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Autore: Melitot Proud Eye    09/02/2007    12 recensioni
E per questo, per lei… per lei sarebbe andato. Decise che per lei avrebbe onorato il passato al di sopra del presente, considerandola figlia ancora una volta, e presenziando a quel matrimonio. [SesshomaruRin]
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Rin, Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Commento dell’autrice : whoa O_o un'altra fic? E una one-shot lunga per giunta! Mel, sei impazzita?!

Hehehe… stavate pensando questo, vero? Vi ho sgamati XD però riconosco le mie colpe ^^; Se qualcuno si sta chiedendo se ci siano speranze per veder aggiornato "Quel mondo là fuori", non temete… il capitolo 6 lo posterò, prima o poi. L’avevo già editato, ma sapete che sono una perfezionista…

E, soprattutto, una studentessa impegnata. Letteratura italiana, urg X-|

Quindi, non fateci l’abitudine, a questa produttività ;-P anche se un po’ di commenti potrebbero farmi fare uno sforzo in più, chissà. Anche le critiche (costruttive) sono bene accette!

 

Tornando alla fanfic che vi porto oggi, si tratta della famosa oneshot su Sesshomaru e Rin che vi avevo promesso quest’estate. Non ci sono spoilers di sorta (un miracolo, trattandosi di me!); chi segue il manga saprà che le condizioni di Kohaku non sono fra le più rosee… ecco, nonostante la Takahashi stia facendo di Inu Yasha un’ecatombe e le probabilità di una dipartita rapida siano per il ragazzo piuttosto alte, in questa storia ho voluto augurargli un futuro felice X-P

Forza, Kohaku! Fight!

 

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Onoranza del passato

 

by Melitot Proud Eye

 

 

 

 

 

 

 

“Ora so cos’è l’amore.”

Publio Virgilio Marone

 

bùa

 

“Lascia che i tuoi desideri

siano governati dalla ragione.”

Marco Tullio Cicerone

 

 

 

Il sole filtrava attraverso le chiome degli alberi, abbacinandolo.

Dovette stringere le palpebre per riuscire a distinguerla. Lei, l’intrusa, emergeva dal suo pelo dopo averlo rimodellato, adagiandolo lì a fianco ― quasi a sfidare la sua pazienza. Come se fosse possibile esaurirla, con lei. Come se fosse possibile respingere il suo calore.

Il suo respiro sulla mano.

In quel momento Jaken si riebbe dal torpore e aprì i suoi brutti occhi gialli. Rin si raddrizzò e lasciò andare la pelliccia, un sorriso malizioso sul visetto.

Ecco, ogni volta che s’inquietava con lei, lei sapeva dimostrarsi accorta. Non importava quasi più che le avesse ordinato di mantenere le distanze, pensò Sesshomaru, guardandola scendere al fiume con Jaken. Praticamente nulla. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che gliel’aveva detto? E quante volte era stato lui il primo a soprassedere, per impedire che le accadesse qualcosa?

Come un cucciolo nato da lui, adesso Rin meritava un nuovo trattamento.

Dal fiume provenne la sua risata, e seppe che Jaken era caduto in acqua anche stavolta. Caduto… o spinto, sogghignò. Presto sarebbero riemersi dal fogliame della riva, lui inzuppato, lei radiosa per il nuovo trionfo. E lui li avrebbe guardati cercando di restare impassibile.

Riuscendoci sempre meno, ogni volta.

Se questo calore era ciò che aveva sentito suo padre―

Non si può vivere soli, Sesshomaru.

―allora, forse, anche lui aveva trovato il proprio posto nel mondo.

Ma… se lei non si fosse fermata qui?

La osservò risalire la scarpata aggrappandosi a giunchi e radici, agile come solo i preadolescenti sanno essere.

Se un giorno avesse preteso… altro? La nota voce si risvegliò, sorgendo dalla tenebra dell’istinto. Conosceva gli esseri umani. Ci sono regole cui nessun individuo può sfuggire.

Allora, guardando il lontano bagliore d’una radura persa fra i tronchi, gli venne un’idea.

Un bisogno assoluto di aprire la bocca e mettere in parola il suo desiderio, poiché esso avrebbe garantito la felicità a entrambi.

«Rin.»

La bambina alzò il capo, pulendosi il viso dalla terra.

«Sì, signor Sesshomaru?»

Doveva dirlo assolutamente.

«Non innamorarti mai di me.»

Lei inarcò le sopracciglia in un’espressione che lui giudicò ridicola. Poi, dopo un po’, annuì.

Come sempre.

Sesshomaru si tranquillizzò.

S’era sentito invadere dall’inquietudine, mentre attendeva, ma adesso era tutto sistemato. Gli avrebbe obbedito. Anche stavolta, per quanto egoista suonasse alle sue stesse orecchie quella domanda, Rin gli avrebbe obbedito.

E difatti gli obbedì.

Così, Sesshomaru scoprì a sue spese quanto sia dolorosa la strada del rifiuto.

 

All’inizio fu tutto molto semplice. La curiosità era ciò che lo guidava nel guardarla crescere, ogni giorno più alta, ogni giorno più saggia, e più intraprendente. Le Terre dell’Ovest vivevano un momento di pacifica tranquillità: le permise di girovagare a suo piacere, sicuro che in nessun caso avrebbe oltrepassato i limiti del buonsenso. Lo pervadeva una strana sensazione, in quegli anni. Ora che poteva dedicarsi soltanto a lei (anche se non avrebbe mai parlato in quei termini) si sentiva non più solo amico, ma anche maestro e, in un certo senso, padre. Aveva qualcuno cui passare la propria esperienza senza aver procreato: una liberazione, visto che non intendeva accoppiarsi… né ora né mai.

Rin era sua figlia.

Come è naturale, però, qualcuno si sentì in dovere di metterci il becco. I ficcanaso furono i suoi “amici” d’infanzia, pomposi quanto vuoti eredi di varie fortune. Al ricordo delle loro parole sorrideva sempre, sprezzante. Aveva la loro stessa età! Era così giovane! E con una bambina umana, poi…

Primo, si ripeteva allora, non era sicuro di sentirsi poi tanto giovane. Giovane era chi aveva meno di tre secoli o veramente poco per la testa. Secondo, se anche si fosse sbagliato, il compito di educare Rin non lo spaventava. E, soprattutto, non era affar loro.

Avrebbe fatto ciò che voleva.

A nessuno sarebbe stato concesso d’interferire.

Trascorsero altri anni. Rin s’affacciò all’alba dell’adolescenza, entrandovi con la stessa, salda fiducia di sempre. Proprio allora divenne clamoroso quanto avesse preso da lui.

Quando Sesshomaru se ne accorse avvertì l’impulso di non indagare oltre. Sapeva interpretare i segni, trovare le chiavi che gli avrebbero aperto la psiche di Rin ― erano gli stessi che funzionavano con lui. Ma aveva timore di varcare quella soglia. Era un regno che non gli apparteneva.

Zittì pertanto la voce che sussurrava dentro di lui e s’apprestò ad accompagnare Rin ancora per un tratto, l’ultimo tratto di strada comune alle loro esistenze. E l’avrebbe fatto, con animo quiescente, se non avesse colto quello sguardo.

Fu quello sguardo a cambiare tutto.

Correva il dodicesimo anno di vita, per lei, e nel tardo pomeriggio la ragazzina si concedeva una lunga passeggiata, premio per un’intensa giornata di studio. Lui non aveva nulla da fare e sedeva dall’altra parte del prato, appoggiato a un vecchio tronco; era inusuale che vegliasse su di lei tanto vicino a casa… ma, dopotutto, non aveva proprio altro da fare. Presto Rin s’accorse della sua presenza e lo raggiunse, navigando con destrezza nell’erba alta. Nessuna parola a turbare il loro silenzio.

Era una specie di rito: non sapevano quando, ma ogni tanto si sarebbero seduti sotto un albero a far finta d’essere in viaggio, proprio come un tempo. Questa era una di quelle occasioni. Spesso partecipava anche Jaken, ma… stavolta erano soli.

La mano della cattiva sorte.

«Senti nostalgia dei viaggi, Rin?»

Lei sorrise un poco, guardando l’orizzonte.

Se gli somigliava anche in questo, forse avrebbero potuto riprenderli.

«Signor Sesshomaru?»

«…»

«Posso riposare vicino a te?»

Annuì, ben sapendo a cosa andava incontro. E poco dopo, infatti, sentì un familiare spostamento. La sua pelliccia veniva avvolta intorno a un corpo caldo e flessuoso. E…

Che scelta d’aggettivi era stata, quella? Certo un caso.

Appoggiò la nuca al tronco e decise di godersi l’atmosfera.

Al rumore d’un sospiro soddisfatto, però, avvenne qualcosa d’inatteso. Qualcosa che doveva causare tutta l’infausta catena d’avvenimenti che sarebbero seguiti. Animata di vita propria, la sua pelliccia si strinse protettivamente intorno a Rin.

E allora lo vide.

Quello sguardo… di sofferenza, di struggente desiderio che mai, mai avrebbe voluto cogliere sul suo viso di bambina.

Durò solo un attimo, ma non dubitò d’averlo visto. E la voce nella sua mente, che s’era assopita, si risvegliò.

Da quel giorno, mentre Rin s’apprestava a uscire dall’adolescenza per entrare nella vita adulta, quel tumulto non fece che avanzare, dibattendosi dentro di lui. Dapprima cercò d’ignorarlo, attribuendolo alle stelle, al tempo, alle preoccupazioni di tutti i giorni. Non poteva che esser qualcosa di temporaneo, infatti, dovuto al richiamo d’una natura che ignorava da troppo tempo. Che importava se Rin gli lanciava occhiate che credeva segrete? Che importava se lo guardava con desiderio da lontano? Era solo una bambina. Una figlia che attraversava il tradizionale momento di completa adorazione per il padre, niente più. Niente più.

Ma in realtà, nonostante i dinieghi, stava cambiando opinione. E se ne accorgeva.

Quell’espressione gli aveva insinuato in petto il seme del dubbio: Rin era quasi adulta ormai; presto avrebbe compiuto quindici anni e sarebbe stata pronta per il matrimonio, con un fortunato ancora privo di nome; nonostante questo il suo atteggiamento non mutava; era sempre stata ed era ancora capace di pensare con la propria testa, nonché di rammentare i veri genitori e… e, abbastanza chiaramente…

…di non considerarlo un loro sostituto.

Ogni suo gesto, ogni suo sorriso si caricò di nuovi significati. Sesshomaru non sapeva più cosa pensare. Un mostro senza nome si muoveva nel suo petto, ruggendo, dando vita a nuovi palpiti nella notte, e sottraendosi all’orecchio che, attento, cercava di carpirne l’evoluzione.

Alla fine, quando si rivelò e prese forma nell’ultima conversazione avuta con suo padre, inorridì.

«Ah. Desideri a tal punto il potere?»

«…»

«Sesshomaru… c’è qualcosa che desideri proteggere?»

…Qualcosa da proteggere, dici? Per me solo? Aveva già pensato quelle parole, oh sì. Una volta sola: non si era mai veramente risposto, sperando che la domanda scolorisse nel tempo.

Dentro di sé, però, aveva saputo. E i sentimenti di Rin avevano solo ricacciato allo scoperto il problema, lasciandolo scosso come se avesse di nuovo assaggiato lo schiaffo di suo padre.

Che cosa stava succedendo? Vedeva solo lei. Pensava solo a lei.

Si tormentava quand’era lontana e si torturava quand’era vicina; non riusciva a stare fermo… non riusciva a muoversi; avrebbe voluto accompagnarla in ogni sua misteriosa esplorazione e altezzosamente s’impediva di farlo, per pentirsene subito dopo. Di giorno fingeva fastidio alla pelliccia per urtarla, di notte saliva a dormire sugli alberi benché lei ne desiderasse il calore. Insomma, aveva completamente perso la ragione, e quel che era peggio era che Jaken sembrava scomparso dalla schiera dei fedeli seguaci. L’unica che voleva proteggere era lei. L’unica che voleva…

…era lei.

Ed era sbagliato!

Quand’era diventato così… così debole? Quale adulto si sentiva attratto dal bambino che aveva cresciuto? Era inammissibile. Raccapricciante. Un… un incesto psicologico.

Trattando Rin come figlia, durante tutti quegli anni, aveva instaurato un rapporto ben preciso; ora non poteva esserci che quello tra loro.

puntavano tutte gli sguardi severi del buonsenso.

Si rese conto di doverlo reimparare, presto e bene.

Ma dimenticava di avere una nuova entità, dentro di sé. Un’entità d’indole sconosciuta che, all’improvviso, divise le sue fedeltà fra due opposti insostenibili. Chi ascoltare? Ragione o sentimento? Sesshomaru voleva e non voleva, desiderava e disdegnava al tempo stesso. Era una guerra disastrosa, in cui ognuna delle due parti era riuscita ad arroccarsi fra salde mura, decisa a non cadere. Esser legato e tirato in diverse direzioni non sarebbe stato più terribile: voleva seguire entrambe, non gli era concesso seguire alcuna.

Poté perciò stare solo a guardare.

E presto fu chiaro chi sarebbe uscito vincitore. La sensazione non fece altro che crescere, crescere, crescere indisturbata, proprio come cresceva e cambiava Rin, diventando ai suoi occhi sempre più bella, solitaria, e raggiungendo come altezza definitiva il suo mento. Quando lei compì sedici anni, Sesshomaru seppe.

Toccato dalla comprensione, chinò rispettosamente il capo alla lezione che suo padre, tanto tempo prima, aveva voluto insegnargli.

L’avrebbe detto, a Rin? Non credeva.

Gliel’avrebbe fatto capire? …Credeva di sì.

Era troppo tempo, ormai. E lei non poteva aver dimenticato.

Lo fece quando la vide tornare dal bosco, un giorno di primavera. Ella rideva e correva attraverso il prato, cosparso di fiori; non l’aveva vista così felice ― così fresca e spontanea ― da anni. Nel momento in cui Rin piroettò e cadde nell’erba, lasciando volare il mazzo di viole nell’aria tersa, egli sentì il proprio cuore cadere con lei.

La attese accanto al vecchio ginkgo biloba, una mano sulla corteccia.

Gliel’avrebbe chiesto.

Sì, gliel’avrebbe chiesto… oggi.

Avrebbe realizzato il desiderio di quello sguardo, lo sguardo che l’aveva osservato con tanta amarezza anni prima. E, così facendo, avrebbe realizzato anche il proprio.

Ignorò superbamente la voce del dubbio.

Fu solo quando avvicinò gentilmente Rin al petto, pronunciando piano le parole di rito, che capì quanto avrebbe dovuto ascoltarlo. Rin, la Rin che aveva salvato, cresciuto, scelto… piangeva.

Disperata.

Se qualcuno gli avesse affondato la mano nel petto, scavando nella carne strappargli il cuore, o l’avesse calpestato sino a sbriciolargli le ossa, non avrebbe potuto eguagliare la sensazione che provò quando dalle sue labbra uscì quella parola… “padre”.

«Signor Sesshomaru» lo supplicò, piangendo a dirotto «Signor… padre―» Lui non poté trattenersi. La scostò, tenendola per una spalla. «Rin!» Sospettava che i suoi occhi si stessero iniettando di sangue, ma in quel momento la sua mente subiva un’eclissi, e continuò. «Mi sembravi contenta―» Sì, aveva singhiozzato lei, era felice di sposarsi. Ma lui… lui non doveva sacrificarsi―

Un crollo.

Rin pensava… che si stesse sacrificando per lei? Per pietà, per non lasciarla vivere sola? Se solo avesse saputo quanto la desiderava! E quante notti insonni aveva passato prima d’accettarlo…

Ma gliel’avrebbe detto. Non importava più l’orgoglio, gliel’avrebbe detto.

Prima che potesse farlo, tuttavia, lei continuò. E stavolta lui capì.

Si vedevano da un anno. Le era piaciuto sin dalla prima volta che l’aveva incontrato, ma era solo una bambina allora, costretta a muoversi secondo le necessità, ostacolata da mille problemi ― e certo non interessata a lui sentimentalmente. Poi, però, le cose erano cambiate. Era cresciuta. Erano cresciuti. E una mattina di tredici mesi prima l’aveva rivisto, incrociandolo per caso nel bosco del Picco. Le ore erano volate, ridendo e chiacchierando del passato. Era stato piacevole. Ed era stato così… confortante ritrovarsi in compagnia di un essere umano, uno amichevole e fidato! Sesshomaru digrignò i denti. Non aveva potuto farne a meno, continuò Rin, sebbene sapesse quant’era sconveniente; non aveva potuto farne a meno… anche se sapeva di dover prima chiedere il permesso. Oggi, finalmente, non poteva più tacere. S’inginocchiava per ottenere il suo perdono, e per dirgli che lui… l’aveva chiesta in sposa.

E che lei voleva andare.

In quel momento, le parole di Rin si confusero in un vortice. Sesshomaru alzò la testa per respirare, stordito, e si ritrovò accanto a una quercia.

Aveva oltrepassato la montagna. Come ci fosse arrivato in così poco tempo era un mistero, ma non dubitò che fosse un bene. Là, davanti a lei, udendo quelle parole, aveva provato l’impulso di compiere… qualcosa.

Il suo istinto aveva gridato: uccidila.

Sgozzala piuttosto che lasciarla andare!

Rabbrividì. Avrebbe potuto farlo, se fosse rimasto un secondo di più. Avrebbe potuto farlo, e riemergere dall’abisso della follia con le mani lorde di sangue.

Ma adesso era calmo. Rabbrividì ancora e si lasciò scivolare lungo la corteccia dell’albero, sedendo fra le possenti radici. Poi fissò l’orizzonte.

Era grande e plumbeo. Contro la sua superficie atona si stagliavano le sagome di alcuni corvi, che stridevano sventura nel cielo. Non poteva chiedere sfondo migliore.

Che cosa aveva fatto? Che cosa era diventato?

Si posò la mano sugli occhi.

Cosa l’aveva spinto, in cielo o in terra, a farsi questo? Andava tutto bene, e poi… poi aveva sbagliato tutto. Aveva frainteso tutto.

Rin sposava Kohaku. Kohaku portava via Rin.

No, rispose con ferocia il desiderio di vendetta. Puoi impedirglielo. Puoi negarle il tuo consenso. Le ordinerai di sposare te, di adorare te soltanto ― e lei obbedirà, come sempre!

Ma la voce di Rin echeggiò ancora, chiamandolo “padre”, e all’improvviso ogni energia bellica lasciò il suo corpo. No, stavolta non sarebbe andata così. Stavolta, se avesse di nuovo aperto la bocca per comandare, lei non avrebbe obbedito. Avrebbe odiato.

E questo era ciò che s’era trascinato addosso col suo stesso operato, lasciando che un’umana gli si avvicinasse a tal punto.

Chinò il capo, mentre l’amaro veleno della sconfitta gli aspergeva la bocca.

Kohaku e Rin. Rin e Kohaku. La bambina salvata… e il bambino salvato. Già, era semplicemente perfetto. Entrambi erano stati riportati indietro dalla Tenseiga, la sacra spada del cielo, e Sesshomaru accennò un ghigno al pensiero che, tra i due, colui che non era stato salvato con leggerezza era proprio il ragazzo. E tutto per la preghiera di quella donna, quella cacciatrice di spettri. Gli balenò davanti l’immagine di suo fratello, al quale ella s’accompagnava. Il pensiero che seguì non era del tutto nuovo, ma neanche del tutto familiare.

Padre, perché? Perché non ho potuto avere la Tessaiga?

Lo rivide, sanguinante ma fiero in quell’ultima notte sulla spiaggia, coperta di neve.

Credevi che capire mi avrebbe reso felice? No, lo so ― ne eri convinto. Io, invece, credo che sarei morto più felice sterminando sino al mio ultimo respiro.

Ma non poteva odiare Rin, che aveva cancellato quell’ignoranza ― proprio come non aveva potuto odiare suo padre. Nessuno aveva colpa, in questo, se non lui stesso.

Chichiue gli aveva semplicemente indicato la strada: come figlio, lui avrebbe potuto decidere di non seguirla, d’imboccarne un’altra; avrebbe potuto gettare la spada, spezzarla o restituirla al vecchio Totosai. La scelta era soltanto sua. E invece aveva tenuto la Tenseiga, come ultimo atto di rispetto nei confronti del grande Inu no Taisho. No, non solo l’aveva tenuta: l’aveva usata. Era stato il movimento del suo braccio a risvegliare Rin dalla morte.

E per questo, per lei… per lei sarebbe andato.

Decise che per lei avrebbe onorato il passato al di sopra del presente, considerandola figlia ancora una volta, e presenziando a quel matrimonio. L’avrebbe resa felice… nascondendo, con la benevolenza degli dèi, che in realtà si celebrava il funerale del sentimento che tutti da sempre volevano vedergli sul viso, ma di cui nessuno s’era accorto.

 

Ed era per questo, ora, che si trovava lì. Per questo ora stava in piedi, nel bel mezzo del villaggio di Inuyasha, tra decine e decine di cenciosi sconosciuti, aspettando che venisse il momento d’accompagnare la giovane sposa a casa del marito. Rin era radiosa, e la rabbia che l’aveva sempre salvato estinta per l’eternità.

Più tardi, mentre la giovane coppia pronunciava i sacri voti durante la cerimonia del tè, legandosi per la vita, Sesshomaru sentì le proprie interiora accartocciarsi. Stava raggiungendo il limite.

A breve avrebbe dovuto andare.

Senza di lei.

«Che ti prende?» brontolò la voce di suo fratello.

Era appena riuscito a svincolarsi dalla folla.

«Affari miei.»

«Per Buddha, Sesshomaru. Potresti mostrarti almeno un po’ allegro, in una giornata come questa. Rin è al settimo cielo e il meglio che tu sai fare è aggrottare le sopracciglia? Porta iella, lo sai, non sorridere ai matrimoni.»

Almeno erano fuori; si poteva respirare, e non c’era il rischio, soprattutto, che la sposa vedesse o udisse cose che non doveva vedere né sentire. Al momento, infatti, Sesshomaru faceva piuttosto fatica a controllarsi. Dalla casa gli arrivavano le sue risa di gioia, e quelle risa lo stavano annientando.

L’avessero saputo i suoi nemici, che bastava così poco!

«Non mi sembravi più sorridente di me, al tuo matrimonio.»

Pensò d’aver centrato il segno. Tuttavia, non appena ebbe incontrato gli occhi di Inuyasha, che non ribatteva, vide in essi la luce dell’intuizione.

E così era veramente giunto il momento di andare.

«Saluta Rin da parte mia» disse, voltandosi.

«Uh? Hey, hey, hey! Aspetta! Aspetta un attimo, Sesshomaru!» Era tallonato. «Che fretta c’è?! La festa durerà sino a stasera, Rin vorrà―»

«Non ho alcuna intenzione di accompagnarla sino alla soglia della loro stanza» rispose tra i denti, accelerando.

«Ma è quello che fanno tutti i padri!» ribatté Inuyasha.

Al che, Sesshomaru sentì il proprio corpo ribellarsi. Non avrebbe voluto ― davvero non avrebbe voluto ― reagire a quel modo. Ma non poté fermarsi. Aveva bisogno di sbudellare qualcuno.

Inuyasha, magari, che si offriva così generosamente.

Volse la testa di scatto e lo fissò, sentendo il proprio sguardo bruciare. Subito la postura di suo fratello virò sulla difensiva. Rimasero così qualche secondo, l’uno flettendo le dita, l’altro massaggiando l’impugnatura della spada. Poi un’altra risata si levò dalla casa, e fu troppo.

Sesshomaru tornò a guardare avanti a sé, ripetendo le parole che aveva già detto… le ultime che sarebbe riuscito in ogni caso a pronunciare.

«Salutala da parte mia.»

E, silenziosamente, le disse addio.

 

 

 

 

FINE











***



Disclaimer: no, Inu Yasha non mi appartiene... anche perché, se così fosse, adesso non sarei qui a scriverci sopra fanfictions e, soprattutto, parecchie cose sarebbero andate diversamente nel manga ^^; la lunghezza per prima!

   
 
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