pugno mancato.
«Se proverai a rifarlo, ti ucciderò, Sherlock.»
 
**
 
«John!»
Il ricordo sfuma in una luce abbagliante e poi in quella del tramonto. Il sole sta calando e il tè, rimasto intatto nella tazza, è ormai freddo.
«John, fissi il vuoto da 5 minuti. Cosa c’è che non va?»
I capelli di Mary ardono di tramonto, ma le ombre nella casa iniziano già ad allungarsi; il tempo ricomincia lentamente a scorrere, la vita riprende pigramente, presto tornerà frenetica, ma io sono giunto a un bivio e l’ho finalmente superato. Un solo attimo si è rivelato un’epifania.
«Cosa c’è che non va?» ripete Mary, scrutandomi dall’altro capo del tavolo, facendo il tentativo di allungare le mani nella mia direzione.
Riemergo dai ricordi, ritrovo i miei pensieri e le mie parole, come dopo una lunga immersione.
«Io credo… credo che Sherlock sia vivo.»
   
 
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