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Autore: turnright    23/07/2012    7 recensioni
A volte credere nel "per sempre" è la cosa più sbagliata che tu possa fare, a volte invece si può rivelare un investimento che valeva la pena di essere fatto.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Non mangia da giorni» gli disse il medico con in mano le analisi di Cassie. «Soffre di disordini alimentari, è sottopeso». Nick girò la testa per guardare verso la ragazza, la piccola finestra sulla porta chiusa la lasciava intravedere sdraiata sul letto. Finito di parlare con il medico entrò nella stanza chiudendosi la porta alle spalle.
«Ciao» disse buttandosi di peso nella sedia vicino al letto.
«Sto bene» rispose dopo qualche secondo. Non riusciva a sostenere il suo sguardo neanche per un nanosecondo, si sentiva scoperta dei suoi segreti, delle sue paure. Lui non sapeva niente di lei eppure adesso era come un libro aperto che non voleva essere letto né aperto ma che non riusciva a chiudersi.
«Cassie..» pronunciò solo il suo nome lasciando il resto della frase all’immaginazione.
«In ogni caso non sono cose che ti riguardano» rispose cercando di mettersi a sedere senza risultato.
«Non riesci neanche a metterti seduta e vuoi dirmi che stai bene? Sei svenuta, non stai bene» disse Nick alzando la voce.
«Non sono affari tuoi, limitati a goderti la tua vita da superstar con la tua bellissima ragazza» disse con l’intento di sputargli addosso le parole come fossero proiettili.
«Ti ho portato io all’ospedale, ho parlato io col medico, sono diventati ufficialmente affari miei» rispose, più calmo questa volta. Cassie continuò a guardarlo in silenzio, si aspettava che continuasse a parlare, si aspettava le domande, i perché e i come che lei conosceva alla perfezione ma che non aveva mai detto a nessuno. Per alcune persone parlare di se stessi, confidarsi è facile come bere un bicchiere d’acqua, per altre è difficile come ingoiare un mattone. Parlava sempre di se stessa con se stessa, si confidava da sola, si teneva ogni piccolo dolore per sé e chiunque si sarebbe chiesto come faceva a tenersi tutto dentro. Le persone per natura hanno bisogno di parlare, lei semplicemente ignorava questo bisogno fino a sopprimerlo del tutto. Col tempo alcuni dolori avevano finito per logorarla dentro ma lei faceva finta di niente e ci riusciva bene. Quando si creava un buco nel vestito che la sua anima era si metteva semplicemente seduta con ago e filo e cercava di rattopparlo, senza l’aiuto di nessuno. Prendeva precauzioni adatte per non fare cadere la toppa e indossava un bel cappotto pesante in modo che nessuno si accorgesse di quello che stava accadendo dentro. Non l’aiutava o faceva stare meglio ma almeno era consapevole di non aver bisogno di nessun’altro, non dipendeva da un’amica o da un ragazzo e aveva giurato di non dipenderne mai.
«Devo chiamare i tuoi genitori» disse d’un tratto. Era l’ultima cosa che si sarebbe aspettata di sentire.
«Non è il caso» rispose cercando di sembrare il più tranquilla possibile, immaginava già John venirle addosso mentre si lamentava perché per colpa sua aveva perso qualcosa di importante alla televisione e sua madre assecondarlo in tutto pur di non perdere ancora qualcuno.
«Sei in ospedale, io dico che è il caso»
«NO» ribattè Cassie alzando la voce prima che potesse dire altro. Nick la guardò con sguardo severo per qualche secondo ma subito dopo si arrese, avrebbe voluto fare delle domande ma sapeva che per ognuna di queste non ci sarebbe stata nessuna risposta. Rimase, quindi, seduto sulla poltrona in silenzio mentre qualunque cosa le stessero somministrando tramite la flebo le faceva riacquistare un minimo di forze che comunque non bastavano. Era come se tra i due ci fosse una corda di violino tesa, bastava un movimento sbagliato per farla rompere ma quando l’archetto toccava il punto giusto questa suonava alla perfezione, una melodia unica nel suo genere. In questo momento di silenzio assoluto in cui l’unico rumore era il “bip” della macchina che segnava il continuo battito del cuore di Cassie il violinista si scervellava su quale punto fosse meglio poggiare l’archetto. Il primo violinista si buttò lasciando suonare l’istinto.
«Puoi andare se vuoi, non sei obbligato a rimanere» nel tono della sua voce c’era solo stanchezza.
Passarono un paio di minuti prima che la risposta uscisse dalle sue labbra «Rimango».
Non era suo amico, né il suo ragazzo, né un medico, né una persona irrimediabilmente affezionata a lei eppure passò la notte d’osservazione lì a tenerle compagnia. Non erano più di due conoscenti che il caso aveva fatto incontrare più e più volte, niente l’obbligava a passare la notte in ospedale seduto su una scomoda poltrona ma lo fece. Nel silenzio dell’ospedale Cassie si addormentò facilmente, sicuramente meglio di come avrebbe fatto se fosse stata a casa sua. Nick la seguì a ruota pochi minuti dopo e la notte passò.
La mattina seguente il profumo dei dolci di starbucks introdotti nella sua stanza la svegliò, le sembrava di essere ritornata piccola quando ogni domenica suo padre la svegliava così, portandole la colazione a letto. Sentì qualcuno sedersi ai piedi del letto. Aprì gli occhi e una parte di se stessa si sarebbe aspettata davvero di svegliarsi in quello che una volta era la sua camera confortevole con suo padre ai piedi del letto che le mostrava la busta con la colazione ma quando si rese conto di dove si trovava tutti i suoi sogni svanirono accompagnati da uno di quei sonori “bip”. Invece di suo padre il posto ai piedi del suo letto era occupato da Nick che come il suo olfatto suggeriva teneva in mano la colazione appena comprata.
«Hey» disse lui vedendo i suoi occhi aprirsi.
«Hey» rispose con un filo di voce. Cercò di mettersi seduta e sta volta ci riuscì, ieri l’avevano nutrita endovena per ridarle un po’ di forze e soprattutto perché avevano paura si potesse rifiutare di mangiare o rigettare il tutto, cosa che non escludeva avrebbe potuto fare.
«Ho portato la colazione» posò la busta contenente i dolci sul vassoio apposito e lo trascinò vicino al letto in modo che tutti e due potessero mangiare usufruendone.
«Non ho fame» mentì spingendo la busta verso di lui e allontanandola il più possibile da se. Nick ignorò del tutto la sua affermazione e le porse un brownie su un tovagliolo. «Mangia» disse infine quando si accorse che Cassie non aveva intenzione di toccarlo neanche con la punta delle dita. Avrebbe fatto di tutto purché lui la smettesse di fissarla in quel modo, come una malata con un bisogno disperato di aiuto. Prese, quindi, il dolce tra le mani e gli diede un morso. Con un sorriso compiaciuto Nick addentò il suo. Dentro Cassie la voce che l’aveva fin’ora indotta a non mangiare le urlava di smettere, che stava mandando a puttane tutto il lavoro fatto fin ad adesso, mentre la voce più debole sorrideva compiaciuta, esattamente come faceva Nick davanti a lei.
«I medici sono convinti dovresti entrare in riabilitazione, almeno per un po’ e non nego di esserne convinto anche io» disse lui interrompendo il silenzio che la colazione aveva procurato.
«Non ho nessun problema per cui occorra andare in riabilitazione, posso cavarmela» disse questo con tutta la convinzione che aveva in corpo.
«Questo dimostra solo quanto tu invece ne abbia bisogno» rispose pulendo il vassoio dalle briciole e buttando il tutto nel cestino.
«Ho passato la notte in osservazione, ho mangiato, non accadrà più quello che è successo ieri» disse alzando il tono della voce, voleva mettere un punto definitivo a quella storia.
«Non ti credo» rispose rimettendosi seduto nella poltrona che l’aveva ospitato quella notte.
«Non importa, che tu lo voglia o no oggi torno a casa» disse alzandosi dal letto in cerca dei suoi vestiti.
«Ti hanno fissato un consulto con lo psicologo dell’ospedale, prima non puoi andare da nessuna parte» disse. Al suono di quelle parole Cassie fermò la ricerca dei vestiti, parlare con uno psicologo non era lontanamente nei suoi programmi. Non capiva come le persone potessero affidare con tanta naturalezza la loro intera vita, fatti personali e non, ad un estraneo. Era come andare in giro con una scatola contenente tutta la propria vita, momenti brutti e belli, per poi consegnarla ad un semplice estraneo con tanto di ricompensa monetaria per tenerla in custodia. Consegnare quella scatola per lei sarebbe significato ammettere che non poteva farcela da sola, che aveva bisogno di parlare, e non l’avrebbe fatto neanche se fosse stato lo psicologo stesso a pagare lei. Aveva passato anni a nascondere la sua scatola in un posto sicuro, dove nessuno sarebbe arrivato, protetto da tutto e tutti e non vedeva nessun motivo valido per disseppellirla adesso, con un estraneo possedente una laurea. Quei discorsi continuavano a girare nella sua mente inutilmente, cercando una soluzione alternativa a ciò che stava per fare che se c’era era nascosta fin troppo bene.
«Facciamo in fretta» disse infine sedendosi di nuovo sul letto. Varie storie credibili le comparsero in mente, andavano bene tutte, tranne la sua. Immaginò la storia che aveva scelto passo per passo, anno per anno, in modo da essere il più credibile possibile. Si immedesimò nella parte come ci si aspetta da un’attrice di Hollywood. Era pronta per aprirsi e raccontare ogni istante della sua non-vita. Nick non fece in tempo a dire che sarebbe arrivato a momenti che la porta si aprì.
«Posso parlare con lei da solo?» disse il medico dagli occhi azzurri, Nick annuì e uscì dalla porta esattamente come era entrato qualche ora prima con in mano la colazione.
Passati i convenevoli, lo psicologo fece a Cassie delle domande specifiche, quelle che aveva sempre avuto paura qualcuno le ponesse ma con la più totale naturalezza la ragazza impersonò il personaggio prescelto nella sua testa. A volte si bloccava guardando quegli occhi così simili a quelli del padre, ripensava a quante volte li aveva guardati con ammirazione e gioia. Quegli occhi che per sette anni l’avevano accompagnata in giro per New York, che l’avevano guardata e consolata, quegli occhi che erano stati testimoni delle ultime parole e di quel “per sempre” irreale. Lo psicologo la riportava sempre alla realtà ripetendo la domanda o facendole un piccolo segno per mostrarle che si trovava su un altro universo. L’ora passò, le domande finirono e con queste anche le risposte inventate.
«Puoi portarla a casa anche se va comunque controllata» disse lo psicologo a Nick uscendo dalla stanza. Cassie si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. “Sono davvero una brava attrice” sussurrò tra sé e sé. Dopo una breve discussione col medico Nick rientrò in camera e porse a Cassie i vestiti.
«Come ho detto prima, oggi torno a casa» disse Cassie avviandosi verso il bagno della camera per rimettersi i suoi vestiti. Nick le si avvicinò e da dietro le spalle le sussurrò piano in un orecchio «Credi di aver vinto, ma il gioco non è ancora finito».

  
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