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Autore: Noth    28/07/2012    10 recensioni
Ero un mostro.
Mi avevano portato ad odiarmi.
Ero un qualcosa di sbagliato.
In un certo senso volevo restarlo, ma le mie proteste non furono accolte e mi mandarono nella clinica di St. Louis, specializzata nella cura dell’omosessualità.
Avrebbero dovuto guarirmi, ma le cose non andarono come sperato. Affatto, perché lì conobbi Kurt.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Nobody Said It Was Easy.
-Capitolo 14-









« Si chiama Sam. »

Le parole di Noah erano state chiare e decise. Il suo sguardo si era ammorbidito, ed aveva alzato il capo al soffitto, come se
avesse potuto vedere il cielo. Lo fissai, e congiunsi le mani sopra le ginocchia, sopprimendo l’istinto di sorridere, sapendo
benissimo che, essendo rinchiuso là dentro, le cose non dovevano andare per niente bene per lui. Probabilmente era separato
dal suo Sam, mentre io avevo avuto la fortuna di avere il mio Kurt all’interno della clinica.

« Come è successo? » domandai, cercando di non sembrare invadente, semplicemente volevo prima conoscerlo un po’ se
dovevo parlargli e continuare la farsa dello studente modello.

Lui si voltò verso di me con sguardo confuso.

« Cosa? »

« Tu e Sam. » ripetei, con un cenno del capo, e lui strinse le labbra con diffidenza.

Non sembrava intenzionato a parlarne.

« Non sono un educatore, non ti picchierò per ciò che mi dirai, non voglio farti… del male. » ripetei esasperato. Non era facile
come pensavo. Lui abbassò lo sguardo e strinse la stoffa dei pantaloni tra le mani, per poi lasciarla andare con un sospiro.

« Se lo dici a qualcuno ti ammazzo. » sibilò, e io deglutii un nodo d’ansia, annuendo.

Si inumidì le labbra e pensò a come cominciare quel discorso. Era importante spiegarlo bene, dopotutto? Far sapere a qualcuno
la propria storia in maniera impeccabile, solo per il gusto di sentire il filo narrativo di ciò che ci era successo?

Creature impressionabili, gli uomini.

« Io e Sam eravamo nella stessa squadra di football al liceo. Dal nostro primo anno avevamo legato moltissimo, seguivamo in
gran parte gli stessi corsi, pranzavamo assieme ed i pomeriggi in cui non eravamo occupati negli allenamenti li passavamo a
casa sua. Mio padre non mi permetteva di portare amici a casa, o meglio, mi aveva sempre lasciato fino a che non avevo
iniziato a portare solo Sam. Da quel momento iniziò a farmi dei discorsi sugli omosessuali. Mi spiegò cos’erano, la loro inutilità, il
fatto che fossero malati e che la malattia fosse terribilmente contagiosa. Mi disse di stare attento, che alla mia età ero molto più
vulnerabile. Iniziai a pensarci, iniziai ad arrovellarmi ed ebbi paura. Paura perché mi ritrovavo nella descrizione fatta da mio
padre. Non avevo mai voluto considerare la cosa, perché credevo fosse normale provare quel tipo di sentimento per un amico.
Ma ciò che sentivo per Sam era più della semplice amicizia. Non era come quella per gli altri compagni di squadra o di corso,
era più forte e mi resi conto che il mio cuore schizzava in orbita quando mi sorrideva. Iniziai a sospettare di essermi ammalato,
ma non lo sappi mai davvero, non finchè un giorno ero andato a casa di Sam di nascosto, dopo aver mentito a mio padre e
avergli detto che avrei partecipato ad una festa e invece avevo dormito da Sam. Nel letto matrimoniale della sua stanza, ad un
certo punto, ci siamo sfiorati le mani. Le abbiamo intrecciate ed il mio cuore pareva essere nel mezzo di una maratona,
sembrava sotto l’effetto di stupefacenti. Ci siamo baciati e non so nemmeno dire come successe. Il resto poi fu una catena di
eventi che portò mio padre a scoprirlo e a mandarmi qui. I genitori di Sam sono religiosi, eppure sono riusciti ad accettarlo,
perché mio padre, che non crede in nulla, privo di valori stabili se non l’alcool, non riesce nemmeno a guardarmi in faccia? Mia
madre, che mi ha sempre voluto bene, ora fatica a sfiorarmi? Quando uscirò di qui, se mai uscirò di qui, non voglio vederli mai
più. » terminò. « Non mi guariranno, io tornerò da Sam. »

Lo guardavo, mentre lui non abbassava lo sguardo per nascondersi dopo avermi raccontato ogni cosa. Mi osservava come se
avesse voluto mettermi alla prova, ma non sapeva che lo capivo alla perfezione. Non sapeva com’era stato per me, e non
sapeva cosa stavo architettando.

Non poteva sapere, non ancora.

Annuii e cercai di tendere l’orecchio, provando a capire se ci fosse stato qualcuno per i corridoi. Non mi parve di sentire nessun
rumore di passi, ma ero troppo prudente per parlare e basta. E non potevo farmi beccare, altrimenti addio Kurt. Ed era fuori
discussione.

« Sentimi bene, se ti chiedono io ti ho fatto fare una chiacchierata sulla correttezza, sulla deviazione del pensiero alla quale
porta l’omosessualità e sul fatto che ci siamo autoconvinti di ciò che siamo, ma questo non ci rende tali. Okay? Sono stato
chiaro? » mi avvicinai a lui e mi ci inginocchiai di fronte, parlando sottovoce e non smettendo di fissarlo. Dopo ciò che mi aveva
detto non ero in grado di fingermi il perfettino che volevano, non ero capace di raccontargli le solite frasi che ci dicevano da
quando eravamo lì dentro. Non me la sentivo, a mettermi nei suoi panni, con tutti quei lividi e tagli, la paternale era l’ultima
cosa che avrei voluto sentire.

E sarei stato un ipocrita, ma quello era l’ultimo dei miei problemi.

« Uh? Ma tu non dovresti essere uno di loro? » mi rispose, sorpreso, mentre si massaggiava i polsi e si passava un dito sopra
tutti le ferite che gli puntellavano la pelle ma, peggio di tutto, soprattutto l’anima. Perché quelle violenze erano il genere di
ferita che ti restava dentro, che non si cicatrizzava e che i pensieri andavano continuamente a stuzzicare.

« Non faccio parte di nessun team, io, non sono nessuno. Ed ora vai fuori, tanto ti rimanderanno da me presto, e parleremo di
quello che vuoi fare qui dentro. » dissi, sparando la prima cosa che mi venne in mente e dandomi dell’idiota, perché così
suonavo esattamente come un educatore.

In effetti era così che avrebbe dovuto essere.

Io, il cocco del mio assassino.

« Non mi fido di te. » sibilò.

« Non ho detto che ti devi fidare, ho detto che ti riporteranno da me, lo so per certo. » mi alzai in piedi ed allungai una mano
per aiutarlo ad alzarsi. Dopo qualche attimo Puckerman capì che era il mio modo di invitarlo ad andarsene, ed afferrò riluttante
la mano, stringendo i denti per non sentire il dolore che cercava di celare. Ci riusciva bene, ma non abbastanza. Non da
nasconderlo agli occhi di chi sapeva cosa si provava.

Lo accompagnai alla porta e lo feci uscire, senza salutarlo, senza dire nessun commento sul suo racconto, senza fargli capire
cosa pensassi, lasciandolo a se stesso come, forse, avrebbe dovuto essere.

Mi sedetti sul letto e cercai di fermare la mente, ma questa stava già viaggiando troppo velocemente. Stava già correndo.
Correndo a Kurt, alla vita che avremmo potuto avere. Pensai a cosa avrei raccontato se avessi dovuto dire come ci eravamo
resi conto di quel noi. Riflettei, e l’unica cosa che riusciva a formarsi nella mia mente era quell’incontro casuale, quel posto in
mensa, quella sedia elettrica, era stato come un elettroshock nella mia vita. Era ironico come ci avessero portato lì per farci
guarire, ed invece avessimo finito per trovare quella persona che si sogna di portare con sé per il resto della vita. Come ci
eravamo conosciuti? Com’era nato ciò che c’era tra di noi? Non riuscivo a formularlo a parole, forse ero pessimo a riguardo, o
forse non c’era modo di spiegarlo, come la maggior parte dei fenomeni che ci colpiscono durante tutta la vita.

Un po’ come una reazione chimica della quale ancora non avevo scoperto la formula.

Mi tremarono le mani, perché non era sicuro il risultato di quella reazione. Potevamo restare chiusi lì dentro in eterno, a venire
picchiati a causa di ciò che ci facevamo a vicenda, ad essere malmenati per via del nostro battito cardiaco che accelerava di
fronte alla persona sbagliata. Ma mica lo controlli, poi, il battito cardiaco.

 

***

Dopo la seduta con l’educatore avevo finalmente del tempo con Kurt. Stare con lui era una boccata d’aria fresca, come se per
tutto il resto del tempo trattenessi il respiro. Per le nostre prima sedute c’era sempre stato qualcuno alla porta, a sentire cosa
gli dicevo, le bugie ipocrite che mi inventavo e per controllare che tra di noi non vi fosse alcun contatto. A volte Kurt faceva il
difficile, così per mettermi alla prova e rendere il tutto più credibile. Ultimamente, però, avevano per qualche strano motivo
deciso di darmi fiducia, e la cosa era sfociata nell’avere del tempo da solo con Kurt. Mi pareva così strano che mi permettessero
di passare qualche attimo con lui senza essere controllato. Continuavo ad insistere che ci fosse qualcosa sotto, ma Kurt mi
dissuadeva sempre, ricordandomi che non esistevamo solo noi all’interno della clinica, e che vi erano casi più gravi del suo,
come Noah, ad esempio, che ancora si ostinava a rispondere agli educatori, nella speranza di venire espulso, o qualcosa del
genere. Non aveva ancora capito che era con i tipi come lui che gli educatori si divertivano di più. Stava sbagliando strada, ma
non potevo rivelargli quella giusta, o sarebbe sembrato sospetto, e avrebbero scoperto anche noi. Non potevo permetterlo, ci
stavamo impegnando tanto, e desideravo quel maledetto lieto fine come se ne andasse della mia vita.

Volevo essere felice, con Kurt, lo volevo così tanto.

Ero nuovamente seduto sul mio letto in attesa di Kurt, incredibile quanto tempo passassi appollaiato su quel materasso bianco
ed avvolto da quel fantomatico nulla che avrebbe dovuto indurmi a una sorta di purificazione. Le regole della clinica erano
ancora appese alla parete, come dei comandamenti malvagi, a bruciare ogni volta che le guardavo e a ricordarmi quanto le
seguissi come un automa. Certo, tutte meno quella di non stare con il ragazzo che amavo nella stessa stanza.

Qualcuno abbassò la maniglia e seppi già chi era prima che lo vedessi.

Era venuto il mio tanto agognato tempo da tutor.

Avevamo tre quarti d’ora tutti per noi.

Kurt sorrise lievemente, quando mi vide, e si chiuse la porta alle spalle come se lo avesse fatto un milione di volte, e non potei
fare a meno di immaginarmi in un ipotetico futuro, in una vera casa, magari con dei figli, e lui che tornava a casa e mi trovava
seduto sul divano a guardare la televisione. Poi avrebbe potuto stringermi la mano, toccarmi, baciarmi senza venire punito.

Si sedette per terra, non veniva mai sul mio letto. Allora io scivolavo giù e lo imitavo, incrociando le gambe sul pavimento
bianco. Lui sorrideva, e tirava fuori il suo diario. Non parlavamo, non ci salutavamo nemmeno.

Come ogni volta iniziò a leggere ciò che aveva scritto. Cose terribili, di solito, e non sapevo quali di queste pensasse sul serio e
quali esagerasse per sembrare incredibilmente problematico. Non mi interessava, poteva anche scrivere dell’apocalisse se solo
ci avesse potuto portare fuori di lì.

Come al solito lo lasciai parlare, e mi faceva male il cuore. Cercai di non dare a quelle parole affilate il peso che Kurt ci
attribuiva. Cercai di smetterla di vederle come se davvero fosse così tanto ferito, perché mi ci ritrovavo, e faceva male.

«… ed è per questo che mi domando che razza di errore possiamo essere, se il solo sfiorare un altro uomo può portarci a delle
ferite fisiche e psicologiche così profonde. Se devo essere toccato da qualcuno in modo da sentirmi violato per arrivare a
detestare me stesso pur di perdere questa fissa che fa parte di me che è l’amore per un altro ragazzo. E gli educatori ci
feriscono, perché loro per primi sanno di avere il dovere ed il potere di giudicare qualcosa che non è loro. Ma la verità è che è
l’umanità intera ad essere così. E ho paura di me, paura di tutto, paura del mondo e di questo mio essere sbagliato. Perché,
diciamocelo, forse dovrei guarire, chi mai potrebbe amare un mostro? È questo ciò che ci vogliono far credere. » terminò,
chiudendo il diario e lasciando lo sguardo basso. Pareva che il tempo si fosse fermato, sentivo tutto passarmi attorno in slow-
motion. Percepivo l’aria, i nostri respiri, le mie indecisioni, le paure che continuavo ad avere ma che, avevo imparato con Kurt,
non avrebbero potuto fermarmi.

E fu allora che decisi.

Gli presi la mano. Un gesto lento, un gesto che cercai di trattenere ma che venne da solo, stanco di restare bloccato nella mia
testa e nei miei pensieri. Lo misi in atto, un po’ come lo avevo sempre sognato, un po’ come il mio cuore decise di guidarlo. E
quando toccai la sua pelle pensai alla volta in cui lo avevo fatto e mi avevano trascinato via. Alla volta in cui ero stato punito per
quel singolo gesto innocente e che ancora adesso mi faceva non poca paura.  Kurt spalancò gli occhi, divennero enormi e si
puntarono nei miei. In un certo senso vi scorsi la stessa mia paura, dall’altra parte scorgevo una sorpresa celata
dall’aspettativa.

Gli brillavano gli occhi, ed era un po’ come osservare dei cristalli di ghiaccio riflettere la luce del sole. Un po’ come l’aurora
boreale.

Non so come lo decidemmo, non so chi ci diede il coraggio, non so con quale stupidità e mancanza di buon senso lo facemmo, so
solo che le nostre labbra si incontrarono, ed il mio mondo si capovolse, per poi esplodere. 












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Spazio Autrice:
Scusate, ci ho messo un mese, che pessima fanwriter. Avete il permesso scritto di picchiarmi.

Allora, eheh, doveva succedere prima o poi, diciamocelo. 

Non so cosa dire, è un momento piuttosto importante della storia, quindi un parere sarebbe davvero gradito.
Se volete spararmi per il ritardo fatelo pure. D:

Noth
   
 
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