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Autore: Porrima Noctuam Tacet433    08/08/2012    7 recensioni
La guerra tra Francia e Inghilterra si è appena conclusa. I vincitori esultano, ma... il Leone?
Dal testo:
Mi aggrappo con forza alle catene che mi feriscono i polsi, deciso a non lasciare andare nemmeno un particolare dei miei ricordi. Sono un prigioniero. Non so da quanto, non so per quanto ancora. Ma resisterò, sempre.
Genere: Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Geoffrey Martewall
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E adesso torna a casa

 

Ho paura.                                                                                                                                                                                  

Forse, se ancora avessi voglia di parlare tra me e me, sarebbe questo che direi. Non mi vergogno. La paura fa parte di noi, senza quella non saremmo uomini, senza la paura non esistono i cavalieri. Era questo che dicevo ai miei soldati prima di ogni battaglia?

Non lo so. La sicurezza di qualunque pensiero sfuma ed impallidisce lentamente, come se ci tenesse a lasciarmi la mente completamente svuotata con studiata lentezza, minuto dopo minuto. Sta diventando difficile distinguere i ricordi dalle fantasie.                                                              

Forse, quando sei un prigioniero, i sogni e la realtà sono come la notte e il giorno. Dopo un po’ si perde la voglia di riconoscerli e dividerli tra loro, e ti abbandoni alle false consolazioni che ti possono offrire.                    

Mi aggrappo con forza alle catene che mi feriscono i polsi, deciso a non lasciare andare nemmeno un particolare dei miei ricordi. Sono un prigioniero. Non so da quanto, non so per quanto ancora. Ma resisterò, sempre.

 

*

Arnaud strinse la fiaccola tra le mani. La fiamma danzava gagliarda sull’estremità della torcia, quasi come  fosse felice di essere venuta al mondo. Il soldato allontanò dal viso il suo calore, allungando il braccio e gettando ombre sinistre lungo il corridoio delle segrete dei Soissons.  Si scostò appena per far passare uno dei tanti servitori del suo signore, che quel giorno aveva ricevuto l’ordine di portare il cibo ai prigionieri.

Arnaud fece strada a quello che non si poteva definire niente di più che un ragazzino tremante dalla testa ai piedi. I suoi occhi erano pieni di dubbio e di paura, si guardava intorno sempre più frequentemente, il suo passo era incerto. Arnaud provò quasi pena per lui.

Dopo una guerra come quella che si era finalmente conclusa a Bouvines, le carceri si riempivano di uomini. Soldati, cavalieri, feudatari e scudieri si aggiungevano alle file di ladri e assassini che già popolavano quell’ambiente oscuro e soffocante.  Chi dietro le spalle aveva una famiglia di conti o baroni, che potevano quindi pagare una cifra piuttosto alta per riavere al loro fianco i famigliari, veniva rilasciato in libertà.

Sembrava che appena un uomo mettesse piede nella dimora di un conte come prigioniero di guerra,  cessasse di essere un cavaliere, un barone o uno scudiero. Ma possedeva un prezzo, che il carceriere esigeva senza trattative.  Solo chi era davvero molto importante veniva trattato con riguardo, come era successo per il fratellastro del re d’Inghilterra.

Nella maggior parte dei casi, comunque, chi entrava nelle carceri non ne usciva senza lasciare un cospicuo pagamento. Era la triste realtà, una verità a cui Arnaud era abituato già da molti anni.

 

Le preghiere pronunciate a voce alta dal pover uomo nella cella accanto alla mia mi riecheggiano nelle orecchie. Se non fosse per lui, regnerebbe un silenzio profondo. Non so se preferisco le sue parole, il suo lamento disperato, le suppliche rivolte al soldato che viene due volte al giorno a portare del pane, o un silenzio che opprime le pareti e sa di muffa e paura.

Anche se so che essendo il figlio di un barone non rischio quasi niente, qui c’è qualcosa che mi mette angoscia. Forse è la brutale realtà di cui sono venuto a conoscenza in un modo così improvviso. Forse, la prigionia, non me l’aspettavo così.

Sono stato trascinato qui in catene, ma ho tenuto sempre la testa alta con orgoglio e sfrontatezza. Ero consapevole che sarebbe stata una dura prova, ma avevo la presunzione di poterla affrontare senza paura, accettando ancora una volta quel destino che di lasciarmi in pace proprio non ne voleva sapere. La verità è che non avevo la minima idea di dove questa volta mi avrebbe portato. Non avevo nemmeno pensato alle grida dei padri, ai prigionieri che erano lì da moltissimo tempo e ormai avevano perso la testa, alle preghiere continue del mio vicino di cella o alle persone che si buttavano contro le porte impenetrabili della prigione per un altro tozzo di pane, che sanno già che gli verrà negato.

A stento riesco a capire il significato delle loro parole, ma il suono di quelle grida mi arriva nitido alle orecchie.  Mi chiedo se mi ridurrò anche io così.

Stringo i pugni e inarco la schiena, lasciando che l’improvvisa luce della porta appena aperta mi accechi per un momento. Qualunque cosa succeda, nessuno mi porterà via quello che resta di Geoffrey Martewall. Faccio appello a tutta la determinazione che ho, a tutto il coraggio che riesco a trovare, anche se non mi sono mai sentito tanto debole in vita mia e di coraggio ne sento ben poco. Eppure, il forte orgoglio che caratterizza un po’ tutti i Martewall mi permette di  guardare sempre dritto negli occhi uno dei miei carcerieri.

Questa volta è un ragazzino a portare il cibo. Sembra più spaventato lui di tutti i prigionieri messi insieme. Evidentemente le urla non impensieriscono solo me.

Mi posa vicino al braccio un pezzo di pane e versa dell’acqua nuova nella ciotola, con mano tremante. Mi guarda alzando appena gli occhi, lo sconcerto ha lasciato il posto allo stupore sul suo viso. Rimango impassibile ed immobile, nonostante la fame mi attanagli lo stomaco. Gli occhi del ragazzino sono dilatati dalla sorpresa. Forse si aspettava che gridassi anche io, che mi accanissi su quella misera porzione di cibo che mi spetta, o che lo supplicassi.

Mi limito a guardarlo negli occhi, una calma glaciale mi pervade, finché il ragazzo non viene richiamato dal soldato rimasto fuori dalla cella.

 

Arnaud esortò il servo davanti a lui con una pacca sulla spalla, mentre i prigionieri continuavano a protestare. Quelli erano i pochi momenti di vita delle prigioni, quando i prigionieri potevano sentire i passi delle persone libere, al di fuori delle loro celle. Per il resto, erano avvolte in un silenzio angosciante e innaturale. A parte qualcuno che sussurrava e delirava a voce bassa, così velocemente che le parole risultavano incomprensibili.

Il soldato richiuse con un tonfo secco la porta della piccola cella. Come aveva previsto, il prigioniero non emise un gemito di fronte alla luce che spariva improvvisamente. Ormai, dopo quasi quattro mesi che gli portava il cibo due volte al giorno, Arnaud si era abituato al suo silenzio.   Le prime volte invece ne era rimasto stupito, esattamente come il giovanissimo servitore, e aveva fatto in modo di informarsi sul conto degli ultimi uomini arrivati al castello come prigionieri di guerra. Non sapeva comunque molto su di lui. Era l’ultimogenito di un barone inglese, per il resto  l’unica cosa che era riuscito a capire era il fatto, piuttosto evidente, che il cavaliere non aveva nessuna intenzione di smettere di lottare, come facevano alcuni dopo soli due mesi passati nelle terribili prigioni dei Soissons. In qualche modo, Arnaud ammirava quel giovane, e si chiedeva come mai ancora nessuno fosse venuto a pagare il suo riscatto.

 

Il buio arriva troppo velocemente, torna prima che per i miei occhi sia possibile abituarsi alla luce. Quanto tempo è passato? Da quanto sono qui? Non faccio altro che chiedermi questo. A stento ricordo i primi tempi di prigionia, quando ancora avevo voglia di contare i giorni.

Detesto questo silenzio, forse più delle urla o delle suppliche tormentate dei prigionieri. Il mio vicino di cella ha smesso di pregare, ed io comincio ad odiare quest’aria vuota di suoni. Un qualsiasi cambiamento potrebbe forse risollevarmi, farmi stare meglio. La prigione sembra fuori dal tempo.

Quando ero appena arrivato, a volte mi capitava di sentire qualcuno parlare da solo, fare ragionamenti in solitudine, ricordare a voce alta quello che aveva visto in passato. Rimanevo sempre spiazzato e incredulo ascoltando quelle voci. Adesso, invece, capisco terribilmente bene il bisogno di sentire la propria voce, di parlare anche se infondo non si ha nulla da dire a nessuno, di ricordare ad alta voce.

Devo aver passato molto tempo qui dentro, perché ricordo di aver provato a parlare da solo anche io, a sussurrarmi delle frasi qualunque, dall’inutile contenuto, giusto per sentire di nuovo una voce umana. Ma mi sembra di essere diventato pazzo, e mi blocco subito dopo le prime parole, con orrore.

Non riesco ad addormentarmi, nonostante la stanchezza mi percorra le membra.  Forse per il dolore e il fastidio alle spalle ormai stanche di stare sempre nelle solita e scomoda posizione che le catene impongono loro, o per l’odore di muffa che mi tronca il respiro. Forse per i miei pensieri.

Forse, Geoffrey, tu pensi troppo per essere un prigioniero.

Non ho ancora abbandonato niente, nemmeno un dettaglio di quello che mi è capitato in questi ventisei anni. Ho il terrore di dimenticare, riporto continuamente alla mente ogni momento del passato. Non sono disposto a cedere. Ho ancora molto da perdere.

Le immagini della mia famiglia sono i ricordi più dolci e più tormentati allo stesso tempo. Chissà quante cose sono successe mentre io sono inchiodato qui.  Voglio sapere come stanno. Voglio sapere qualcosa, qualunque cosa andrebbe bene. Voglio tornare libero, non tanto per me, quanto per loro.

Mi chiedo se mio fratello sia già tornato a casa, se sia scampato alla prigionia o dove si trova adesso.

Una volta l’ho sognato. L’ho sognato con gli occhi spenti, come quelli di tanti altri cavalieri che ho visto in battaglia. Come quelli di Jerome.

 

*

Arnaud si fermò davanti alla cella, le gambe appena divaricate. Con un certo sforzo riuscì ad aprire la pesante porta, spessa quasi quanto le pareti. Intimò agli altri due soldati che lo accompagnavano di restare fuori e aspettare. Mosse qualche passo in avanti, mentre cominciava ad intravedere il viso magro e provato del prigioniero.  Si fermò per un attimo a guardarlo, senza chinarsi, e il cavaliere sostenne il suo sguardo, anche se con occhi gonfi di stanchezza. Arnaud non poteva impedirsi di provare compassione e rispetto per quel giovane, che avrebbe potuto benissimo essere suo figlio.

Gli sorrise, si chinò su di lui e lo aiutò ad alzarsi, sorreggendolo. Tirata fuori una grossa chiave dal tascapane di cuoio, lo liberò dalle sue catene.

<< Siete libero, Geoffrey Martewall. >>

 

Libero.

Libero.

Il mio primo istinto è quello di non lasciarmi ingannare dalle mie fantasie. Poi sento l’aria sui polsi liberati dalla morsa delle catene. La porta rimane aperta, e confusamente mi ritrovo a ricordare tutte quelle volte in cui mi si è stretto lo stomaco al vederla chiudersi. Sento il cuore accelerare i battiti. E se fosse vero?

Qualcosa si risveglia dentro il mio petto e lo scuote, una pallida luce, che via via si fa più brillante.

Mi lascio guidare verso l’uscita delle prigioni, e quasi dubito di essere proprio io quello che, un passo dopo l’altro, si avvicina alla luce del sole.  L’incredulità lascia un po’ di posto alla gioia, una gioia improvvisa.

Una gioia compresa solo dai prigionieri. Come trovarsi con una porta sospesa sopra la testa. Mi sento diviso tra la voglia di toccarla e la paura che sia un’illusione, la paura di cadere di nuovo in quel baratro buio.

 Non vorrei voltarmi indietro, eppure lo faccio, perché so che dietro di me lascio tante persone che non avranno mai la mia stessa fortuna. Alcuni hanno una famiglia che continua ad aspettarli alle spalle. Per questo, ho imparato a non lamentarmi, perché infondo io sapevo di avere speranza. Sapevo che sarei uscito.

E malgrado la gioia, la nostalgia di Dunchester e della mia famiglia, adesso che sto per lasciare per sempre questo posto orribile, adesso che sono sulla soglia della libertà e la luce del sole mi illumina il volto, riesco solo a pensare a quanto sia ingiusto tutto questo. Porterò sempre nel cuore le suppliche del mio vicino, pregherò per non sentirle mai più in vita mia. A lui non servirà, ma forse servirà ad altri, servirà alla gente di Dunchester, che rimane anche sotto la mia responsabilità. Non posso fare altro.

L’aria mi accarezza il viso, mentre prendo un profondo e avido respiro riempiendomi i polmoni. Mi sembra che davanti alla mia felicità, tutte le altre sfumino.  Le parole del soldato che mi ha sorretto pochi minuti prima continuano ad attraversare la mia mente, improvvisamente leggera.

<< Sei libero, Geoffrey Martewall. >>

Sei libero.

E adesso torna a casa.



Angolino di Rima

Non so nemmeno da dove è venuta fuori, questa fic. : )

Come avrete notato subito, ho aggiunto due personaggi creati da me ( e anche un po' inutili ), e la parte in corsivo sono i pensieri del nostro caro, vecchio Geoff.
Ringrazio in anticipo chi avrà voglia di recensire questa storia ( a proposito, le critiche e i consigli sono più che accetti, come sempre. ) o anche solo di leggerla.
ciao!
Rima N.

 

 

 

  
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