Libri > Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volar
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Autore: Calipso__    01/08/2012    14 recensioni
[Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare]
Ho deciso di scrivere a modo mio il finale della Gabbianella e il Gatto.
Volevo una cosa semplice, senza stravolgere i dialoghi originali: ho solo scritto il finale dal punto di vista di Zorba, dal punto di vista di una "madre" che lascia andare la sua figlia, diventata abbastanza grande per badare a sè stessa da sola.
E' una storia breve e semplice, ma ogni volta che leggo il finale originale o che vedo il cartone animato, mi commuovo fino all'inverosimile, e mi sembrava il minimo scrivere una one-short su questa storia.
Spero che vi piacerà!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Addio, mia piccola gabbianella

Addio, mia piccola gabbianella...

 

Avevamo incontrato un umano talmente speciale da riuscire a capirci; se tutti gli umani fossero come lui, se tutti gli umani fossero poeti, forse il mondo sarebbe un posto migliore. In quel momento però poco importava: il destino si stava per compiere, il momento tanto atteso era purtroppo giunto. Il campanile di San Michele era sempre più vicino, ed era quella la nostra meta: il poeta entrò da una porta laterale e iniziammo a salire. Fortunata era tesa, lo si vedeva chiaramente dalle sue piume immobili e dai suoi occhietti acquosi e spalancati dalla paura. Arrivammo velocemente in cima: dallalto del campanile ci era possibile vedere tutta la città bagnata dalla pioggia che continuava a cadere. «Ho paura, mamma!» esclamò Fortunata e io mi chiesi se quella sarebbe stata lultima volta che mi avrebbe chiamato mamma’. La guardai con un sorriso incoraggiante e saltai sulla balaustra: dovevo convincerla che doveva tentare e doveva riuscirci, perché lei era una gabbiana e quello ero il suo destino.

Avrei voluto dirle un sacco di cose per incoraggiarla, ma non mi usciva nulla: la verità era che non volevo che volasse via, volevo che continuasse a vivere con me e con gli altri gatti, sarebbe stato così semplice. Lasciarla andare via significava non vederla più crescere: non vedere più il suo sorriso dolce, non vederla diventare madre un giorno... Quanto sei egoista, Zorba... pensai tra me e me. Ero io la sua guida, se non ne ero convinto io, come poteva esserne convinta lei?

Se ami veramente qualcuno, lascialo libero.

Ecco come avrebbe risposto il poeta. Sì, ma quanto era difficile... sarebbe stato più facile rimangiarsi la parola data a sua madre, ma come potevo? Sua madre ero ormai anche io, e nel mio cuore sapevo qualera la cosa giusta da fare. Mi sfregai il muso con una zampa in maniera naturale, per cercare di ricacciare indietro le lacrime: non dovevo farmi vedere piangere da lei.

«Ora volerai, Fortunata. Respira. Senti la pioggia. E’ acqua. Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come una ricompensa dopo la pioggia. Senti la pioggia. Apri le ali.»

Fortunata spiegò le ali. «La pioggia. Lacqua. Mi piace!» esclamò avvicinandosi alla balaustra. Ti prego, non saltare... pensai disperatamente, ma continuai ad ignorare i miei pensieri e a fare ciò che era giusto.

«Ora volerai. » miagolai convinto.

«Ti voglio bene. Sei un gatto molto buono.» disse Fortunata, ed io mi sentii un buco nello stomaco: la mia piccola era diventata grande, dovevo lasciarla andare, dovevo farlo...

«Ora volerai. Il cielo sarà tutto tuo. » la incoraggiai trattenendo le lacrime.

«Non ti dimenticherò mai. E neppure gli altri gatti. » stridette lei ancora in bilico sulla balaustra. Io, toccandola appena, la spronai a fare il grande passo. Lei si lasciò andare e si buttò.

Per un attimo mi mancò il respiro e mi dimenticai di nascondere le lacrime: la mia piccola era caduta come un sasso verso terra ed io mi sporsi per vedere se ce l’aveva fatta o meno: non mi sarei mai perdonato se Fortunata fosse morta… poi la vidi: era stupenda con le ali spiegate che battevano su e giù, volava veramente alzandosi nel cielo ancora più in alto del campanile. Come potevo fare a non piangere?! La mia gabbanella ce l’aveva fatta: aveva imparato a volare!

«Volo, Zorba! So volare! » strillava euforica continuando a volteggiare nel cielo scuro, allegra e stupenda come non mai.

Il poeta mi accarezzò il dorso e io iniziai a tremare: volevo solo scoppiare a piangere in quel momento, e l’umano sembrava volermi dire di lasciarmi andare.

«Sullorlo del baratro ha capito la cosa più importante. » miagolai piano.

«Ah sì? E cosa ha capito? » chiese il poeta.

«Che vola solo chi osa farlo. » risposi. Il poeta mi lasciò da solo a contemplare la figura di Fortunata che si allontanava sempre di più nel cielo scuro. Sapevo che non sarebbe tornata indietro: i saluti non sarebbero mai stati abbastanza.

La mia piccola, la mia dolce Fortunata. Ormai se la sarebbe cavata senza di me. Ma io? Me la sarei cavata senza di lei? In quel momento mi vennero in mente dei versi di una poesia che si riferiva ai gabbiani; risi da solo e tentai di asciugarmi le lacrime con la zampa, pensando a quanto quella poesia in quel momento fosse perfetta pure per me che ero solo un gatto.

Ma il loro piccolo cuore

lo stesso degli equilibristi –

per nulla sospira tanto

come per quella pioggia sciocca

che quasi sempre porta il vento

che quasi sempre porta il sole

- I Gabbiani di Bernardo Atxaga -

  
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