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Autore: Lue    08/08/2012    8 recensioni
“Va bene, basta così”, lo interruppi. Diamine, a volte dimenticavo quanto avesse preso da suo padre. “Non è questo il punto, il punto è che devi smetterla di tenerci il broncio così. Non puoi andare a fare il giro della Spagna da solo…”.
“Ma non sarò da solo!”.
“Siete quattro quindicenni!”, gridai a quel punto, mettendomi le mani tra i capelli.
Poi presi un grande respiro, “Hamish. Tu non ci vai”.
“Non puoi impedirmelo!”, con un balzo si alzò dal letto.
“Certo che posso, sono tuo padre”.
I suoi occhi si ridussero a due fessure.
“No che non lo sei. Tu non sei il mio vero padre. Quindi non puoi impedirmi niente”.
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Essere e non essere


“IO VI ODIO!”.
La porta sbatté con uno schiocco fragoroso, i muri tremarono, e un pezzettino di carta da parati si staccò, volteggiò delicato, e si posò esattamente nella mia tazza, annegando dopo qualche secondo nel tè caldo.
“Adesso basta”, decretai, posando la tazza sul tavolino ingombro di fogli, più rivolto a me stesso che a Sherlock, che sfiorava sovrappensiero le corde del violino, stravaccato sul divano.
Mi schiarii la voce, e mi diressi verso la camera di Hamish al piano di sopra.
Aprii la porta e lo trovai sdraiato sul letto, con le cuffie nelle orecchie e la stessa postura – diamine, non potevano cercare di stare più composti? – di Sherlock.
“Allora?”, esordii, conscio che poteva sentirmi, nonostante la musica nelle orecchie.
Lui mi ignorò, assumendo un’espressione annoiata e giocherellando coi fili delle cuffie.
“Hamish”, alzai la voce, “Togliti quella roba dalle orecchie…”.
“Altrimenti?”, si strappò via le cuffie guardandomi con aria di sfida, “Tanto mi avete già tolto tutto!”.
“Oh, santo cielo”, sbuffai, “Solo perché non ti lasciamo…”.
Solo?! Stai scherzando!”, esclamò portandosi le mani alla testa, “Ci vanno tutti, pa’! Tutti!”.
“Ah, sì? Per esempio chi?”.
“Tutti! Robert e…”, annaspò, “…e Carl! E ci va anche Marcus!”.
“Marcus, ma davvero?”, ridacchiai, “Strano, perché ieri ho incontrato sua madre e sembra non avere la minima intenzione di lasciarlo andare”.
“Certo che ti ha detto così!”, gridò Hamish esasperato, “Ha una cotta per te! L’avrà detto solo per darti ragione!”.
“Hamish, santo cie… Una cotta per me? Ma per favore…”.
“Ha una cotta per te”, inspirò profondamente e poi riprese a parlare velocemente, “Alle cene tra genitori cerca sempre di mettersi alla tua destra, essendo mancina può urtarti con la mano e il gomito e fingere che sia casuale. Quando ti incontra per strada si passa le mani tra i capelli, tipico gesto di seduzione…”.
“Va bene, basta così”, lo interruppi. Diamine, a volte dimenticavo quanto avesse preso da suo padre. “Non è questo il punto, il punto è che devi smetterla di tenerci il broncio così. Non puoi andare a fare il giro della Spagna da solo…”.
“Ma non sarò da solo!”.
“Siete quattro quindicenni!”, gridai a quel punto, mettendomi le mani tra i capelli.
Poi presi un grande respiro, “Hamish. Tu non ci vai”.
“Non puoi impedirmelo!”, con un balzo si alzò dal letto.
“Certo che posso, sono tuo padre”.
I suoi occhi si ridussero a due fessure.
“No che non lo sei. Tu non sei il mio vero padre. Quindi non puoi impedirmi niente”.
Ah.
Hamish capì di averla detta grossa mezzo secondo dopo. L’arroganza scivolò via dal suo viso, sostituita da un’espressione di puro terrore e sorpresa per quello che aveva appena detto.
Si mosse verso di me e aprì la bocca per parlare, ma io lo frenai con un cenno della mano.
Sospirai guardandolo, e poi uscii dalla stanza.
 
Fuori dalla porta trovai Sherlock. Era appoggiato allo stipite del muro, e fissava pensieroso la porta della camera di Hamish.
“Vado a comprare la cena al solito cinese, torno tra un po’”, mormorai.
Lui spostò lentamente lo sguardo dalla porta a me e, mentre gli passavo accanto, mi fermò e mi posò un bacio leggero sulla fronte.
Scesi per la strada e mi avviai lungo Baker Street. Non ero poi così sorpreso dalla rispostaccia di Hamish: fin dalla prima volta che l’avevo sentito chiamarmi pa’ avevo immaginato un futuro non troppo lontano in cui mi avrebbe rinfacciato che io, geneticamente, non ero nessuno. Naturalmente avevo sperato che non accadesse, ma da quando Hamish era entrato nell’adolescenza, beh, era stato come se sulla nostra vita si fosse abbattuto un tornado.
In casa nostra non c’erano discussioni, c’erano guerre civili. Tra me e Hamish.
Perché naturalmente Sherlock rimaneva sospeso nel suo mondo, giocherellando col teschio sul divano, mentre io e Hamish eravamo vicini a lanciarci i piatti addosso. Non è che non intervenisse mai, ma il più delle volte preferiva rimanerne fuori, costringendo me a interpretare la parte della madre con il no stampato in fronte.
Arrivai al ristorante cinese e mi misi in coda dietro una coppia di ragazzi.
Però. Però faceva male lo stesso. Nonostante me lo aspettassi da tredici anni*, da quando le sue dita minuscole si erano arpionate al mio maglione e non lo avevano più lasciato.
Faceva male, perché, diamine, nonostante tutto, io ero suo padre.
Pagai e mi avviai verso casa, col sacchetto fumante tra le mani.
 
La cena si svolse nel più assoluto silenzio. Silenzio che Sherlock, dopo un po’, ruppe con un’affermazione secca.
“Sbagliato”.
Io e Hamish lo guardammo sorpresi.
“Definizione della parola padre”, invitò Hamish a rispondere con un cenno della mano.
“Pa’…”, pigolò lui, “Lo so che non avrei dovuto…”.
“Padre, genitore”, Sherlock lo ignorò, “Chi ti nutre, ti tutela, ti cresce. Chi vive nella tua stessa casa. Chi ti ama, ti accudisce, chi impedisce che tu ti metta nei guai. Chi, il giorno del tuo compleanno, si sveglia due ore prima per prepararti la tua colazione preferita”, tacque, guardandolo negli occhi.
Hamish era diventato rosso come un pomodoro.
“Ti sembra una definizione esaustiva?”, continuò Sherlock.
Lui annuì piano.
“Bene. Ora finisci di mangiare”.
Io, esterrefatto, cercai gli occhi di Sherlock, ma lui ritornò a giocherellare con gli spaghetti nel piatto.
Sospirai, sfiorandogli la mano sotto il tavolo in un grazie silenzioso. Lui me la strinse forte.
 
Dopo cena mi sedetti sul divano e, dopo qualche istante, Hamish mi raggiunse.
“Pa’…”, esitò un secondo, “Potremmo andarci insieme, noi tre, in Spagna, quest’estate, fare una vacanza di famiglia. Sarebbe… bello, più bello che coi miei amici”.
Mi sfuggì una risatina: mio figlio, come Sherlock, non era proprio capace di chiedere scusa.
“Sì, potremmo”, risposi, sorridendogli.
I suoi occhi si riempirono di gioia e sollievo.
Sherlock si sedette sulla poltrona davanti a noi.
“È un modo per chiedere scusa a tuo padre, Hamish?”, domandò come se nulla fosse.
Hamish annuì gravemente.
“Perfetto”, riprese Sherlock. Poi si rivolse a me, “Ah, John, ricordami di prendere posto alla tua destra alle prossime cene tra genitori, la madre di Marcus sta diventando troppo… invadente”, decretò con fastidio.
Io e Hamish ci scambiammo un’occhiata e scoppiammo a ridere.
“A dir la verità io la trovo piuttosto simpatica”, commentò Hamish ridendo.
“Oh, sì”, gli diedi manforte, “È di ottima compagnia!”.
Sherlock si alzò stizzito, prese tra le mani il violino, e iniziò a suonare la melodia che aveva inventato per le volte che lo facevamo arrabbiare.
Ma sulle sue labbra strette scorsi l’ombra di un sorriso furbo.
La quiete era tornata in Baker Street.
Per ora.
 
 
 
*nella storia da cui è tratta questa, Sherlock porta Hamish a casa che ha già quasi due anni




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Cooooome promesso, ecco uno degli spin-off di Quello che non ti ho detto mai ! (non li pubblicherò in ordine di tempo)
Eee spero che vi piaccia! :D
Un bacio!
Lu

   
 
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