Commento dell’autrice : whoa O_o un'altra fic? E una one-shot lunga per giunta! Mel, sei
impazzita?!
Hehehe… stavate pensando questo, vero? Vi ho sgamati XD però
riconosco le mie colpe ^^; Se qualcuno si sta
chiedendo se ci siano speranze per veder aggiornato "Quel mondo là fuori", non temete… il capitolo 6 lo
posterò, prima o poi. L’avevo già editato, ma sapete che sono una
perfezionista…
E, soprattutto, una studentessa impegnata. Letteratura italiana, urg X-|
Quindi, non fateci l’abitudine, a questa produttività ;-P
anche se un po’ di commenti potrebbero farmi fare uno sforzo in più, chissà.
Anche le critiche (costruttive) sono bene accette!
Tornando alla fanfic che vi porto oggi, si tratta della
famosa oneshot su Sesshomaru e Rin che vi avevo promesso quest’estate.
Non ci sono spoilers di sorta (un miracolo, trattandosi di me!); chi segue il
manga saprà che le condizioni di Kohaku non sono fra le più rosee… ecco,
nonostante la Takahashi stia facendo di Inu Yasha un’ecatombe e le
probabilità di una dipartita rapida siano per il ragazzo piuttosto alte, in
questa storia ho voluto augurargli un futuro felice X-P
Forza, Kohaku! Fight!
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Onoranza del passato
by Melitot Proud Eye
“Ora so cos’è l’amore.”
Publio Virgilio Marone
bùa
“Lascia che i tuoi desideri
siano governati dalla ragione.”
Marco Tullio Cicerone
Il sole filtrava attraverso
le chiome degli alberi, abbacinandolo.
Dovette stringere le palpebre
per riuscire a distinguerla. Lei, l’intrusa, emergeva dal suo pelo dopo
averlo rimodellato, adagiandolo lì a fianco ― quasi a sfidare la sua
pazienza. Come se fosse possibile esaurirla, con lei. Come se fosse possibile
respingere il suo calore.
Il suo respiro sulla mano.
In quel momento Jaken si
riebbe dal torpore e aprì i suoi brutti occhi gialli. Rin si raddrizzò e lasciò
andare la pelliccia, un sorriso malizioso sul visetto.
Ecco, ogni volta che
s’inquietava con lei, lei sapeva dimostrarsi accorta. Non importava quasi più
che le avesse ordinato di mantenere le distanze, pensò Sesshomaru, guardandola
scendere al fiume con Jaken. Praticamente nulla. Quanto tempo era passato
dall’ultima volta che gliel’aveva detto? E quante volte era stato lui il primo
a soprassedere, per impedire che le accadesse qualcosa?
Come un cucciolo nato da
lui, adesso Rin meritava un nuovo trattamento.
Dal fiume provenne la sua
risata, e seppe che Jaken era caduto in acqua anche stavolta. Caduto… o spinto,
sogghignò. Presto sarebbero riemersi dal fogliame della riva, lui inzuppato,
lei radiosa per il nuovo trionfo. E lui li avrebbe guardati cercando di restare
impassibile.
Riuscendoci sempre meno,
ogni volta.
Se questo calore era ciò
che aveva sentito suo padre―
Non si può vivere soli,
Sesshomaru.
―allora, forse, anche
lui aveva trovato il proprio posto nel mondo.
Ma… se lei non si fosse
fermata qui?
La osservò risalire la
scarpata aggrappandosi a giunchi e radici, agile come solo i preadolescenti
sanno essere.
Se un giorno avesse preteso…
altro? La nota voce si risvegliò, sorgendo dalla tenebra dell’istinto.
Conosceva gli esseri umani. Ci sono regole cui nessun individuo può sfuggire.
Allora, guardando il lontano
bagliore d’una radura persa fra i tronchi, gli venne un’idea.
Un bisogno assoluto di aprire
la bocca e mettere in parola il suo desiderio, poiché esso avrebbe garantito la
felicità a entrambi.
«Rin.»
La bambina alzò il capo,
pulendosi il viso dalla terra.
«Sì, signor Sesshomaru?»
Doveva dirlo assolutamente.
«Non innamorarti mai
di me.»
Lei inarcò le sopracciglia in
un’espressione che lui giudicò ridicola. Poi, dopo un po’, annuì.
Come sempre.
Sesshomaru si tranquillizzò.
S’era sentito invadere
dall’inquietudine, mentre attendeva, ma adesso era tutto sistemato. Gli avrebbe
obbedito. Anche stavolta, per quanto egoista suonasse alle sue stesse
orecchie quella domanda, Rin gli avrebbe obbedito.
E difatti gli obbedì.
Così, Sesshomaru scoprì a sue
spese quanto sia dolorosa la strada del rifiuto.
All’inizio fu tutto molto
semplice. La curiosità era ciò che lo guidava nel guardarla crescere, ogni
giorno più alta, ogni giorno più saggia, e più intraprendente. Le Terre
dell’Ovest vivevano un momento di pacifica tranquillità: le permise di
girovagare a suo piacere, sicuro che in nessun caso avrebbe oltrepassato i
limiti del buonsenso. Lo pervadeva una strana sensazione, in quegli anni. Ora
che poteva dedicarsi soltanto a lei (anche se non avrebbe mai parlato in quei
termini) si sentiva non più solo amico, ma anche maestro e, in un certo senso,
padre. Aveva qualcuno cui passare la propria esperienza senza aver procreato:
una liberazione, visto che non intendeva accoppiarsi… né ora né mai.
Rin era sua figlia.
Come è naturale, però,
qualcuno si sentì in dovere di metterci il becco. I ficcanaso furono i suoi
“amici” d’infanzia, pomposi quanto vuoti eredi di varie fortune. Al ricordo
delle loro parole sorrideva sempre, sprezzante. Aveva la loro stessa età! Era
così giovane! E con una bambina umana, poi…
Primo, si ripeteva allora,
non era sicuro di sentirsi poi tanto giovane. Giovane era chi aveva meno di tre
secoli o veramente poco per la testa. Secondo, se anche si fosse sbagliato, il
compito di educare Rin non lo spaventava. E, soprattutto, non era affar loro.
Avrebbe fatto ciò che voleva.
A nessuno sarebbe stato
concesso d’interferire.
Trascorsero altri anni. Rin
s’affacciò all’alba dell’adolescenza, entrandovi con la stessa, salda fiducia
di sempre. Proprio allora divenne clamoroso quanto avesse preso da lui.
Quando Sesshomaru se ne
accorse avvertì l’impulso di non indagare oltre. Sapeva interpretare i segni,
trovare le chiavi che gli avrebbero aperto la psiche di Rin ― erano gli
stessi che funzionavano con lui. Ma aveva timore di varcare quella soglia. Era
un regno che non gli apparteneva.
Zittì pertanto la voce che
sussurrava dentro di lui e s’apprestò ad accompagnare Rin ancora per un tratto,
l’ultimo tratto di strada comune alle loro esistenze. E l’avrebbe fatto, con
animo quiescente, se non avesse colto quello sguardo.
Fu quello sguardo a cambiare
tutto.
Correva il dodicesimo anno di
vita, per lei, e nel tardo pomeriggio la ragazzina si concedeva una lunga
passeggiata, premio per un’intensa giornata di studio. Lui non aveva nulla da
fare e sedeva dall’altra parte del prato, appoggiato a un vecchio tronco; era
inusuale che vegliasse su di lei tanto vicino a casa… ma, dopotutto, non
aveva proprio altro da fare. Presto Rin s’accorse della sua presenza e lo
raggiunse, navigando con destrezza nell’erba alta. Nessuna parola a turbare il
loro silenzio.
Era una specie di rito: non
sapevano quando, ma ogni tanto si sarebbero seduti sotto un albero a far finta
d’essere in viaggio, proprio come un tempo. Questa era una di quelle occasioni.
Spesso partecipava anche Jaken, ma… stavolta erano soli.
La mano della cattiva sorte.
«Senti nostalgia dei viaggi,
Rin?»
Lei sorrise un poco,
guardando l’orizzonte.
Se gli somigliava anche in
questo, forse avrebbero potuto riprenderli.
«Signor Sesshomaru?»
«…»
«Posso riposare vicino a te?»
Annuì, ben sapendo a cosa
andava incontro. E poco dopo, infatti, sentì un familiare spostamento. La sua
pelliccia veniva avvolta intorno a un corpo caldo e flessuoso. E…
Che scelta d’aggettivi era
stata, quella? Certo un caso.
Appoggiò la nuca al tronco e
decise di godersi l’atmosfera.
Al rumore d’un sospiro
soddisfatto, però, avvenne qualcosa d’inatteso. Qualcosa che doveva causare
tutta l’infausta catena d’avvenimenti che sarebbero seguiti. Animata di vita
propria, la sua pelliccia si strinse protettivamente intorno a Rin.
E allora lo vide.
Quello sguardo… di
sofferenza, di struggente desiderio che mai, mai avrebbe voluto
cogliere sul suo viso di bambina.
Durò solo un attimo, ma non
dubitò d’averlo visto. E la voce nella sua mente, che s’era assopita, si risvegliò.
Da quel giorno, mentre Rin
s’apprestava a uscire dall’adolescenza per entrare nella vita adulta, quel
tumulto non fece che avanzare, dibattendosi dentro di lui. Dapprima cercò
d’ignorarlo, attribuendolo alle stelle, al tempo, alle preoccupazioni di tutti
i giorni. Non poteva che esser qualcosa di temporaneo, infatti, dovuto al
richiamo d’una natura che ignorava da troppo tempo. Che importava se Rin gli
lanciava occhiate che credeva segrete? Che importava se lo guardava con
desiderio da lontano? Era solo una bambina. Una figlia che attraversava il
tradizionale momento di completa adorazione per il padre, niente più. Niente
più.
Ma in realtà, nonostante i
dinieghi, stava cambiando opinione. E se ne accorgeva.
Quell’espressione gli
aveva insinuato in petto il seme del dubbio: Rin era quasi adulta ormai; presto
avrebbe compiuto quindici anni e sarebbe stata pronta per il matrimonio, con un
fortunato ancora privo di nome; nonostante questo il suo atteggiamento non
mutava; era sempre stata ed era ancora capace di pensare con la propria testa,
nonché di rammentare i veri genitori e… e, abbastanza chiaramente…
…di non considerarlo un
loro sostituto.
Ogni suo gesto, ogni suo
sorriso si caricò di nuovi significati. Sesshomaru non sapeva più cosa pensare.
Un mostro senza nome si muoveva nel suo petto, ruggendo, dando vita a nuovi
palpiti nella notte, e sottraendosi all’orecchio che, attento, cercava di
carpirne l’evoluzione.
Alla fine, quando si
rivelò e prese forma nell’ultima conversazione avuta con suo padre, inorridì.
«Ah. Desideri a tal
punto il potere?»
«…»
«Sesshomaru… c’è
qualcosa che desideri proteggere?»
…Qualcosa da proteggere,
dici? Per me solo? Aveva già pensato
quelle parole, oh sì. Una volta sola: non si era mai veramente risposto,
sperando che la domanda scolorisse nel tempo.
Dentro di sé, però, aveva
saputo. E i sentimenti di Rin avevano solo ricacciato allo scoperto il
problema, lasciandolo scosso come se avesse di nuovo assaggiato lo schiaffo di
suo padre.
Che cosa stava succedendo?
Vedeva solo lei. Pensava solo a lei.
Si tormentava quand’era
lontana e si torturava quand’era vicina; non riusciva a stare fermo… non
riusciva a muoversi; avrebbe voluto accompagnarla in ogni sua misteriosa
esplorazione e altezzosamente s’impediva di farlo, per pentirsene subito dopo.
Di giorno fingeva fastidio alla pelliccia per urtarla, di notte saliva a
dormire sugli alberi benché lei ne desiderasse il calore. Insomma, aveva
completamente perso la ragione, e quel che era peggio era che Jaken sembrava
scomparso dalla schiera dei fedeli seguaci. L’unica che voleva proteggere era
lei. L’unica che voleva…
…era lei.
Ed era sbagliato!
Quand’era diventato così…
così debole? Quale adulto si sentiva attratto dal bambino che
aveva cresciuto? Era inammissibile. Raccapricciante. Un… un incesto
psicologico.
Trattando Rin come figlia,
durante tutti quegli anni, aveva instaurato un rapporto ben preciso; ora non
poteva esserci che quello tra loro.
Lì puntavano tutte gli sguardi severi del buonsenso.
Si rese conto di doverlo
reimparare, presto e bene.
Ma dimenticava di avere
una nuova entità, dentro di sé. Un’entità d’indole sconosciuta che,
all’improvviso, divise le sue fedeltà fra due opposti insostenibili. Chi
ascoltare? Ragione o sentimento? Sesshomaru voleva e non voleva, desiderava e
disdegnava al tempo stesso. Era una guerra disastrosa, in cui ognuna delle due
parti era riuscita ad arroccarsi fra salde mura, decisa a non cadere. Esser
legato e tirato in diverse direzioni non sarebbe stato più terribile: voleva
seguire entrambe, non gli era concesso seguire alcuna.
Poté perciò stare solo a
guardare.
E presto fu chiaro chi
sarebbe uscito vincitore. La sensazione non fece altro che crescere, crescere,
crescere indisturbata, proprio come cresceva e cambiava Rin, diventando ai suoi
occhi sempre più bella, solitaria, e raggiungendo come altezza definitiva il
suo mento. Quando lei compì sedici anni, Sesshomaru seppe.
Toccato dalla
comprensione, chinò rispettosamente il capo alla lezione che suo padre, tanto
tempo prima, aveva voluto insegnargli.
L’avrebbe detto, a Rin? Non
credeva.
Gliel’avrebbe fatto capire?
…Credeva di sì.
Era troppo tempo, ormai. E
lei non poteva aver dimenticato.
Lo fece quando la vide
tornare dal bosco, un giorno di primavera. Ella rideva e correva attraverso il
prato, cosparso di fiori; non l’aveva vista così felice ― così fresca e
spontanea ― da anni. Nel momento in cui Rin piroettò e cadde nell’erba,
lasciando volare il mazzo di viole nell’aria tersa, egli sentì il proprio cuore
cadere con lei.
La attese accanto al vecchio
ginkgo biloba, una mano sulla corteccia.
Gliel’avrebbe chiesto.
Sì, gliel’avrebbe chiesto…
oggi.
Avrebbe realizzato il
desiderio di quello sguardo, lo sguardo che l’aveva osservato con tanta
amarezza anni prima. E, così facendo, avrebbe realizzato anche il proprio.
Ignorò superbamente la voce
del dubbio.
Fu solo quando avvicinò
gentilmente Rin al petto, pronunciando piano le parole di rito, che capì quanto
avrebbe dovuto ascoltarlo. Rin, la Rin che aveva salvato, cresciuto, scelto…
piangeva.
Disperata.
Se qualcuno gli avesse
affondato la mano nel petto, scavando nella carne strappargli il cuore, o
l’avesse calpestato sino a sbriciolargli le ossa, non avrebbe potuto eguagliare
la sensazione che provò quando dalle sue labbra uscì quella parola… “padre”.
«Signor Sesshomaru» lo
supplicò, piangendo a dirotto «Signor… padre―» Lui non poté
trattenersi. La scostò, tenendola per una spalla. «Rin!» Sospettava che i suoi
occhi si stessero iniettando di sangue, ma in quel momento la sua mente subiva
un’eclissi, e continuò. «Mi sembravi contenta―» Sì, aveva singhiozzato
lei, era felice di sposarsi. Ma lui… lui non doveva sacrificarsi―
Un crollo.
Rin pensava… che si stesse sacrificando
per lei? Per pietà, per non lasciarla vivere sola? Se solo avesse saputo
quanto la desiderava! E quante notti insonni aveva passato prima d’accettarlo…
Ma gliel’avrebbe detto. Non
importava più l’orgoglio, gliel’avrebbe detto.
Prima che potesse farlo,
tuttavia, lei continuò. E stavolta lui capì.
Si vedevano da un anno. Le
era piaciuto sin dalla prima volta che l’aveva incontrato, ma era solo una
bambina allora, costretta a muoversi secondo le necessità, ostacolata da mille
problemi ― e certo non interessata a lui sentimentalmente. Poi, però, le
cose erano cambiate. Era cresciuta. Erano cresciuti. E una mattina di tredici
mesi prima l’aveva rivisto, incrociandolo per caso nel bosco del Picco. Le ore
erano volate, ridendo e chiacchierando del passato. Era stato piacevole. Ed era
stato così… confortante ritrovarsi in compagnia di un essere umano, uno
amichevole e fidato! Sesshomaru digrignò i denti. Non aveva potuto farne a
meno, continuò Rin, sebbene sapesse quant’era sconveniente; non aveva potuto
farne a meno… anche se sapeva di dover prima chiedere il permesso. Oggi,
finalmente, non poteva più tacere. S’inginocchiava per ottenere il suo perdono,
e per dirgli che lui… l’aveva chiesta in sposa.
E che lei voleva andare.
In quel momento, le parole di
Rin si confusero in un vortice. Sesshomaru alzò la testa per respirare,
stordito, e si ritrovò accanto a una quercia.
Aveva oltrepassato la
montagna. Come ci fosse arrivato in così poco tempo era un mistero, ma non
dubitò che fosse un bene. Là, davanti a lei, udendo quelle parole, aveva
provato l’impulso di compiere… qualcosa.
Il suo istinto aveva gridato:
uccidila.
Sgozzala piuttosto che
lasciarla andare!
Rabbrividì. Avrebbe potuto
farlo, se fosse rimasto un secondo di più. Avrebbe potuto farlo, e riemergere
dall’abisso della follia con le mani lorde di sangue.
Ma adesso era calmo.
Rabbrividì ancora e si lasciò scivolare lungo la corteccia dell’albero, sedendo
fra le possenti radici. Poi fissò l’orizzonte.
Era grande e plumbeo. Contro
la sua superficie atona si stagliavano le sagome di alcuni corvi, che
stridevano sventura nel cielo. Non poteva chiedere sfondo migliore.
Che cosa aveva fatto? Che
cosa era diventato?
Si posò la mano sugli occhi.
Cosa l’aveva spinto, in cielo
o in terra, a farsi questo? Andava tutto bene, e poi… poi aveva sbagliato
tutto. Aveva frainteso tutto.
Rin sposava Kohaku. Kohaku
portava via Rin.
No, rispose con ferocia il desiderio di vendetta. Puoi
impedirglielo. Puoi negarle il tuo consenso. Le ordinerai di sposare te, di
adorare te soltanto ― e lei obbedirà, come sempre!
Ma la voce di Rin echeggiò
ancora, chiamandolo “padre”, e all’improvviso ogni energia bellica lasciò il
suo corpo. No, stavolta non sarebbe andata così. Stavolta, se avesse di nuovo
aperto la bocca per comandare, lei non avrebbe obbedito. Avrebbe odiato.
E questo era ciò che s’era
trascinato addosso col suo stesso operato, lasciando che un’umana gli si avvicinasse
a tal punto.
Chinò il capo, mentre l’amaro
veleno della sconfitta gli aspergeva la bocca.
Kohaku e Rin. Rin e Kohaku. La
bambina salvata… e il bambino salvato. Già, era semplicemente perfetto.
Entrambi erano stati riportati indietro dalla Tenseiga, la sacra spada del
cielo, e Sesshomaru accennò un ghigno al pensiero che, tra i due, colui che non
era stato salvato con leggerezza era proprio il ragazzo. E tutto per la
preghiera di quella donna, quella cacciatrice di spettri. Gli balenò davanti
l’immagine di suo fratello, al quale ella s’accompagnava. Il pensiero che seguì
non era del tutto nuovo, ma neanche del tutto familiare.
Padre, perché? Perché
non ho potuto avere la Tessaiga?
Lo rivide, sanguinante ma
fiero in quell’ultima notte sulla spiaggia, coperta di neve.
Credevi che capire mi
avrebbe reso felice? No, lo so ― ne eri convinto. Io, invece, credo che
sarei morto più felice sterminando sino al mio ultimo respiro.
Ma non poteva odiare Rin,
che aveva cancellato quell’ignoranza ― proprio come non aveva potuto odiare
suo padre. Nessuno aveva colpa, in questo, se non lui stesso.
Chichiue gli aveva semplicemente indicato la strada: come
figlio, lui avrebbe potuto decidere di non seguirla, d’imboccarne un’altra;
avrebbe potuto gettare la spada, spezzarla o restituirla al vecchio Totosai. La
scelta era soltanto sua. E invece aveva tenuto la Tenseiga, come ultimo atto di
rispetto nei confronti del grande Inu no Taisho. No, non solo l’aveva tenuta:
l’aveva usata. Era stato il movimento del suo braccio a risvegliare Rin dalla
morte.
E per questo, per lei… per
lei sarebbe andato.
Decise che per lei avrebbe
onorato il passato al di sopra del presente, considerandola figlia ancora una
volta, e presenziando a quel matrimonio. L’avrebbe resa felice… nascondendo,
con la benevolenza degli dèi, che in realtà si celebrava il funerale del
sentimento che tutti da sempre volevano vedergli sul viso, ma di cui nessuno
s’era accorto.
Ed era per questo, ora, che
si trovava lì. Per questo ora stava in piedi, nel bel mezzo del villaggio di Inuyasha,
tra decine e decine di cenciosi sconosciuti, aspettando che venisse il momento
d’accompagnare la giovane sposa a casa del marito. Rin era radiosa, e la rabbia
che l’aveva sempre salvato estinta per l’eternità.
Più tardi, mentre la giovane
coppia pronunciava i sacri voti durante la cerimonia del tè, legandosi per la
vita, Sesshomaru sentì le proprie interiora accartocciarsi. Stava raggiungendo
il limite.
A breve avrebbe dovuto
andare.
Senza di lei.
«Che ti prende?» brontolò la
voce di suo fratello.
Era appena riuscito a
svincolarsi dalla folla.
«Affari miei.»
«Per Buddha, Sesshomaru.
Potresti mostrarti almeno un po’ allegro, in una giornata come questa. Rin è al
settimo cielo e il meglio che tu sai fare è aggrottare le sopracciglia? Porta
iella, lo sai, non sorridere ai matrimoni.»
Almeno erano fuori; si poteva
respirare, e non c’era il rischio, soprattutto, che la sposa vedesse o udisse
cose che non doveva vedere né sentire. Al momento, infatti, Sesshomaru faceva
piuttosto fatica a controllarsi. Dalla casa gli arrivavano le sue risa
di gioia, e quelle risa lo stavano annientando.
L’avessero saputo i suoi
nemici, che bastava così poco!
«Non mi sembravi più
sorridente di me, al tuo matrimonio.»
Pensò d’aver centrato il
segno. Tuttavia, non appena ebbe incontrato gli occhi di Inuyasha, che non
ribatteva, vide in essi la luce dell’intuizione.
E così era veramente
giunto il momento di andare.
«Saluta Rin da parte mia»
disse, voltandosi.
«Uh? Hey, hey, hey! Aspetta!
Aspetta un attimo, Sesshomaru!» Era tallonato. «Che fretta c’è?! La festa
durerà sino a stasera, Rin vorrà―»
«Non ho alcuna intenzione di
accompagnarla sino alla soglia della loro stanza» rispose tra i denti,
accelerando.
«Ma è quello che fanno tutti
i padri!» ribatté Inuyasha.
Al che, Sesshomaru sentì il
proprio corpo ribellarsi. Non avrebbe voluto ― davvero non avrebbe voluto
― reagire a quel modo. Ma non poté fermarsi. Aveva bisogno di sbudellare
qualcuno.
Inuyasha, magari, che si
offriva così generosamente.
Volse la testa di scatto e lo
fissò, sentendo il proprio sguardo bruciare. Subito la postura di suo fratello
virò sulla difensiva. Rimasero così qualche secondo, l’uno flettendo le dita,
l’altro massaggiando l’impugnatura della spada. Poi un’altra risata si levò
dalla casa, e fu troppo.
Sesshomaru tornò a guardare
avanti a sé, ripetendo le parole che aveva già detto… le ultime che sarebbe
riuscito in ogni caso a pronunciare.
«Salutala da parte mia.»
E, silenziosamente, le disse
addio.
FINE
***
Disclaimer: no, Inu Yasha non mi appartiene... anche perché, se così fosse, adesso non sarei qui a scriverci sopra fanfictions e, soprattutto, parecchie cose sarebbero andate diversamente nel manga ^^; la lunghezza per prima!