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Autore: Lisey26    06/08/2012    2 recensioni
Il titolo non è un caso. Antea è il nome della protagonista, dal greco antico ἀντὶ ("in cambio di", oggi "contro") e μοῖρα ("destino").Racconto greco, classico gioco del destino. Una donna si illude di poter cambiare ciò che l'oracolo ha predetto.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La mia storia, non è che la storia della stupidità di una donna, che cercò di mettersi contro al destino.
 
Il mio nome è Antea, e da sempre vivo qui, ad Atene. Il mio viso, come si addice ad una donna del mio rango, è candido ed incorniciato da boccoli scuri, sempre raccolti, mentre i miei occhi sono color della grafite. Fu con questi occhi che guardai quell’oracolo, l’oracolo di Moira.
A quei tempi, poco prima che sposassi il mio promesso Creskles, consultare un oracolo era di gran voga tra le famiglie altolocate come la mia, così, per non essere da meno mi recai anch’io a Moira, dove risiedeva un famoso oracolo.
Quanto vorrei, con il senno di poi, che gli dei me l’avessero impedito! Soltanto ora mi rendo conto di come distrussi quattro vite con un semplice consulto. Eppure, come insegna la mia stessa storia, non si può sfuggire al proprio destino.
Arrivata in pellegrinaggio a Moira, una piccola isola a sud di Atene, mi inerpicai sul sentiero che portava alla grotta dell’indovina. Dopo tanta fatica, ricordo di aver pensato, meritavo un pronostico più che azzeccato. Non sapevo ancora che avrei avverato io stessa l’orribile delirio dell’indovina.
Entrai nella grotta e attesi che i miei occhi si abituassero all’oscurità. Ciò che vidi, non appena ne fui in grado, fu stupefacente: le pareti erano cosparse di singolari  simboli, lettere dell’alfabeto, disegni sbavati e tanto sfumati da rendere difficile il distinguerli dalle chiazze di umidità. In fondo alla caverna era ammucchiato quello che doveva essere un giaciglio di paglia, con alcuni stracci che immagino fossero coperte. Al centro della grotta, invece, era seduta una donna. Era anziana e mandava un’aura di saggezza. Esitai sulla soglia, indugiando sulla vecchia che pareva immersa in una sonno tormentato. Lunghi capelli bianchi le scendevano fino alla vita, e le sue palpebre chiuse parevano rughe, tali e quali  alle altre che adornavano tutto il suo viso grinzoso. Faticai a convincermi a parlare, ma quando feci per aprire la bocca l’indovina alzò una mano verso di me. Tacqui. Con un cenno mi chiamò a  sé. Mi avvicinai e depositai ai suoi piedi il cibo che avevo portato in tributo, lei lo sfiorò appena con la mano, poi lo portò rapidamente dietro di sé.
Prese la mia mano, e la tastò, la accarezzò, mormorando arcane parole, finchè d’un tratto i suoi occhi ciechi si spalancarono e fissarono i miei, come se davvero mi vedessero. Era palesemente cieca, gli occhi erano completamente, uniformemente bianchi. Sussultai, e se solo ne avessi avuto la forza sarei certamente fuggita. Le labbra grinzose della donna si schiusero a lasciarne uscire il verdetto: “Il tuo matrimonio, Antea, sarà fecondo. Avrai figli, ma diffida della bambina, poiché sarà la causa della morte del padre. Hai avuto le tue risposte, donna, ora va”
Mi alzai e mi allontanai in fretta, scossa e senza una parola.
Poche settimane dopo festeggiavo le mie nozze con Creskles e mi trasferivo nella grande casa nella quale avrei passato i miei giorni. Non dimenticai mai il pronostico dell’indovina, così non permisi mai ad alcuna bambina di avvicinarsi alla mia casa. Alcuni mesi dopo il matrimonio scoprii di essere incinta: per nove mesi io e mio marito non facemmo che felicitarci del bambino in arrivo, mentre io scongiuravo gli dei che non nascesse una femmina. Non avevo mai detto a Creskles di essere stata a Moira, così lui non sapeva delle mie preoccupazioni e mi guardava pregare Hera giorno e notte.
Le mie preghiere, purtroppo non vennero ascoltate, o meglio, vennero ascoltate per metà: il gran giorno diedi alla luce due gemelli, un maschio ed una femmina. Diedi al bambino il nome di Nektarios, e alla bambina quello di Nymphodora. Subito dopo feci portar via ed uccidere la piccola, che venne gettata a mare dalla punta della scogliera.
Ancora me ne vergogno, ancora non dormo sonni tranquilli, per ciò che ho fatto. Uccidendo l bambina che non aveva colpe, mi sono macchiai del sangue del mio sposo e del nostro frutto.
Non dissi a mio marito di Nymphodora: non avrei mai voluto preoccuparlo. Ma forse quel che volevo era schermare me stessa dal suo giudizio. Temevo che le frecce di Eros l’avrebbero abbandonato se gli avessi rivelato le mie paure.
 Hera benedisse il nostro Nektarios con il dono della salute e con quello della bellezza. Tutto sembrò andare a gonfie vele, finchè una notte, diciassette anni dopo il parto, non mi sveglia di soprassalto in preda agli incubi. Nymphodora mi parlava ogni volta che chiudevo gli occhi, accusandomi delle sua morte prematura. “a causa tua, madre” diceva la neonata sottolineando maglingnamente l’ultima parola “a causa tua la mia vita è finita quasi prima di cominciare”. Non dormivo più: presto mi ammalai e mio marito chiamò i medici, la volontà di liberarmi dei miei mali mi costrinse confessare, davanti a mio figlio e a mio marito. La mia voce tremava e i miei occhi erano bassi. Ero coperta di vergogna mentre narravo  ciò che avevo fatto tanti anni prima. Il mio racconto sconvolse entrambi. Gli incubi mi abbandonarono, ma a quale prezzo! Non riconoscevo più né mio marito, né mio figlio: Creskles non mi rivolgeva quasi la parola, stava spesso e troppo tempo fuori casa a cacciare diceva, ma in città si mormorava che vagasse farneticando. Sospetto che Nymphodora infestasse il suo cammino. Lui mi guardava con profonda tristezza.
Nektarios, mi affliggeva ancora di più: lo sentivo agitarsi nel suo letto di notte, gridare nel sonno, svegliarsi di soprassalto. Mio figlio smise di dormire, diventò sempre più debole e pallido, finchè un mese dopo si addormentò finalmente nel sonno eterno. “Ora potrà dormire per sempre” pensai fra le lacrime, mentre chiudevo i suoi occhi ed aprivo la sua bocca, in modo che l’anima potesse fuoriuscirne. Fui io a posare le monete d’argento sulle sue palpebre, e ve ne misi due in più. “Possa Caronte traghettarti nell’Ade, e possa egli convincere tua sorella a venire con te. Abbiamo pagato abbastanza”, sussurrai all’orecchio di mio figlio, prima che la pira fosse avvolta dalle fiamme. Eppure sapevo anche allora che no, non bastava. Me lo aveva detto l’oracolo di Moira, in un giorno maledetto voluto dagli dei.
Il mio sposo prese a restare fuori per tutto il tempo. Se prima lo vedevo almeno accarezzare il cane, occuparsi degli schiavi, cercare nostro figlio, ora non tornava per giorni. I suoi affari cominciarono ad andare male, la gente mormorava fosse ammattito per la morte del figlio. Egli, sapevo io, non era impazzito soltanto per la morte di Nektarios. Ero stata io a spingere la roccia dalla montagna, e ora il peso rotolava sempre più dentro di lui. Era solo questione di tempo prima che anche lui venisse trascinato nell’oblio. Durò alcune settimane. Infine,  Creskles non si fece vedere per molti giorni. Il suo corpo fu trovato, dilaniato dalle onde e dagli scogli appuntiti, proprio dove tanto tempo prima era finito quello di nostra figlia.
Di tanto in tanto, mi dico che se solo Zeus mi avesse impedito di recarmi a Moira, sarei ancora felice. Ma ora è tardi per piangere, è tardi per rimediare, è tardi per cercare nuova vita. La moira per me era scritta da tempo, e io, povera mortale, non potevo far altro che compierla.
Sono sola ora, maledetta madre di una stirpe distrutta, in una casa vuota che un tempo risuonava delle risate di un bambino e del tintinnio delle monete. Dopo tutto, Nymphodora è quellaa di noi che ha avuto il destino migliore. L’agonia di Creskles e quella di Nektarios, un fanciullo che ancora non aveva visto che le cose belle del mondo, sono la mia pena. Non passa giorno senza che io non cerchi consolazione in Persefone, alla quale brucio colombe e maialini.
A gran voce chiamo la mano delle Parche, chiedo di dormire anchio, di poter trovare infine, nel buio, le ginocchia dei miei cari da abbracciare e sulle quali piangere per domandare senza sosta il perdono.
 
Il destino si burla di noi, facendoci credere di poterlo scegliere. Ci dà l’illusione di poter cambiare le cose, quando è proprio così che azioniamo la macchina della nostra vita.Non siamo che foglie in balia del vento.
  
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