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Autore: LadyProud    09/08/2012    3 recensioni
Per non scomparire mentalmente, avrei dovuto legare insieme tutti i pensieri che avrebbero voluto perdersi per non essere più ritrovati; ma la mia volontà sarebbe stata debole come un filo di spago, poiché il peso dei miei ricordi è gravoso.
Sì, sarebbe stato proprio come compiere un lungo viaggio verso Dio solo sa dove, senza sapere neanche cosa avessi messo nella valigia; più che il peso di quest’ultima, quello che mi schiaccerebbe sarebbe il senso di estrema precarietà.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1.





Drin. Drin. Drin.

«Mfff… Chi è a quest’ora?»
Allungai svogliatamente una mano per raggiungere il cellulare, che si trovava sul comodino alla destra del mio letto e che in quel momento stava emettendo una sequenza di suoni davvero sgradevoli.
«Nghh…»
La mia mattina era un insieme di suoni onomatopeici e fastidiosi.
Questo perché vivevo da sola, in un monolocale alquanto squallido, senza la minima voglia di far nulla, senza un compagno o qualcuno con cui condividere il mondo. Non ero obbligata a parlare con nessuno, nessuno era obbligato ad ascoltarmi.

Mi chiamo Amanda Liberati, ho ventidue anni e vivo a Venezia, in Italia, in un condominio in Salita San Canciano. Prima di trasferirmi in questo posto insignificante, frequentavo l’Università Iuav, la facoltà di design e arti. Ho dovuto abbandonarla praticamente subito; sarebbe stato impossibile prendere la laurea, per una come me.
Avevo problemi di depressione, sono andata in cura da uno psichiatra, mi hanno imbottita di pillole varie, antidepressivi e annessi, ho tentato il suicidio.
Dopo essere andata dallo psichiatra, chiaramente.
Non ho mai avuto un buon rapporto con i miei genitori, per completare il quadretto. Mia madre è morta qualche anno fa; ha lasciato questo mondo alla veneranda età di settantatré anni, distesa tranquilla nel suo letto, circondata dai parenti. A tal proposito, io non ero lì.
Durante i primi anni della mia vita, i miei genitori mi ripetevano sempre che ero stata una benedizione, un miracolo, considerata l’età di mia madre quando rimase incinta della qui presente. Ebbero modo di ricredersi.
Mio padre, una volta rimasto solo, era andato a vivere con una tizia russa, la sua badante. Ogni tanto lo andavo a trovare, perché è così che dovrebbe fare una figlia normale, e ogni volta lo trovavo sempre più demotivato. Eh, la vecchiaia…

«Pronto?», bofonchiai, rispondendo al cellulare. Era un numero che non conoscevo.
«Signorina Liberati?», rispose una voce femminile estremamente cortese.
«Sì, sono io.»
«La stiamo chiamando dall’Ospedale SS. Giovanni e Paolo. E’ per suo padre.» Sussultai.
«M-mio padre? Cosa…»
«La preghiamo di venire immediatamente. Il suo recapito telefonico ci è stato dato da suo fratello.» Pensai di stare per svenire.
«Va bene, arrivo in un istante…» bofonchiai, e richiusi il cellulare. L’ospedale era a pochi chilometri di distanza. Mi vestii in fretta, presi le chiavi della macchina, il portafogli e mi catapultai fuori di casa. In un quarto d’ora ero già nella vettura. Prima di partire, mi fermai un attimo per pensare.
«Io non ho nessun fratello…» balbettai confusa.

Non sono mai stata una persona forte, né una su cui contare.
Neanche io mi sarei affidata a me stessa; purtroppo me ne resi conto troppo tardi, e del senno di poi son piene le fosse: ero rimasta sola con me stessa.
Questi erano i miei unici pensieri, mentre piangevo, china sul cadavere di mio padre. I miei egoistici pensieri, che facevano rimbalzare tra le pareti del mio cervello infiniti dubbi; che aspettavano solo di riuscire a creare qualche crepa per poter uscire e creare il caos in un mondo dove ero sempre stata sola.
Mio padre se n’era andato in silenzio, senza dire nulla, poco prima del mio arrivo; almeno non mi aveva mai promesso che sarebbe restato per me, non infranse nessuna speranza. Se n’era andato tranquillamente, poiché non aveva legato il mio cuore al suo, tramite qualche debole legame; nessuna catena di spago era stata spezzata.
Allora perché, all’improvviso, mi sentivo così persa, così legata a qualcosa che non c’era più? Mi sentivo vagare nel nulla. Compresi che, con la scomparsa dell’ultima persona che nonostante tutto aveva continuato a sopportarmi e a viziarmi fino all’ultimo, iniziava un nuovo capitolo della mia vita.
Se fossi stata una scrittrice, l’avrei intitolato Il mio viaggio verso la morte; sarebbe stato un viaggio del quale ignoravo le varie tappe, certa solo che si sarebbe concluso con la mia morte.
Un percorso durante il quale avrei imparato molte cose, che però avrei digerito durante la notte, risvegliandomi la mattina con dei vaghi ricordi, ancor più inesperta e stolta di quanto non ero il giorno prima.
Per non scomparire mentalmente, avrei dovuto legare insieme tutti i pensieri che avrebbero voluto perdersi per non essere più ritrovati; ma la mia volontà sarebbe stata debole come un filo di spago, poiché il peso dei miei ricordi è gravoso.
Sì, sarebbe stato proprio come compiere un lungo viaggio verso Dio solo sa dove, senza sapere neanche cosa avessi messo nella valigia; più che il peso di quest’ultima, quello che mi schiaccerebbe sarebbe il senso di estrema precarietà.
«E’ permesso?»
Una voce estremamente gentile interruppe i miei cupi pensieri. Alzai il viso verso l’uomo che stava entrando nella stanza e lo scrutai sospettosa, puntandogli addosso i miei occhi di un anonimo castano, offuscati dalle lacrime.
«Certo.» sì, ti prego, non voglio rimanere sola.
«So che è dura, ma non sei sola.» Cosa? Che ne sapeva, quell’uomo, dei miei pensieri?
«Ah, sì? E tu cosa ne sai?»
«Era anche mio padre, ricordi?» no, non ricordavo. All’improvviso, mi ritornò in mente la voce della segretaria e le parole che mi avevano tanto confusa.
«Mio fratello…» mormorai. Fantastico, come se non fossi già abbastanza sconvolta.
«Ti va se ti racconto tutta la storia?» disse lui, mantenendo un atteggiamento estremamente cortese. Si sedette al mio fianco; lo lasciai fare. Quell’uomo m’ispirava sicurezza, come se l’avessi conosciuto da sempre, come se in tempi andati fosse stati lui a prendersi cura di me. Beh, dopotutto era mio fratello.
«Per favore.» risposi quindi. «Il mio nome è Amanda, il cognome… Oh, lo conosci.»
«Io mi chiamo Antonio.» rispose sorridendo; dopodiché, si lanciò in una descrizione molto accurata della sua vita. Da lui appresi che venne concepito per errore, che sua madre era una prostituta russa che l’aveva tenuto in grembo e partorito solo per amore di mio padre, che in ogni caso la lasciò quando il bambino compì dieci anni, per sposarsi con mia madre.
Antonio visse con loro fino ai suoi vent’anni, dopodiché mio padre lo cacciò di casa.
«Come facevo a non ricordarmi di te?» esclamai all’improvviso, interrompendolo. «Te ne sei andato quando io avevo tredici anni.»
«Ora ti ricordi, però?» colsi una nota d’ansia nella sua voce.
«Sì, certamente. Ma…»
«Ma?»
«Tranquillo, eh. Ma non ricordo perché nostro padre ti cacciò di casa.»
«Oh.» Antonio parve rilassarsi. «Ero un ragazzo difficile. Mi mandò in collegio, mi capirai.»
Sussultai.
«Come sai che…» non sapevo come continuare la frase; me n’erano successe di tutti i colori.
«Hai avuto problemi anche tu. Mi ha detto tutto nostro padre, poco prima di morire.»
«Ti ha dato lui il mio numero di cellulare?»
«Sì. Prima di entrare qui, ricordavo a malapena quale fosse il tuo nome. Ma non ho mai scordato il tuo volto, sorellina, mai…» posò delicatamente una mano sul mio viso. «Mai. Ti ho sempre protetta, ed ora che nessuno potrà più impedirmelo, ho intenzione di continuare a farlo.»
   
 
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