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Autore: candycotton    31/07/2012    0 recensioni
Questo racconto è uno spin-off della mia storia "Substitute"
Rigel ha 15 anni ed è rimasto solo. I suoi genitori sono stati rapiti, e lui è avido di verità e vendetta. Ma è sensibile, vulnerabile e ha paura del mondo, soprattutto ora che è costretto ad affrontarlo con solo l'aiuto delle sue forze.
Poi, un giorno, succede qualcosa nella foresta: un incontro speciale che cambierà per sempre la sua vita e lo salverà da se stesso...
Genere: Malinconico, Science-fiction, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Rigel  ||  ETERNALLY MISSED

 

 

 

 

 

Chase your dreams away

Glass needles in the hay

The sun forgives the clouds

you are my holy shroud

 

~ Eternally Missed, Muse

 

 

 

 

 

 

Mi sveglio nel silenzio. È notte, il mio corpo caldo e sudato mi lancia subito i primi segnali. Ho sete, mi fa mal la testa.

Scatto a sedere e mi guardo in giro. Il buio avvolge il pavimento tutt’attorno al letto. La porta e la finestra della mia stanza, nella semi oscurità, rendono quel luogo come l’interno della mia mente: spaventoso e ignoto.

Non nego di avere paura. Una paura devastante. Ma non posso farci niente. Non posso cambiare le cose. Questo è il mio destino.

Appoggio i piedi nudi sul pavimento e il legno mi inonda del suo calore, del calore estivo. L’estate dei miei quindici anni, la più brutta della mia vita. Raggiungo a tentoni la porta della stanza, l’apro e mi butto nel corridoio. Sono subito sollevato da una corrente d’aria notturna che mi asciuga il sudore, che mi disseta immaginariamente.

Se mia madre fosse stata lì, forse mi avrebbe sentito, e si sarebbe affacciata sul corridoio con uno sguardo preoccupato dipinto sul volto gentile. Mi avrebbe chiesto se andava tutto bene, se avevo bisogno di qualcosa, se poteva aiutarmi.

Mi manca così tanto.

E se anche mio padre fosse stato lì, avrebbe sentito mia madre scostare le coperte, avrebbe socchiuso gli occhi e la sua voce mi sarebbe giunta, dall’interno della stanza. Avrebbe biascicato qualcosa di incoraggiante, o più semplicemente avrebbe detto a mia madre di lasciarmi stare, che la mia era un’età turbolenta e che di sicuro non avevo bisogno di lei…

Mi mancano così tanto.

Con il senno di poi, forse avrei trovato il coraggio di ribattere a mio padre, di dirgli che, anche se giovane, avevo terribilmente bisogno di loro. Delle due persone migliori che avessi mai conosciuto.

Arrivo in cucina e rovescio un po’ d’acqua da una bottiglia ad un bicchiere. È così fredda che mi blocca la gola. Ingoio, sospiro e bevo un altro sorso.

 

 

 

Corro. Amo correre. Se fosse possibile, se non servisse nient’altro per sopravvivere, non farei che questo. Un piede davanti all’altro, le ginocchia che si danno il cambio, il torace che ruota impercettibilmente, le braccia morbide che mi danno la spinta. La testa alta, lo sguardo fisso davanti a me. Il respiro affannoso, unico mio compagno. Insieme al sudore che sa di vita.

I fusti degli alberi danzano al mio passaggio, le chiome si salutano. È come se tutta la foresta fosse partecipe nello spettacolo che le sto offrendo. Siamo solo io e lei. Non c’è niente di meglio.

Mi fermo per riprendere fiato. Mi piego in avanti, mi appoggio sulle ginocchia. Ritrovo il respiro regolare. Passo una mano sul mio viso, e raccolgo un pugno di sudore che traspira nuovamente nella mia stessa pelle.

La giornata è così bella che quasi mi commuove. Il sole splende, come tanto adora fare in questa stagione. Ma prima che i suoi forti raggi mi raggiungano, c’è una folta coltre di chiome di alberi, che mantengono lo spazio sotto di essi più fresco, in ombra, perfetto.

Sento degli uccelli chiamarsi, delle volpi gironzolare, degli scoiattoli arrampicarsi sulle cortecce. La natura si anima attorno a me. Il mondo animale prende vita.

E io rimango lì, in piedi, estasiato da tutto ciò che mi circonda. Gli occhi mi bruciano, piango.

Perché piango, davvero non lo so. Ho quindici anni, dovrei essere impassibile. Dovrei essere forte, essere un uomo…

Ma non è così che mi sento, e qui non c’è nessuno che mi possa giudicare. Così mi lascio andare, sciolgo la mente, i muscoli, il respiro. Chiudo gli occhi e le lacrime mi bagnano il viso.

Non voglio smettere, perché se lo facessi, mi sembrerebbe di esplodere. È questo il momento. Posso essere sensibile e vulnerabile fino all’osso. Non sarà la natura, a farmi del male.

Quando ritorno conscio di me stesso, apro gli occhi e mi ritrovo a terra, in ginocchio, con i palmi delle mani affondati nel terreno solido.

Stringo gli occhi, piango come un disperato, un fallito. Ora la consapevolezza del mio essere si aggrappa al mio inconscio. E mi rendo conto che, infine, sono solo.

Urlo, nessuno mi risponde. Piango,  gemo. Nessuno mi verrà ad aiutare. Ho quindici anni e non voglio fare del male a un altro essere vivente. Non voglio dover uccidere un animale innocente, solo per accertarmi la sopravvivenza.

Ho quindici anni, e ho voglia di sapere la verità. Voglio sapere dove sono i miei genitori, chi è stato a rapirli, se sono ancora vivi. Ma ho solo quindici anni, e non so dove andare, a chi rivolgermi, se verrò mai preso in considerazione. Se qualcuno mi darà mai importanza.

Il pianto si è affievolito. Sento i singhiozzi scuotermi, ma le lacrime hanno fatto il loro corso. Mi sento sfinito, esausto. Ma in un certo senso, sono contento che nessuno sia stato lì a giudicare il mio comportamento.

Forse sarebbe stata quella la mia consolazione? Che nella solitudine, nessuno mi avrebbe detto che cosa fare?

Non mi sembra una consolazione sufficiente.

Tiro su con il naso e faccio leva su braccia e gambe per rimettermi in piedi. Ma succede qualcosa, e io sono totalmente impreparato.

Un rumore. No, più un suono, un gemito… Anzi, un verso. Di un animale.

Resto immobile, colto da un senso di sorpresa, quando un felino di medie dimensioni esce dalla vegetazione, con zampate lievi e lente, misurando il terreno fra noi due. Tiene il muso chino quasi fino a sfiorare il terreno, le orecchie diritte, gli occhi dorati luccicanti, i canini digrignati.

E quel manto, del colore più bello che avessi mai visto. Me ne riempio la vista, di quel rosso fulvo, intenso e vivo come il più meraviglioso dei tramonti.

Ho studiato abbastanza da sapere che non è un felino comune. È una lince. Una lince rossa. Non sono del tutto estranee nella foresta di Ismene, ma sono alquanto rare nel resto di Hestla.

Io non ne ho mai vista una dal vivo.

L’animale continua ad avanzare verso di me, fino a fermarsi, all’incirca a un metro di distanza. Ci guardiamo negli occhi con intensità. E in qualche modo la convinco che non sono un nemico.

Abbandona la posizione di difesa, e assume un atteggiamento più “amichevole”, per così dire.

Allora decido di chinarmi a terra, per mostrarle che sono alla sua altezza, che non voglio farle del male, che ho buone intenzioni. I muscoli del mio volto restano tesi, non sono perfettamente certo che la mia azione vada a buon fine.

Potrebbe decidere di scattare in avanti e aggredirmi, e io avrei ben poche possibilità di uscirne illeso. Ma rischio. Non ho niente da perdere. E lei ha già catturato tutto il mio interesse.

Quindi piego le ginocchia, resto flesso a terra e non distolgo lo sguardo da lei. Il felino mi squadra e se fosse un essere umano avrebbe quell’espressione tipica di scetticismo, quando si ritiene che uno sia pazzo, fuori di senno.

Poi accade l’incredibile. Avanza verso di me, ma non mi fa paura. Non vuole aggredirmi. Il suo muso si china, imbarazzato, verso di me. Mi struscia contro il collo e il viso. E fa le fusa.

Sono così contento, sorpreso e commosso che non mi rendo conto più di nulla. So solo che ho appena stretto un’amicizia.

 

 

  
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