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Autore: Lue    06/08/2012    8 recensioni
E sapevo benissimo di sembrare un idiota, con gli occhi spalancati, e le lacrime che scendevano e avrei voluto darmi un contegno perché ero un soldato, ma rimasi a bocca aperta, spaccato a metà tra la voglia di prenderlo a calci in culo fino ad ammazzarlo, e quella di sfiorargli gli zigomi e il collo e chiedergli dove sei stato e stringerlo a me per sempre.
Mi asciugai goffamente gli occhi con il dorso della mano, e ad un tratto mi sentii terribilmente piccolo e goffo nella mia vestaglia di lana.
Gli feci cenno di entrare e la porta si chiuse alle nostre spalle con un colpo secco.
Fuori aveva smesso di grandinare. Ma il bambino aveva iniziato a piangere.
“Shh, Hamish, stai buono”.
[Johnlock]
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes , Sig.ra Hudson
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Quello che non ti ho detto mai

"Love is why we do it,
love is worth the pain,
love is why we fall down
and get back up again.
Love is where the heart lies,
love is from above.
Love is this, this is love"
[This is love - The Script]



Tornai a casa, e trovai Sherlock intento ad osservare un addormentatissimo Hamish.
“Guarda”, sussurrò, facendomi cenno di avvicinarmi, “Guarda com’è concentrato… Quella ruga minuscola sulla frote indica che non sta facendo un bel sogno. Naturalmente è ancora troppo piccolo per fare dei veri e propri sogni, bisognerà aspettare ancora qualche mese, al massimo un anno. Ma anche adesso… anche adesso i suoi sogni hanno una consistenza, sono un insieme di emozioni, colori, luci, volti di persone…”.
“Sherlock…”, mi avvicinai. Lui spostò lo sguardo pensieroso su di me.
“Il corpo dice molto di quello che una persona sta sognando, John, il corpo degli adulti, più di quello dei bambini”.
“Sherlock, devo parlarti…”.
“Il tuo corpo dice molto, mentre sogni”.
Lo fissai interdetto.
“Come fai a saperlo?”.
Lui alzò le spalle, “Viviamo nella stessa casa”.
Rimanemmo un attimo in silenzio.
“Non dormi mai davvero bene”, riprese subito lui, “Ti agiti e il respiro ti si fa affannoso, a volte c’è un esponenziale aumento della sudorazione. Ripeti spesso una parola, ‘mio’, al massimo ‘miei’, si vede che possiedi qualcosa che temi di perdere, o meglio, che temi ti sia sottratto. Si restringe il campo: soggetto maschile (è ovvio che non sia qualcosa di materiale dall’attaccamento che ne risulta), dunque o io o Hamish. Di cosa hai paura, John?”, concluse in modo veloce, continuando a guardarmi negli occhi.
Chiusi gli occhi.
“Sherlock…”.
“La risposta è piuttosto semplice. Le tue paure più grandi sono due, ed entrambe riguardano me e Hamish: per quanto riguarda me, temi che io possa andarmene di nuovo, morire, e lasciarti di nuovo nel dolore, per quanto riguarda me e Hamish, invece, temi che qualcuno ci possa portare via. Qualcuno. Chi? Irene Adler, ovviamente, l’unica persona che potrebbe mai avere qualche interesse verso entrambi… John”.
Finalmente, tacque.
Io sospirai.
“Per tre anni sono tornato ogni settimana a strappare le erbacce dalla… dalla tua tomba. Ho sperato in un miracolo, ho pregato di poterti vedere ancora una volta per dirti tutto quello che non ti avevo detto, che non ti avevo detto mai. E poi tu sei tornato. E ho pensato fosse arrivato il momento di dirti tutto, avrei voluto dirtelo, ma ogni volta che pensavo a te e a me, pensavo anche a te e a lei”, deglutii, “E questo è… è…”, mi mancarono le parole.
“Lei è la madre di tuo figlio. Hamish… è sua madre. Io sono… John”, conclusi con un sorriso triste.
Sherlock prese un gran respiro, e, quando cominciò a parlare, sembrò combattere con la parte più sociopatica e irritante di sé.
“Quando l’ho conosciuta mi sono sentito… smarrito”, confessò con una punta di fastidio, “Perché era la prima volta che qualcuno riusciva a confondermi. Anche quando ti ho conosciuto, mi sono sentito smarrito. Hai ripetuto la parola ‘fantastico’ un centinaio di volte nella stessa giornata, descrivendo quello che facevo. Nessuno mi aveva mai trovato fantastico. Quando sono smarrito con te”, sospirò; quelle parole dovevano costargli davvero molta fatica, “Quando sono smarrito con te, sono comunque a casa. E lo stesso è per Hamish, sei suo padre, esattamente come lo sono io – tralasciando le implicazioni genetiche naturalmente. Sei John!”, esclamò esasperato, “Siamo Sherlock e John, tu sei la mia casa, e se non vieni con me e Hamish, se rimani qui…”, non riuscì a finire la frase.
In uno slancio di coraggio – dopotutto ero stato un soldato – gli impressi un bacio sulle labbra.
“Ci vengo, Sherlock. Certo che ci vengo”
 
Se un tempo la vita al 221B di Baker Street era stata rumorosa e quotidianamente pericolosa, con l’arrivo di Hamish e il consolidamento del rapporto tra me e Sherlock, divenne se possibile ancora più chiassosa e confusionaria.
La camera al piano di sopra, che era stata mia, la più piccola, servì da cameretta per Hamish, contenente tutti i giocattoli regalatigli da tutti i nostri conoscenti e amici (che si erano irrimediabilmente innamorati di lui), e la piscinetta gonfiabile, e la quantità abnorme di abitini donati da Mycroft.
Io e Sherlock dormivamo insieme nella camera di sotto, svegliandoci a ogni più lieve rumore proveniente dall’interfono sul mio comodino, comunicante con la stanza di Hamish.
Ricominciammo a prendere dei casi e – non ne siamo mai stati troppo fieri – spesso portavamo Hamish con noi. Fu così che conobbe, e adorò, Molly. In una delle poche visite – presto capimmo che non era un luogo adatto a un bambino – all’obitorio.
Il primo giorno di scuola di Hamish, io e Sherlock fummo irraggiungibili per i nostri clienti, e accompagnammo il nostro bambino a scuola.
Tra una folla di mamme starnazzanti e ragazzini in lacrime, noi tre spiccavamo di sicuro. Hamish, mio figlio, appena vide avvicinarsi quella che doveva essere la maestra, si voltò desolato verso di me, stringendomi la mano.
“Guarda che adesso pa’ comincia…”.
Ci misi meno di mezzo secondo per capire, il tempo necessario a Sherlock per cominciare.
“A-ha. Celibe, sui trentasei anni, ha un gatto, persiano. Figlia unica, ha dormito da un’amica, i residui di zucchero sul maglione, sotto il seno, indicano che è piuttosto goffa, si è fatta cadere addosso la ciambella. Pupille allargate e guance rosse: ama il suo lavoro. Mh”, rifletté, mentre io e Hamish ci scambiavamo uno sguardo, “Può andare”.
Sollevato dal verdetto, Hamish si alzò in punta di piedi e abbracciò Sherlock, che gli accarezzò delicatamente i capelli.
“Non vergognarti di essere più intelligente degli altri, anzi cerca di insegnare loro quello che non…”.
“Non ascoltarlo”, lo interruppi con un’occhiataccia, rivolgendomi a Hamish, “Sii gentile con tutti, e non fare lo sbruffone come tuo padre”, Sherlock emise un verso di disappunto, “Ci vediamo tra qualche ora”, sorrisi mentre Hamish mi si gettava tra le braccia, e ricambiai la sua stretta.
“Non sono uno sbruffone”, protestò Sherlock mentre Hamish e gli altri bambini entravano in classe.
“Sei decisamente uno sbruffone. Ma sono passati quasi dieci anni e ti amo ancora lo stesso, quindi non me ne preoccuperei troppo”.
Sherlock scoppiò in una risatina soddisfatta, si abbassò finché le nostre labbra non furono allineate e mi diede un bacio leggero.
“Dici che andrà tutto perfettamente, vero? Che si troverà degli amici e sarà contento…”, gli sussurrai all’orecchio.
“Naturalmente. Per fortuna, mi tocca dire, ha preso qualcosa anche da te”.
 
Ho trascorso tutta la mia vita in cerca di qualcosa che si avvicinasse all’idea di pace. In passato non ho avuto molta fortuna, sono stato ferito in molti modi diversi e mi sono trovato tante volte sull’orlo del baratro, indeciso se buttarmi o provare a rimanere in piedi, una volta ancora. Beh, sono rimasto in piedi. Nonostante tutto. E oggi posso dire di aver trovato quello che cercavo. La pace.
Hamish sta frequentando il college, vuole laurearsi in medicina e – con leggero disappunto di Sherlock – diventare un pediatra.
Per quanto riguarda me e Sherlock, viviamo ancora in Baker Street e accettiamo i casi che ci vengono proposti. Naturalmente solo quelli che Sherlock non reputa troppo noiosi. Ma devo dire che col tempo si è fatto più indulgente.
La mia pace è la mia famiglia. È trovare Sherlock sul divano, nell’esatta posizione in cui l’avevo lasciato quando sono uscito per fare la spesa. Sono le telefonate di Hamish, e il modo in cui risponde “Ciao pa’”, e lo sento proprio che è felice di parlare con me. Le foto sul caminetto, accanto al teschio, naturalmente, e il nuovo frigorifero nell’angolo, perché con un bambino non potevamo certo tenere parti umane accanto ai pomodori.
Mi sono arrabbiato con la mia vita, tante volte, per tutto quello che mi ha tolto e che ho perduto, ma se queste cicatrici mi hanno permesso di diventare quello che sono e di avere quello che ho adesso, allora non rinnego neanche la più piccola.
Mi chiamo John Watson, sono un medico e vivo al 221B di Baker Street. Sì, con il mio compagno e mio figlio. No, non sono propriamente gay. Sì, esatto, sono solo innamorato di lui.
Sì, sì, sono felice. Sono molto felice.
 





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Ecco l'ultimo capitolo :) Ringrazio tutti coloro che hanno lettorecensitoseguito questa storia, tipo che vi ho amato <3
L'avventura di John, Hamish & Sherlock non finisce qui per la vostra (spero) felicità ehehe!
Ho già pronti due spin-off e due altri in cantiere su questa straana famiglia! E bbeh, dato che sono in una landa desolata senza niente da fare, li finirò/pubblicherò molto presto. Magari anche nei prossimi giorni :3
Eee bon, niente, mi permetto di farmi un po' di pubblicità (volete sprofondare nella disperazione, perchè angst è sempre sempre meglio? cosa aspettate!? correte a leggere Beneath - e poi, se volete, potete anche uccidermi), e di ringraziarvi ancora.
Un bacione e alla prossima!
Lu

   
 
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