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Autore: Sion    24/07/2012    2 recensioni
Come Ada Bezarius avesse convinto i professori era un mistero, o, come Elliot l’aveva definito durante il viaggio in carrozza, «Un mero esempio di lecchinaggine e favoritismo», ma qualsiasi fosse il nome con cui la si dipingeva, l’uscita era una vera e propria manna dal cielo contro la noia che l’andazzo di lezioni e logorio quotidiano avevano insidiato negli studenti.

(elliot/leo, slash, missing moment, spoiler).
Genere: Fluff, Generale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Ada Vessalius, Altri, Elliot Nightray
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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DD Titolo: Di lepri e codardi
Serie: Pandora Hearts
Rating: Verde.
WARNINGS: SPOILERS.

Pairing: Elliot/Leo
Credits: Pandora Hearts appartiene a Jun Mochizuki; non è intesa violazione di copyright.
Note:

E’ OOC, stupida, inutile e scritta male. Ma erano mesi che l’avevo in cantiere, ed oggi l’ho finita.
Avrei voluto dedicarla ad una persona scomparsa. Ma questa persona è, appunto, scomparsa.
Perciò, la dedico a chi se ne va. Anche se noi non vogliamo.
A.






Di lepri e codardi



A Leo le gite in campagna non piacevano. In generale, non gli piaceva alcun tipo di attività all’aperto che non comprendesse lo stare seduti all’ombra con un libro tra le mani e, possibilmente, della limonata fresca. Più nello specifico, non gli piaceva l’attività fisica.
E a ragione.
Ogni volta che alla Latowidge ci si dedicava a qualsivoglia sport, Leo finiva, a seconda dello sport praticato, col didietro sul campo, con la racchetta spezzata, con le mani graffiate o le ginocchia sbucciate. Ma non era precisamente questo ciò che più lo crucciava. Era come, in un modo inspiegabile, Elliot riuscisse in tutti gli sport che gli venivano presentati senza particolare sforzo e con una grazia che, paragonata agli usuali ed elefantiaci atteggiamenti, era quasi innaturale. Erano entrambi abbastanza brillanti in tutte le materie insegnate nella scuola, ma l’unica in cui Elliot eccelleva più di lui era senza dubbio l’attività fisica.
E in quella particolare giornata si rendeva conto di come, piuttosto che punzecchiare Elliot, avrebbe potuto impiegare il suo tempo libero: allenandosi.
Come Ada Bezarius avesse convinto i professori era un mistero, o, come Elliot l’aveva definito durante il viaggio in carrozza, «Un mero esempio di lecchinaggine e favoritismo», ma qualsiasi fosse il nome con cui la si dipingeva, l’uscita era una vera e propria manna dal cielo contro la noia che l’andazzo di lezioni e logorio quotidiano avevano insidiato negli studenti. Era più che altro una semplice passeggiata nelle tenute più esterne della Latowidge, al limitare del bosco di pini che segnava un confine naturale con l’esterno, però si trattava comunque di prendere aria con più libertà che nel cortile interno, e quindi un gradevole strappo alle rigide regole della scuola. E a Leo non sarebbe pesato più di tanto se Ada, in uno slancio di sportività, avesse proposto una battuta di caccia.
A piedi.
Ovviamente le ragazze si sarebbero limitate a cavalcare all’amazzone nei dintorni, tenute d’occhio dai professori. Ma i ragazzi, che sotto incitamento di Ada e del professore di Lettere, appassionato sostenitore della caccia, avevano già imbracciato i fucili, si sarebbero dedicati ad un sano e mascolino hobby all’aperto.
«Io continuo a dire che trovo deprecabile questo tipo di attività, specialmente nei confini della scuola», obiettò per l’ennesima volta al professor John Doyle, il quale si limitò a caricare il fucile con un sorriso eccitato sotto i sottili baffi scuri.
«Oh, taci, Leo, un po’ di caccia non ha mai ucciso nessuno».
Elliot Nightray, intervenendo per il professore, si sistemò il fucile a tracolla, indossando poi il cappello per proteggersi dagli aghi di pino — i quali continuavano a cadere sotto i colpi dei pallettoni — e dal sole forte.
Il suo fidato (Elliot avrebbe volentieri aggiunto un ‘mal’ prima del ‘fidato’) servitore strinse la canna del fucile nei palmi guantati di cuoio, guardando l’arma da dietro gli occhiali da vista, con l’aria di chi ha tra le mani un topo morto.
«Ma questo potrebbe uccidere te, o peggio me, quindi trovo la tua ultima affermazione molto discutibile».
«Sei più pesante di quell’altro Bezarius, da quanto sei petulante in questi momenti potresti stecchire una mosca in volo».
Le labbra sottili di Leo si curvarono in un sorriso sibillino, mentre imitava il padrone infilando il fucile a tracolla e raccogliendo parte dei folti capelli neri sotto al cappello marrone.
«Non vedo il nesso nell’accostamento, ma noto che non manchi di nominare per l’ennesima volta Oz Bezarius. Non ti sarai forse affezionat—»
«TACI!»
Il sorriso a mezza bocca di Leo si allargò in un ghigno sornione. L’espressione di Elliot divenne più congestionata dei piedi di un carcerato russo in Siberia.
«IO NON NOMINO QUELL’IDIOTA!».
«Ma lo hai appena fatto, Elliot».
«Stai tergiversando solo perché non vuoi partecipare alla caccia, non è così?», berciò l’altro, incrociando le braccia al petto con aria imperiosa, la bocca sgradevolmente arricciata in una smorfia soddisfatta, consapevole di aver toccato Leo nel suo orgoglio maschile.
Questo, senza smettere un secondo di sorridere, alzò la canna del fucile verso Elliot, mirandogli dritto tra gli occhi.
«LEO, CHE CAZZO—»
«Bang».
L’urlo di Elliot e la pacata onomatopea di Leo si scontrarono nello stesso istante nell’aria, e gli occhi scioccati del suo padrone assunsero una sfumatura arrabbiata.
«Ti sei bevuto il cervello?!»
Leo ignorò la sonora protesta di Elliot, guardando i compagni incamminarsi verso la prima linea di alberi, pronti a darsi a quello sport del quale i padri tanto spesso parlavano. Lui sentiva solo un forte fastidio all’idea di impugnare un’arma da fuoco per sparare ad animali ignari.
«Non voglio farlo», replicò invece, tentennando sotto il peso del fucile.
Elliot fece roteare lo sguardo, palesemente tediato dall’atteggiamento restio di Leo. «Se ti infastidisce così tanto», iniziò, accennando al folto gruppo di ragazze ridacchianti a cavallo di bai e roane, «puoi fare un giretto con loro». Però nel tono perentorio con cui aggiunse «Premesso che tu voglia rovinarmi per sempre la reputazione ed ogni dignità in questa scuola», si sentiva chiaramente il divieto.
«Dignità? Non credevo conoscessi il significato di questa parola» borbottò Leo, con pesante sarcasmo.
L’altro controllò l’istinto omicida che ululava, nella sua testa, di piantare una scarica di pallettoni in quella criniera leonina, preferendo premere il grilletto contro il cielo.
Le ragazze sussultarono allo sparo, guardandosi intorno allarmate, sino a quando Ada, la quale aveva assistito al breve battibecco dei due da lontano, non provvide a calmarle proponendo di iniziare ad avviarsi, o non avrebbero fatto in tempo a fare neanche una partita a volano.
«Il prossimo è per te», sibilò poi Elliot, lanciando un’ultima occhiataccia al suo servo e inseguendo con passo rapido un altro gruppo di ragazzi in tenute all’ultima moda, pronti a vantarsi delle qualità della propria mira e del proprio fucile, pur sapendo che erano tutti dati in dotazione dalla Latowidge.
Leo sospirò, aspettando testardamente altri cinque minuti prima di decidersi, contro ogni sua logica e morale, a seguire le orme del suo padrone. Non capiva, davvero, cosa ci trovassero di divertente nell’andare in mezzo alle sterpaglie, al fango e alla resina solo per ammazzare qualche cervo e insipide faggine. Avrebbe di gran lunga preferito unirsi ad Ada, a costo di fare la figura dell’effeminato vigliacco, piuttosto che entrare nel bosco con quelli che da ‘studenti di una scuola privata d’alto lignaggio’ si erano trasformati in ‘selvaggi’. Letteralmente.
Da parecchi metri di fronte a lui venivano urla e risate, spesso accompagnate da riferimenti osceni e affermazioni scandalose dette ad alta voce. Almeno non udì la voce squillante di Elliot unirsi a quel coro infernale, ma limitarsi a ridere e a raccontare aneddoti che lui ormai conosceva a memoria, ma che, con sua sorpresa, divertivano i suoi compagni.
Dopo una decina di minuti aveva gli stivali coperti di terra e i pantaloni impolverati, i capelli sfuggiti al cappello erano costellati da aghi di pino e il caricatore era ancora pieno. Visto il coro di spari che si sentiva ogni minuto che passava, i composti rampolli nobili si stavano più che divertendo a svuotare il caricatore sulla evidentemente abbondante fauna del bosco. Lui no.
«Elliot?» chiamò, scostando i rami più bassi dei pini con la canna del fucile, il naso arricciato nello sforzo di scacciare l’odore forte di resina e terra umida. «Elliot?» ripeté, incerto. Si diede dello stupido per non averlo seguito immediatamente, e subito dopo diede dello stupido a lui, perché se n’era andato avanti con gli altri studenti.
Beh, si sarebbe arrangiato.
Guardò verso il fitto della bassa vegetazione, sperando di intravedere una quaglia, o un’anatra. Per una qualche ragione, tutti riuscivano a trovare selvaggina tranne lui. Intorno a Leo c’era solo il silenzio, ora che il vociare si era allontanato nel folto del bosco, interrotto solamente dal rumore dei rami secchi spezzati dai tacchi degli stivali. Imprecò sottovoce, per poi estrarre l’orologio dal taschino.
«Non ci credo», mugolò, fissando la lancetta delle ore sfiorare le dieci del mattino. Non era passata neanche una mezz’ora da quando si era inoltrato tra gli alti alberi di pino, e già non ce la faceva più. E non era la fatica di avanzare tra radici e dossi di terra che gli faceva bruciare i muscoli dei polpacci a pesargli di più, non era l’essere lontanissimo dall’ambiente familiare della scuola, non era l’arma che stringeva convulsamente tra le mani, non erano gli squittii sommessi. Era la solitudine a fargli paura. Attraverso le lenti degli occhiali studiò gli alberi, tutti uguali, che lo circondavano. Dietro di lui i rami spezzati formavano un sentiero chiaro, ma mano a mano che si inoltrava gli arbusti e i cespugli si facevano più fitti e vicini, e gli rendevano impossibile formare un percorso. Sospirò, frugando nelle tasche alla ricerca di un qualsiasi oggetto affilato, e fu piuttosto fortunato di trovare un coltellino multiuso che probabilmente Elliot gli aveva dato tempo prima. Fece scattare la lama, e guardandosi prima attorno con aria circospetta, fece una profonda incisione a forma di croce sulla corteccia di un pino. Quando fu soddisfatto del suo lavoro e la croce fu abbastanza visibile, riprese a camminare.
La sua intenzione non era quella di trovare qualcosa da cacciare, bensì quella di trovare qualcuno, fingere un improvviso malore e farsi portare fuori dal bosco. Non sarebbe stato un problema passare del tempo con le ragazze, con ogni probabilità avevano con loro dei libri, e lui si sarebbe semplicemente seduto a leggere. La loro compagnia non l’avrebbe disturbato eccessivamente.
Certo, questa era la sua intenzione.
Percorse diverse iarde più all’interno del bosco, e mano a mano che si inoltrava i rami si facevano più fitti e la luce del sole arrivava sempre meno forte, sino a ridursi ad un bagliore verdognolo. Ogni dieci passi si fermava a marcare un albero, sentendosi un nuovo Hansel, che invece di lasciare sassolini lasciava croci.
«Inquietante», disse, ad alta voce, per riempire il silenzio denso.
Il rumore parve attirare un animale, perché vide dei cespugli agitarsi piano. Si pietrificò sul posto, incapace di capire cosa fare. Poi si disse che tornare con una quaglia o un cervo sarebbe stato un bello smacco per Elliot, che lo credeva incapace di prendere la mira e sparare — e un po’ di ragione l’aveva: non era riuscito a colpire mortalmente quella Baskerville nonostante fosse ben più che vicina, e non ci sarebbe riuscito neanche se l’altra tizia non l’avesse deviato col potere della sua catena. Fece un passo indietro, per nascondersi dietro al tronco tozzo di un pino, sfilandosi l’arma dalla tracolla in silenzio. Il rumore si fece più forte, e si sporse di un niente verso quello per vedere che animale fosse.
Una lepre.
Avrebbe preferito qualcos’altro diverso da un paio di occhi imploranti e due orecchie lunghe, ma decise che era meglio di niente. Imbracciato il fucile, si voltò lentamente, prendendo la mira. Fece un respiro profondo, il dito esitante sul grilletto. Tolse la sicura, le spalle improvvisamente tremanti. Non voleva ucciderlo, ma voleva riuscire a farlo. Se non riusciva ad uccidere una lepre, come avrebbe potuto proteggere Elliot in una situazione simile?
Chiuse gli occhi per un secondo, poi li puntò di nuovo sulla lepre. Questa, come se avesse sentito il pericolo, si immobilizzò, fiutando l’aria. Sapendo che era l’unica occasione di prenderla, fece per premere il grilletto.
Poi successero molte cose insieme: i cespugli si mossero con violenza, la lepre balzò via, Leo sparò e qualcuno urlò.
«LEO, PEZZO DI STUPIDO IDIOTA! SPARI ADDOSSO AL TUO PADRONE?»
Leo non seppe dirsi se fosse più contento per l’apparizione di Elliot, insudiciato e con due lepri in una mano e il fucile nell’altra, o arrabbiato per il fatto che avesse fatto scappare la sua unica preda. Decise che era più forte l’arrabbiatura, e irruppe in un iroso: «STAVO SPARANDO AD UNA LEPRE SE NON L’AVESSI NOTATO, SEI TU CHE L’HAI FATTA SCAPPARE!»
Si rimise l’arma a tracolla e incrociò le braccia al petto con aria profondamente seccata, lasciando Elliot sconcertato.
«Ma a te neanche piace cacciare! Devi stare più attento!»
Leo sorrise, e le mani ebbero uno spasmo.
«Io dovrei stare più attento? Sei tu quello che si mette in mezzo come uno stoccafisso».
«STOCCAFISSO A CHI, CAPELLONE?»
«A te, Elliot. Ed ora, se non ti dispiace, vorrei ritrovare la mia lepre».
Si diede di nuovo dello stupido mentre gli voltava le spalle e schizzava nella direzione in cui la lepre era sparita.
«LEO, TORNA QUI!», ordinò Elliot, gridando da dietro. Leo proseguì senza obbedire, dimentico persino di segnare i tronchi degli alberi.
Elliot era un idiota. E perché era spuntato di nuovo lì? Insomma, era andato con quella massa di selvaggi, e da quanto aveva sentito prima che si allontanassero si stava anche divertendo. Escluse l’ipotesi che si stesse annoiando: la compagnia degli altri studenti di solito non lo infastidiva. Inoltre non si sarebbe mai sognato di lasciare il gruppo per inseguire una misera lepre, visto che ne aveva catturate già due senza alcuna difficoltà. Soppesò l’idea che si fosse preoccupato per lui, o meglio, che fosse stato assalito dai sensi di colpa per averlo lasciato da solo nel bosco, idea che gli sembrò più che plausibile.
Sorrise con aria superiore, prima di ricordarsi dell’esecrabile atteggiamento che aveva assunto col suo padrone, lasciandolo a sua volta solo nel bosco. Probabile che questo gli sarebbe costato un bel sermone, ma non era un gran problema. Di sermoni ne sentiva ogni giorno, e la maggior parte — se non tutti — venivano dalla propria bocca.
Borbottò degli improperi a mezza voce prima di scuotere il capo e riprendere a tracciare croci spesse sulla corteccia degli alberi che incrociava. Se non altro, si disse, sarebbe riuscito ad uscire da quella boscaglia senza perdersi.
Estrasse l’orologio per l’ennesima volta e notò con vaga soddisfazione che la lancetta delle ore adesso oltrepassava mezzogiorno. Presto probabilmente sarebbero tornati indietro per riunirsi e mangiare, e avrebbero passato il resto della giornata a parlare delle loro mirabolanti esperienze da tiratori scelti, agitando selvaggina e urlacchiando come ragazzini. Gli altri, ovvio. Lui si sarebbe seduto a leggere com’era nei suoi piani sin da principio. Elliot, invece, si sarebbe lamentato. Per assenza di cibo ben cotto, per la scomodità del pranzo od altre piccolezze.
Strizzò gli occhi dietro gli occhiali, nonostante ci vedesse più che bene. La faccenda degli occhiali era stata più che altro un vezzo, un modo come un altro per creare una barriera tra sé e quelle cose. Persino in quell’istante, come sempre, vedeva leggeri punti di luce fluttuare nell’aria, vicino a lui e in tutto il bosco. Si nascondevano dietro gli alberi, lo sfioravano e gli passavano vicino senza realmente toccarlo. Ci aveva fatto l’abitudine, ma ora, nel fitto di un bosco di pini, con la luce che trapassava a malapena la folta trama di rami e aghi, le luci sembravano più intense e reali. Non si era mai dato del pazzo per questo suo ‘vedere cose strane’: ci aveva fatto l’abitudine. Il suo unico cruccio era il non poterne assolutamente parlare con nessuno. Ci sarebbero state troppe cose da spiegare — come, ad esempio, il fatterello dei bambini della casa di Fianna e Humpty Dumpty. Provò una dolorosa fitta allo stomaco, e le dita si chiusero a pugno. Non passava giorno in cui i rantoli di Elliot non gli risuonassero nelle orecchie, come un macabro mantra per ricordargli che, nonostante tutto, era «Colpa tua».
A volte aveva la netta sensazione di vivere in un mondo parallelo. Nel mondo scuro, freddo e solitario, Elliot era morto e non aveva formato un contratto illegale con il cacciatore di teste. Nel mondo scuro, freddo e solitario, Elliot non aveva ucciso i suoi fratelli e non viveva ignaro della spada di Damocle pronta a mozzargli la testa come Humpty Dumpty aveva mozzato quelle dei suoi familiari. Nel mondo scuro, freddo e solitario, Elliot non c’era, le voci che sussurravano ricordi di cui non aveva memoria erano deboli e lontane e lui non era un colpevole. Ma nel mondo reale, Elliot era un centinaio di metri più indietro, immerso nel verde, imprecante e, sicuramente, incazzato. Le labbra gli si curvarono in qualche modo in un sorriso triste. «È colpa mia».
Senza autocommiserazione. Come se stesse parlando del tempo.
Il filo dei suoi pensieri si interruppe bruscamente quando un rametto sotto al suo piede fece un rumore più forte e gli occhi incontrarono, oltre il bordo di un cespuglio, la figura rotonda della lepre.
«Almeno sei grassa» mormorò a fior di labbra. Studiò per qualche secondo il terreno, prima di acquattarsi, chino su sé stesso e infine in ginocchio, attento a non fare rumore. Infilò la canna del fucile tra i rami sottili del cespuglio, con un fruscio. La lepre non sembrò darci peso, e continuò a cercare tra l’erba sottile e incolta qualcosa da mangiare.
Fece un respiro profondo, scacciando Elliot, la sua espressione sofferente e il sangue che gli insozzava i vestiti dalla mente, riempiendola invece di paesaggi tratti da libri, lepri saltellanti ed un banchetto da re. L’idea lo rallegrò di un niente, ma tanto bastò perché la concentrazione tornasse.
Prese con attenzione la mira, ma ogni qualvolta sembrava aver messo a fuoco l’animale, quello si muoveva e perdeva la traiettoria. Si sentiva come un giocatore di acchiapparella che non riesce a raggiungere gli altri partecipanti. Scosse il capo per liberare il campo visivo dai ciuffi scuri lasciati incolti sul volto, e poi, in uno slancio inaspettato persino a se stesso, li scostò completamente con un gesto silenzioso della mano.
Tanto non l’avrebbe visto nessuno, no?
Provò nuovamente a tenere nel mirino l’animale, sentendo di nutrire un profondo odio per qualsiasi essere vivente dotato di coda a batuffolo.
Non udì i passi dietro di lui, né si accorse che qualcuno gli era spuntato alle spalle sino a quando non sentì due braccia posarsi sulle sue e una voce inconfondibile, abbassata ai limiti dell’impossibile, mormorare tre parole lievissime al proprio orecchio.
«Più a destra».
Non ebbe bisogno di voltarsi per riconoscere Elliot nei gesti rudi ma impacciati, e seguì con diligenza il suo consiglio. Si sentì un idiota, ma quel particolare giorno il sentirsi idiota gli era stranamente facile, dunque evitò persino di soffermarsi troppo sul pensiero. Spostò la canna del fucile di un paio di centimetri sulla destra, percependo con chiarezza le dita di Elliot guidare i suoi polsi e il suo respiro caldo accarezzargli i ciuffi sulle orecchie. Provò un’altra stretta allo stomaco, di diversa natura ma ugualmente dolorosa.
«Vai».
Tolse la sicura con uno scatto e premette il grilletto.
Il suono rombante dello sparo fece scivolare giù diversi aghi di pino e scosse il cespuglio. Leo sobbalzò per il rinculo del fucile, ed Elliot smozzicò un’imprecazione colorita — il calcio del fucile gli si era piazzato dritto dritto nello sterno.
«Oh», si limitò a dire Leo, affrettandosi a riportare la folta frangia sugli occhi.
Elliot, dopo un momento di imbarazzata esitazione, si allontanò dalla schiena dell’altro, alzandosi in piedi con un grugnito e sporgendosi oltre il cespuglio. Il corpo inerte della lepre giaceva ad un metro da loro, lo stomaco trapassato dai pallettoni.
«È andata», informò, lanciando uno sguardo a Leo, il quale, dopo averlo imitato, si spazzolò le ginocchia con le mani e facendo una smorfia alle macchie verdi sui pantaloni.
«Queste non andranno via».
Elliot scrollò le spalle, aprendosi un varco nel cespuglio con le gambe e raccogliendo il cadavere della lepre per le orecchie. «Non è un problema, è solo un vestito». Gli porse l’animale, sul viso una sfumatura quasi orgogliosa. «La tua prima preda».
Leo non mosse un dito verso la lepre, guardandola con occhi inespressivi. Fece invece un passo indietro, storcendo il naso con disdegno.
«Mi fanno schifo le cose morte, tienila tu».
Per Elliot non parve un problema, perché la fece cadere sulle altre due lepri catturate, un cumulo grottesco.
«La prossima volta non correre via come una ragazzina», soggiunse dopo diversi secondi di silenzio, gli occhi azzurro vivo che evitavano la figura di Leo.
«Non sono corso via come una ragazzina, inseguivo la preda che tu hai fatto fuggire», precisò pacato l’altro, prima di incidere un’altra croce sul pino più vicino.
Elliot evitò di replicare, dicendosi fermamente che non avrebbe fatto altro che creare altre polemiche sterili. Si avvicinò invece al pino, squadrando incuriosito la croce incisa. «Le hai lasciate su tutti gli alberi? Una specie di filo di Arianna?»
Leo scrollò le spalle, terminando il lavoro di falegname con uno svolazzo della lama del coltellino. «Preferisco la metafora di Hansel e Gretel, gradirei evitare di incontrare un Minotauro qui».
Elliot rise, raccogliendo le lepri due nella mano destra ed una nella sinistra.
«Comunque», continuò Leo, guardando nella direzione in cui presumibilmente aveva lasciato l’ultimo albero inciso, «Non puoi sapere se fosse la mia prima preda. Sottovalutarmi in questo modo è davvero incivile».
Il sorriso di Elliot si trasformò in una smorfia tesa. «Leo, sta’ zitto. Credo sia ora di tornare indietro, gli altri si saranno già avviati da un pezzo».
Accogliendo la considerazione in un dignitoso silenzio, Leo annuì, precedendolo. L’altro sospirò a fondo, e poi, tenendo d’occhio il terreno pieno di sporgenze e protuberanze, lo seguì.
«Hai lasciato quelle croci su tutti gli alberi?», chiese Elliot, speranzoso.
Leo arricciò le labbra, scostando un ramo particolarmente spesso di pino.
«Sì, su tutti, tranne che su un tratto. Saranno duecento metri, saprò orientarmi». Nel tono, però, c’era una sottile sfumatura d’incertezza che allarmò Elliot più del fatto che fosse inesorabilmente tardi.
«Duecento? Dannazione, Leo, finiremo col girare in tondo».
In risposta al suo padrone, Leo sbuffò, tediato. «Oh, figurati. E poi, anche se fosse, non siamo così tanto dentro il bosco, ci troveranno in un batter d’occhio, vedrai». E poi, con aria di superiorità, aggiunse, «Ammesso che ci perdiamo. Poi sarei io l’uomo di malafede, Elliot?»
Elliot fece roteare gli occhi con aria scocciata, camminando dietro di lui senza più proferire parola. Leo, da parte sua, proseguiva convinto, dritto davanti a sé, sicuro di trovare immediatamente il nuovo albero segnato. Camminarono per dieci, venti, quaranta, ottanta metri. Quando Elliot rivide per la terza volta lo stesso albero con le radici intrecciate a forma di ‘h’ si chiese se non fosse meglio avvertire Leo. Fece per parlare, schiarendosi la voce, ma l’altro lo interruppe.
«Taci. Non ci siamo persi». Il tono con cui lo disse era così sicuro che Elliot si limitò ad aggrottare le sopracciglia, continuando a tallonarlo con un’insolita docilità. Strinse più forte le orecchie delle lepri, deciso a non perdere le prede che aveva catturato. Poi guardò verso il basso, notando che il peso delle lepri era diminuito di un po’.
E invece di essere tre, erano diventate solo due.
«Aspetta, Leo!», berciò, guardandosi attorno. Insomma, se avesse perso la lepre di Leo lui l’avrebbe ammazzato. Poi vide un movimento nel cespuglio alla sua sinistra, e comprese che qualche volpe doveva aver raccolto la lepre caduta.
«Di là!», esclamò, correndo nella direzione del cespuglio, guardandosi attorno per essere sicuro di non lasciarsi sfuggire niente. Se quell’animale voleva il suo pranzo, avrebbe dovuto combatterselo.
«Elliot, dove stai andando?» gli urlò dietro Leo, imprecando a mezza voce prima di inseguirlo, l’espressione corrucciata. «Elliot!» Chiamò, guardando disorientato la figura di Elliot inoltrarsi di nuovo tra i tronchi spessi dei pini. Sbuffò, imprecò, ed infine, quando non vide più nient’altro che un’ombra che camminava molti metri avanti a lui si decise a inseguirlo, chiaramente intenzionato a fargli una tirata d’orecchi, ‘da bravo servitore’. Non era certo un comportamento signorile mollare lì il proprio servo e andarsene a zonzo per i boschi due volte in una giornata.
Fu solo dopo un paio di cadute e diverse e colorite maledizioni che Leo, fucile alla mano nonostante fosse certo di non poterlo usare contro nient’altro — la lepre era già abbastanza — vide di nuovo Elliot, fermo nel mezzo di una radura minuscola che doveva essere stata riparo per qualche incauto escursionista.
«Che stai facendo?»
«Ssssh».
Leo lo guardò con un’espressione che oscillava tra l’esasperazione e l’impazienza, e fece per ricordargli che era tardi, decisamente tardi, e inoltrarsi di nuovo nel bosco non era un’idea geniale come doveva sembrare al suo padrone. Ma l’altro alzò una mano, intimandogli il silenzio, e si costrinse a tacere, limitandosi ad incrociare le braccia al petto con aria poco ben disposta.
Elliot fece un passo all’interno della radura, lasciando cadere le altre lepri a terra, come incapace di tenere i pugni chiusi, ed alzò gli occhi verso l’intricata trama di rami e fogliame che premeva a coprire il sole, arricciando le labbra di un niente, concentrato.
Leo lo seguì, attento a non pestare rametti per non far divampare la rabbia del padrone come un incendio, senza però togliersi dal viso la smorfia impaziente.
«Lo senti anche tu?», sibilò Elliot, guardandosi attorno con circospezione.
«Cosa, il suono che fa la tua testa mentre lavora? Sì, è una novità».
Qualcosa nello sguardo dell’altro fece pentire Leo di ciò che aveva detto. Elliot si sporse, afferrandogli un gomito, e sibilò «Taci e ascolta».
Leo fece per ribattere, poi udì qualcosa che gli fece passare la voglia di parlare. Voci. Altre voci. Guardò nella direzione del suo padrone, e lo vide assorto a fissare un punto nel vuoto, troppo impegnato ad ascoltare per guardarlo negli occhi. Strinse le mani a pugno, desiderando ardentemente di avere un’arma tra le mani, ma incapace di muoversi per prendere il fucile. D’altro canto Elliot non era altrettanto pietrificato, per cui gli fu facile mollare il braccio di Leo per prendere il fucile e puntarlo verso gli alberi.
«Le senti anche tu?» sussurrò, cercando di mascherare il vergognoso groppo alla gola.
Leo annuì, e fu con un grande sforzo che si trattenne dallo sputare un «Dovrei farti io questa domanda» grondante sarcasmo. Cercò di trattenersi anche dall’afferrargli un braccio per assicurarsi di tenerlo vicino, ma non gli riuscì granché bene, perché gli si ancorò ad un lembo della giacca della tenuta, gli occhi che scandagliavano le ombre tra i tronchi degli alberi.
«Elliot...», sussurrò, sforzandosi di tenersi ben dritto sulle gambe malferme.
«Leo, sshhh» intimò ancora l’altro, facendo un passo verso il bordo della radura, il fucile ben alto.
Le voci che ronzavano nelle sue orecchie si fecero insopportabili. Sentiva mille e mille frasi sconnesse, brandelli di conversazione, ma tra tutte c’era una voce in particolare, una voce tonante che, perentoria, gli ricordava «E’ colpa tua!». Per un secondo solo smise di respirare.
Se Elliot le avesse sentite avrebbe iniziato a farsi delle domande. Si sarebbe spaventato. E lui non sarebbe stato capace di fingere di averle sentite per la prima volta, gli sarebbe sfuggito qualcosa, Elliot avrebbe scoperto tutto. Leo non poteva permetterlo: le implicazioni erano distruttive. Se Elliot avesse scoperto... se avesse scoperto quello che era successo... non se lo sarebbe mai perdonato. Elliot non l’avrebbe mai perdonato.
Leo avrebbe voluto avere la forza, la voce per chiedere ad Elliot se fossero parole quelle che sentiva, se erano sussurri e non fruscii del vento, se erano urla e non il verso di una fiera. Ma non ce l’aveva. Si sentiva un nodo all’altezza dello stomaco e della gola, che gli impediva anche di respirare regolarmente. Era passivamente attaccato ad Elliot che camminava verso il bordo della radura, il fucile carico e il respiro pesante. Ad ogni passo che muoveva verso la linea di alberi, sentiva una nuova voce aggiungersi al coro che lo assordava, voci che non ricordava, voci che non sentiva da quel giorno nella voragine vicina alla Casa di Fianna. Voci che non voleva sentire.
«Elliot», gemette di nuovo, la presa sulla stoffa che si faceva ancora più forte e disperata. Elliot sganciò la sicura del fucile. Gli occhi gli si ridussero ad una fessura. Poi, al di sopra del brusio delle voci, Leo sentì quello che Elliot sentiva.
Foglie calpestate. Rametti spezzati. Un suono rombante.
Non erano voci. Era altro. Per un momento non seppe se piangere, ridere, o urlare fino a soffocarsi. Poi decise di rimanere in perfetto silenzio.
Non aveva sentito l’orrore nella sua testa. Per qualche motivo si sentì deluso, forse perché aveva perso l’ennesima occasione di condividere con lui quel mondo impossibile da spiegare, forse perché si sentiva ridicolo per aver avuto tanta paura. Dio solo sapeva quanto Leo volesse spiegare ad Elliot, dirgli il perché di quei sogni orrendi, dirgli cosa era davvero successo alla Casa di Fianna, che quei bambini non erano scomparsi né mai esistiti, ma erano morti, di una morte brutale e orrenda, e che lui li voleva proteggere. Deglutì un bolo di paura e parole non dette e fece per parlare, ma, di nuovo, successero molte cose insieme.
Ada Bezarius spuntò nella radura a cavallo della sua roana, nelle mani le redini della cavalla e quelle di un baio scuro, Elliot sparò e Leo spinse la canna del fucile in alto per evitare un assassinio accidentale.
«Oh, cielo!»
«Porca miser-»
«Elliot, non imprecare!»
«Taci, Leo! Per Dio!»
«Eravamo tutti preoccupati e così sono venuta a cercarvi-»
«Stai zitta, donna!»
Leo si mise una mano su una tempia, massaggiandola delicatamente. Va bene. Le voci erano state aizzate dalla sua immaginazione e la fonte di tutto quel caos erano gli zoccoli dei cavalli. Allora perché non si sentiva totalmente tranquillo? Fissò il viso di Ada Bezarius, incorniciato dai folti capelli biondi e sinceramente preoccupato. Scacciò la sensazione di pesantezza che gli aveva attanagliato le viscere e si allontanò da Elliot, ricomponendo il viso in un sorrisetto saccente.
«E’ inquietante quanto facilmente tu dimentichi le buone maniere», celiò Leo, posandogli una mano sulla spalla. «Dovremmo ringraziare Miss Ada per averci portato una cavalcatura, invece».
Elliot lo guardò con profondo astio, per poi abbassare il fucile e rimetterlo a tracolla. Si sistemò il cappello sul capo ed evitò con lo sguardo sia Ada che Leo. Parve illuminarsi per un attimo, perché emise un verso di sorpresa e si slanciò sotto ad un vecchio olmo. Leo sospirò e Ada si limitò a guardare la scena in silenzio, ben conscia delle ripercussioni che avrebbe avuto una sua intromissione nella conversazione. O anche solo una sua constatazione.
Il giovane Nightray si chinò su un cespuglio, frugando tra i bassi rami per diversi secondi e soffocando imprecazioni con sbuffi e rantoli. Poi emerse dalle foglie, nelle mani la lepre che Leo aveva catturato, sul viso un’espressione trionfante.
«Ah-ah! La volpe deve averla lasciata per via del nostro arrivo».
Ada emise un gemito soffocato e guardò dall’altra parte, sfuggendo la vista del docile animale tenuto per le orecchie e con il ventre sbrindellato dai pallettoni e dalle zanne della volpe. Leo abbassò le braccia di Elliot con un gesto secco delle mani, accennando col capo alla giovane.
«Non credo che queste siano visioni adatte ad una lady».
Elliot parve infastidirsi a quella considerazione, ma gettò la lepre sul cumulo delle altre due e si sfregò le mani per eliminare il pelo dai guanti scuri. Poi guardò Leo ed accennò agli animali.
«Allora prendile e mettile nel sacco appeso alla sella» replicò, brusco, guardando Ada con astio. Per un secondo Leo credette che stesse per disarcionarla, poi intimò, con la medesima intonazione che aveva usato per rivolgersi a lui, «Fammi spazio. È già umiliante abbastanza».
Con un leggero nodo allo stomaco Leo si rese conto che Elliot non voleva cavalcare con lui. Poi si rese conto di quello che i ragazzi avrebbero pensato vedendo la giovane e procace Ada Bezarius cavalcare da sola e, sul cavallo accanto, il giovane e virile Elliot Nightray... col suo servo. Non era esattamente l’immagine che il suo padrone voleva dare al resto degli studenti. Un conto era condividere la camera, studiare insieme ed essere servo e padrone. Un altro era cavalcare attaccati sullo stesso cavallo nel bosco. Sarebbe stato equivocabile.
Perciò, Leo per una volta chinò il capo e si limitò ad eseguire gli ordini, ancora scosso dal modo in cui le voci si erano sviluppate in un crescendo terrificante nella sua testa. Quello strano. Beh, dopotutto lui era davvero stato quello strano. Era inutile sperare di cambiare ruolo in quel teatrino maledetto. Come se potesse anche solo pensare di riuscirci, arrivati a quel punto.
Infilò le lepri nel sacco assicurato alla sella e montò sul cavallo, afferrando le redini come il mastro stalliere gli aveva insegnato nella magione dei Nightray. Elliot fece lo stesso, prendendo posto dietro Ada Bezarius ed afferrando le redini a sua volta, cercando in tutti i modi di non toccare eccessivamente la giovane ragazza.
Tornarono verso il limitare del bosco guidati dalle indicazioni di Ada, che aveva seguito le croci sugli alberi e ne aveva evidentemente tracciate altre fino alla radura. Non era poi così stupida come sembrava, si ritrovò a pensare Leo, mentre uscivano dal bosco, accolti dalle esclamazioni sollevate dei professori e dai versi scherzosi degli altri studenti.
«Miss Ada, non sarebbe dovuta andare da sola!», esclamò il professor Doyle, venendo incontro ai tre ed esibendo un’espressione infuriata. «Verrà punita per aver disobbedito ai professori»
Ada chinò il capo e balbettò «C-cercavo solo d-di aiutare...»
«La prossima volta lascia fare a chi di dovere» replicò duro il professore, facendosi dare le redini di entrambe le cavalcature e guidandole verso il folto gruppo più avanti. «Ammesso che vi sia una prossima volta. Nightray, che cosa avevi in mente?» chiese, poi, lanciando un’occhiata delusa e arrabbiata ad Elliot.
Elliot, contrito e congestionato, resse a malapena lo sguardo del professore, evidentemente ferito nell’orgoglio. «Io...»
«E’ stata colpa mia», intervenne Leo, aggiustandosi gli occhiali sul naso con aria casuale. «Mi ero perso perché sono partito in ritardo ed il mio padrone è venuto a cercarmi» continuò, sincero. Non era disposto a vedere Elliot bastonato per una sua mancanza. Metaforicamente o fisicamente che fosse: ancora non avevano mai provato una delle punizioni della Latowidge.
Elliot lo guardò disorientato, sorpreso dalla sua intercessione, e fece per parlare ma lo precedette.
«Sono io a dover essere punito, professor Doyle. Sono sinceramente contrito».
Il professore parve credergli, perché fece cenno a tutti e tre di scendere.
«Non ho intenzione di punirvi, ma per i prossimi tre mesi è fuori discussione una qualsiasi altra gita» sentenziò, e per evitare lamentele si voltò e si diresse verso gli altri professori, facendo cenno ad Ada di seguirlo. «Vieni con me, miss Ada. Che tutti tornino alle proprie carrozze!»
Due giovani stallieri vennero verso Elliot e Leo, prendendo le redini dei cavalli e portandoli verso la coda della carovana di carrozze, mentre il resto degli studenti, un po’ per la stanchezza, un po’ per la consapevolezza di non avere più gite a disposizione, si ritirava nelle carrozze borbottando e mugugnando, lanciando sguardi ostili ai due.
Leo si sentì in dovere di spezzare una lancia a favore di Elliot, perché sopportò l’onta con molta più dignità di quanto avesse potuto mai immaginare. Nella carrozza fu silenzioso e tranquillo e si limitò a guardare fuori dal finestrino, accarezzando la canna del fucile di traverso sulle gambe. Tornando a scuola non disse una parola e, una volta arrivati, portò personalmente le lepri nelle cucine. Risalendo verso i dormitori non mancò, anche se con qualche difficoltà ed un po’ di ritrosia, di scusarsi con gli altri studenti, che accolsero l’inaspettata gentilezza con più comprensione di quanto Elliot stesso si aspettasse. Leo invece si limitò a stargli dietro e a cercare di trovare il coraggio per parlargli. Quell’umiliazione pubblica dopotutto era colpa sua. Se l’avesse seguito fin dall’inizio senza fare storie non si sarebbero persi e non avrebbe sentito le voci e Ada Bezarius non avrebbe dovuto riportarli al campo come due bambini dell’asilo.
Una volta nella propria stanza, Elliot si avviò verso il bagno continuando con quella farsa del muro del silenzio. Leo stava iniziando ad irritarsi. Un conto era sentirlo urlare e sbraitare: con quell’Elliot poteva ragionare a suon di risposte a tono e mobilia lanciata; ma con un Elliot silenzioso e cupo non era abituato a trattare. Non sapeva come comportarsi, e questo lo pungeva nel vivo.
Perciò, non appena Elliot, pulito e asciutto e pigiamamunito, uscì dal bagno, Leo, ancora lercio di terra, si alzò dall’angolo in cui si era seduto a riflettere su come farlo ragionare e si slanciò verso di lui.
«Elliot-»
«Non mi va di parlarne, Leo. Sono stanco». Detto questo, come per chiudere il discorso sul nascere, si distese sul letto, voltandosi su un fianco e dandogli le spalle. Leo sospirò ed entrò nel bagno a sua volta, raccogliendo il pigiama dal proprio letto pieno di libri e ritirandosi in silenzio.
Quando uscì, a sua volta pulito e abbigliato per la notte, trovò la luce spenta ed Elliot sotto le coperte. Convinto che stesse già dormendo, si sdraiò al suo fianco, come di routine – il suo letto, dal suo arrivo alla Latowidge, non era mai stato occupato da altro se non da libri, ed Elliot, dopo le prime settimane di strenue resistenze e calci per scacciarlo, aveva accolto la sua presenza con quella che Leo avrebbe definito rassegnazione, anche se spesso, di mattina, si svegliava con un braccio dell’altro saldamente ancorato ai propri fianchi.
Avvertì la schiena dell’altro aderire alla propria e chiuse gli occhi, sistemandosi sul cuscino, cercando di prendere sonno al più presto. Contro le sue aspettative, però, il suo padrone non dormiva.
«Ho avuto paura, oggi».
Leo schiuse le labbra per rispondere, ma rimase qualche secondo in silenzio. Poi, ricacciando indietro l’acida risposta che era affiorata alla bocca, modulò il tono e replicò con un semplice «Perché?»
«Perché nella radura sembravi terrorizzato. Non pensavo che un paio di cavalli ed un po’ di caos ti potessero spaventare tanto».
Leo ebbe di nuovo l’istinto di urlare fino a perdere la voce, al ricordo delle voci che gli sussurravano cose spaventose alle orecchie. Si rannicchiò, raccogliendo le gambe al petto e cercando di occupare meno spazio possibile.
«Sono meno impavido di quanto tu creda».
«Perché hai avuto paura?»
A quella domanda Leo non seppe rispondere. Avvertì Elliot rotolare su un fianco per voltarsi, e la sua schiena sulla propria venne sostituita dal petto, una mano ruvida e impacciata gli sfiorò il fianco, per poi posarvisi sopra con una delicatezza quasi commovente. Leo si morse le labbra e, con voce arrochita e incerta, rispose: «Non è niente, Elliot. Sei diventato paranoico?»
Un silenzio denso accolte la sua domanda. Poi, con voce incerta quanto la sua, il giovane rispose con un altro quesito.
«C’è qualcosa che non va?»
Leo avrebbe voluto dirgli che sì, c’era qualcosa che non andava, che credeva di stare diventando pazzo, che sapeva che non appena avessero chiuso gli occhi Elliot avrebbe iniziato ad agitarsi, a sudare, a soffocare urla nel cuscino, a vedere tragedie e sangue e dolore ed era colpa sua. Avrebbe voluto chiedergli scusa, stringerglisi contro e dirgli che sarebbe andato tutto bene, che avrebbero trovato una soluzione, che il mostro che gli insozzava il petto con un sigillo nero e tormentava le sue notti sarebbe scomparso. Avrebbe voluto dirglielo, ma non glielo disse. E si maledì per questo.
«No, va tutto bene. Davvero, Elliot».
E avrebbe voluto piangere fino ad addormentarsi e non svegliarsi più, perché Elliot gli credette. Sentì il suo viso affondare tra i propri capelli e la sua mano stringere appena il fianco.
«Se ci fosse qualcosa che non va me lo diresti, vero?»
Per un momento Elliot gli sembrò un bambino che cercava le rassicurazioni della madre contro i mostri sotto al letto. Gli fece una tenerezza immane, e una mano raggiunse la sua sul proprio fianco, intrecciando le sue dita alle proprie.
«Sì».
Bugie. Una sopra all’altra, a innalzare un muro tra lui e il suo padrone. Erano così vicini, eppure lo sentiva lontano anni luce.
«Va bene».
Leo rilassò il collo nel sentire il suo respiro accarezzarlo, e tracciò minuscoli cerchi sul suo palmo con il polpastrello del pollice.
«Domani andremo alla Casa di Fianna. Mio padre vuole che andiamo con lui»
Un’unica, fredda, infantile lacrima bagnò le ciglia di Leo. Sfilò gli occhiali e li lasciò cadere per terra, lasciando che le luci dorate fluttuassero davanti alla sua vista annebbiata dall’acqua. Annuì contro il cuscino e sentì il peso del mondo intero gravare sulle proprie spalle. Per un secondo ebbe la sensazione di crollare. Poi si rese conto di essere già un cumulo di macerie e si raggomitolò di più, cercando di proteggere quell’unica cosa che lo reggeva in piedi, le mani di Elliot e la sua voce che accarezzava le proprie orecchie, come un balsamo contro le voci che raschiavano nella sua testa.
«Come Lord Nightray comanda».



  
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