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Autore: Malvagiuo    05/08/2012    5 recensioni
Chesterton, nel cuore della Cornovaglia, è da centinaia di anni il feudo dell'antica famiglia dei Lonefield. Il villaggio e i suoi campi hanno goduto per decenni di quiete e prosperità, finché qualcosa di terribile ha sconvolto l'esistenza dei suoi abitanti. Diversi suoi cittadini hanno iniziato a scomparire nel nulla. Vani sono stati i tentativi di trovare una spiegazione, inutile ogni ricerca. Finché, una notte, l'orrore si abbatte su Chesterton: coloro che erano scomparsi riappaiono in forma di corpi senza vita, mossi da una misteriosa e malefica volontà, sconvolgendo l'esistenza di quello che era il pacifico villaggio. Spetterà al giovane e poco ortodosso professor Leyton svelare il mistero di Chesterton, che egli considera frutto di mere superstizioni contadine. Ma ciò che si troverà ad affrontare va ben oltre l'immaginazione di qualsiasi sostenitore della logica.
Genere: Horror, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Eric Chapman aprì gli occhi. Le palpebre sembravano pesare due tonnellate.
La sua mente non era mai stata così annebbiata. Il che voleva dir molto, considerando che Eric era uno dei pochi uomini di Chesterton in grado di rivaleggiare con Grande Bill nella gara di bevute del venerdì sera alla taverna dell’Oca Grassa.
Eric fece il gesto di portarsi la mano destra alla testa per massaggiarsi la fronte, in modo da lenire il dolore che la tormentava. Ma dovette limitarsi a quello, poiché si rese presto conto che il polso della mano era bloccato. Quando sentì il ruvido attrito della iuta sulla pelle, capì di essere legato al letto da una corda. D’istinto alzò la sinistra per sciogliere il nodo, ma anche questa volta poté limitarsi all’intenzione. Anche il polso sinistro era legato dallo stesso tipo di corda. Non gli ci volle molto per appurare che anche le caviglie avevano subito il medesimo trattamento.
Era immobilizzato.
La coscienza di questo fatto diede avvio alla scarica di adrenalina che lo liberò dalla morsa del torpore. Purtroppo, solo da quella. Dopo una serie di scatti frenetici e irosi, Eric comprese che non c’era niente da fare. Le corde erano spesse, legate strettamente ai suoi arti con una serie di nodi impossibili da sciogliere senza aiuto esterno.
Eric gridò. La voce, che suonò più rauca al solito alle orecchie, riecheggiò all’interno della stanza. Agitandosi, Eric si accorse di non essere sdraiato su un letto. Stava decisamente troppo scomodo. Era una tavola. Una lunga tavola di legno rossiccio, grande a sufficienza perché Eric, un omone di un metro e ottantacinque per novanta chili di peso, potesse starci sopra senza che mani e piedi, nonostante le braccia e le gambe disposte come se dovesse esser crocifisso da un momento all’altro, toccassero i bordi.
L’idea lo fulminò. E se davvero qualcuno avesse avuto in mente di crocifiggerlo? Un pensiero balzano che respinse subito. Un po’ per rifiuto di andare incontro a una morte così orrenda, un po’ perché quella su cui era intrappolato non era una croce. E lui era troppo mascalzone perché a qualcuno potesse venire in mente di paragonarlo al Creatore nel momento della morte.
Mentre questi ragionamenti assurdi e privi di senso gli imperversavano per la mente (Eric Chapman non aveva mai avuto una mente particolarmente raffinata), il rumore di una porta che si apriva cigolando riempì la camera.
Eric alzò la testa per quanto gli era possibile, non essendo bloccata. Il punto della stanza da cui era provenuto il suono era avvolto nel buio.
«Chi c’è?» sbraitò Eric.
Nessuno gli rispose. Ma qualcuno c’era. Eric udì dei passi sul pavimento di pietra. Non potendo muoversi, per vedere l’estraneo dovette attendere che entrasse nel cono di luce prodotto dal candelabro che pendeva a un metro e mezzo dal suo addome. Il che significava che avrebbe dovuto avvicinarsi molto. Il cono di luce illuminava appena la grande tavola su cui Eric era prigioniero.
Ma l’estraneo pareva non avere intenzione di avvicinarsi. Non lo vedeva, ma Eric era sicuro che lo stesse osservando.
«Chi diavolo sei?»
Silenzio.
«Lo so che sei lì, cazzo! Ti ho chiesto chi sei!»
Eric percepì che l’estraneo si era mosso. Un flebile frusciare di indumenti. Come se stesse indossando qualcosa. Poi i passi ripresero. Misurati, calmi, regolari. Gli stava girando intorno, cosa che non contribuì di certo a placare la sua ansia.
Improvvisamente, Eric capì quello che stava facendo. A mano a mano che l’estraneo procedeva in cerchio attorno al tavolo, deboli bagliori comparivano lungo le pareti a rischiarare la stanza. Candele. Stava accendendo candele rosse disposte in serie sui muri, a meno di sette passi dalla tavola. Quando tutte le candele furono accese, la camera assunse tutto un altro aspetto. Qualcosa che Eric Chapman non avrebbe mai voluto vedere. Qualcosa che Eric Chapman non avrebbe mai immaginato potesse esistere a Chesterton. Ammesso che si trovasse ancora a Chesterton.
Teste.
Teste umane.
Fottutissime teste umane. Appese per i capelli a ganci di cui non si vedeva l’attaccatura al soffitto. C’erano altre cose visibili nella stanza ora, ma per Eric fu difficile concentrarsi su di esse. Osservò sgomento quei resti umani con occhi ancora intatti che lo fissavano, che avevano continuato a fissarlo nel buio per tutto quel tempo. Il riflesso del vomito fu inarrestabile, ed Eric non riuscì a trattenerlo. Un fiotto di succhi gastrici verdastri che gli corrose la gola e per poco non lo soffocò. Tossì e sputacchiò. Poi cominciò a urlare maledizioni e a supplicare pietà. Ormai in preda al panico, non aveva notato che le teste erano intatte, per nulla putrefatte, il che spiegava perché il tanfo di morte non ammorbasse quel luogo.
Eric cominciò a supplicare. Dimenticò l’odio, la rabbia, la vendetta. Voleva solo andarsene. Non importava a che prezzo. Prendesse quello che voleva da lui, a patto che lo lasciasse vivo. Eric non voleva morire. Lo capì come mai prima di allora, come sempre avviene quando si avvicina la morte.
Il sussurro dell’estraneo richiamò la sua attenzione su di lui.
Un mormorio sommesso, incomprensibile, eppure scandito da una voce nitida. Cristallina. Una voce che aveva già sentito. Volgendosi verso di lui, Eric sussultò costatandone l’aspetto. Rivestito da una tunica rosso sangue, il volto era coperto da quella che pareva una maschera. Una maschera grottesca, di cui fin troppo presto Eric intuì la natura. A differenza delle teste sulle pareti, il volto dell’estraneo appariva in avanzato stato di decomposizione. Il fetore della morte, tuttavia, era ancora una volta assente. Ed Eric comprese che il processo di disfacimento era stato arrestato anche in quel caso, ma in ritardo.
Preso com’era dall’osservazione del volto e dalle suppliche, non notò immediatamente l’oggetto che l’individuo stringeva tra le mani ossute. Uno stiletto di metallo contorto, sottile e lucente. Non adatto a colpire né a tagliare. Ma a fare qualcos’altro, che la mente di Eric si rifiutò di concepire a lungo.
L’estraneo si avvicinò alla tavola, sollevando lo strumento con la mano destra. Si guardarono negli occhi, per la prima volta. Eric riconobbe quegli occhi. Riconobbe finalmente anche la voce che aveva udito. E l’uomo a cui appartenevano.
«Tu!» gridò in faccia all’uomo. «Brutto figlio di puttana!»
Fu l’ultima cosa che Eric Chapman disse, prima che lo stiletto penetrasse nel cranio passando per la narice.
 
   
 
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