Senbonzakura – Mille fiori di ciliegio
Kyoto – 29/marzo/2009
I
fiori non erano mai piaciuti a Haru.
«Guarda, fratellone, dei fiori
di ciliegio!»
In
special modo i fiori di ciliegio; Haru non aveva mai
compreso pienamente il motivo per cui fossero così tanto amati da tutti: erano
piccoli, semplici, di un banalissimo colore rosa e crescevano praticamente
ovunque.
Cosa
avevano di così speciale da riuscire a portare sul viso di ognuno un genuino
sorriso?
«Stai attenta quando attraversi
la strada, Haruhi!»
Una
risata.
«Smettila di trattarmi come se
fossi una bambina! So attraversare la strada! Raccolgo quei bellissimi fiori e
sono da te. Tornerò immediatamente!»
Haru
infilò le mani fredde nelle tasche del vecchio giubbotto, rimpiangendo il
calore di casa, lasciato in favore dell’ancora rigida aria primaverile che
soffiava da nord quella mattina. Ma Haruhi non aveva voluto sentire ragioni:
avrebbero fatto un picnic sotto un ciliegio in fiore quel giorno.
Aveva
voluto farla felice, anche se a lui non piacevano i fiori, né i picnic.
«Via dalla strada!»
Haru
sgranò gli occhi di un pallido verde e spalancò la bocca fino a farsi male «Haruhi,
ATTENTA!»
Si
slanciò verso la sorella, che non aveva neanche notato il camion che a breve
l’avrebbe uccisa, e che stringeva tra le mani i fiori di ciliegio che tanto
aveva desiderato.
***
Haru – Il 29 marzo
Kyoto – 29/marzo/2012
«HARUHI!»
Un urlo spezzò il silenzio dell’appartamento, al quale però seguì solo
un terribile silenzio. Haru inspirò profondamente, così tanto da arrivare a
sentire i polmoni bruciare. Sollevò lentamente una mano per tergersi il sudore
dalla fronte.
Era sempre così, ormai ci aveva fatto l’abitudine: ogni anno rifaceva
quel sogno, o meglio rivedeva quella scena. Probabilmente ne era rimasto così
tanto shockato che non sarebbe riuscito mai più a liberarsene: per lui, il 29
marzo era ormai diventato una piccola persecuzione.
Dovette necessariamente cambiarsi prima di sedersi al tavolo per fare
colazione, come sempre perdendo più tempo del dovuto a trastullarsi con il riso
e la zuppa di miso, con qualche occhiataccia che di
tanto in tanto andava a fulminare l’intatto piatto ricolmo delle verdure assai
odiate, ma che, ahimè, facevano bene alla salute.
Sebbene la tentazione fosse tanta, non avrebbe acceso la televisione,
esattamente come faceva ogni anno dal 2009 in quel giorno: davvero, aveva già i
suoi problemi di cui farsi carico, e mettersi ad ascoltare i problemi degli
altri – o peggio ancora, le disgrazie degli altri – era l’ultima cosa che gli
andava di fare.
Per lui non era un giorno di festa quella domenica, non lo era
affatto: ecco, stava già cominciando ad avvelenarsi la giornata.
Finita la colazione, si mise in piedi con un movimento stizzito e
rapido, talmente rapido da fargli sbattere esattamente il mignolo del piede destro
contro il mobile della cucina, con conseguente turpiloquio vivacizzato da
espressioni molto colorite.
Quella giornata non poteva cominciare in modo peggiore…
In realtà Haru non era un tipo scorbutico e burbero di natura; anzi,
era stato un bambino attivo, un ragazzo curioso, un uomo con la testa sulle
spalle e la battuta pronta. Suscitava simpatia un po’ in tutti, aveva un sacco
di amici, un’ottima carriera lavorativa – gli avevano assegnato da cinque di
anni la cattedra di storia delle religioni in una prestigiosa facoltà di Kyoto
-, insomma, sembrava essere perfetto.
Poi era accaduta quella disgrazia: la morte della sua sorella gemella,
e da lì in poi era cambiato radicalmente. Il suo carattere si era fatto più
introverso e poco incline alla conversazione, si era rabbuiato ed aveva
lentamente perso i contatti con tutti i suoi amici.
Ormai tutti avevano rinunciato a cercare di tirarlo su di morale,
soprattutto quando si avvicinava quel fatidico 29 marzo.
Haru non aveva mai portato dei fiori di ciliegio alla tomba di sua
sorella, benché sapesse che lei li aveva amati profondamente in vita; ogni anno
abbelliva la lapide con le migliori rose, orchidee e altri fiori adatti ad una
principessa, ma mai con quei piccoli boccioli rosa per cui ella aveva perso la
vita. Stavolta aveva optato di nuovo per delle orchidee dei più svariati
colori, che adesso portava in mano con fermezza.
Mentre percorreva la lunga strada spianata che conduceva al piccolo
cimitero fuori città, Haru fu grato di essersi lasciato alle spalle le risate
gioiose dei bambini e i rumori di Kyoto in favore di un più naturale soffio di
vento fresco. Questo aveva il potere di calmare la sua instabilità e renderlo
in pace con se stesso, accarezzandogli dolcemente la giovane pelle ed i capelli
castani perennemente tirati indietro, per lasciargli quanta più visuale
possibile.
Aveva sentito dire che poco lontano dalla strada che stava
attraversando, in mezzo alla campagna, si sarebbe tenuto un festival per
festeggiare lo hanami*, dunque aveva l’assoluta
intenzione di aggirare lo svincolo che lo avrebbe condotto sulla strada del
festival e proseguire verso il cimitero.
Ma qualcosa, quel giorno, non sarebbe affatto andato come Haru
sperava.
***
Haru – La strega
Il
sole era ancora alto nel cielo, ed un veloce sguardo all’orologio rivelava che,
nonostante la lunga camminata a piedi, era ancora mezzogiorno. Con un sospiro
rassegnato, Haru si arrese alla consapevolezza che non sarebbe riuscito a
tornare per ora di pranzo, e che quindi avrebbe probabilmente dovuto fermarsi
al festival per comprare qualcosa se non intendeva tornare a casa stremato. Che
brutta idea aveva avuto nel lasciare la macchina nel garage!
Superato
il bivio che avrebbe dovuto ripercorrere al ritorno, si inoltrò in un boschetto
verdeggiante e pacifico, nel quale i suoni della città non erano che ormai un
triste ricordo, sostituiti dal ritmico strusciare delle fronde le une contro le
altre, dal leggero soffio di vento che smuoveva la terra ed invogliava gli
uccelli a cantare la loro melodia migliore.
Il
momento era così mite che Haru inizialmente non si accorse nemmeno della figura
eretta davanti a lui, a neanche dieci metri, che lo fissava così intensamente
da sembrare aspettarlo. Quando la inquadrò, sentì come se il quadro di serenità
attorno a lui venisse spazzato via violentemente, in frammenti impossibili da
rimettere insieme.
Interruppe
la marcia e per un attimo rimase quasi a bocca aperta, folgorato dalla bellezza
della donna che stanziava impassibile sotto un albero di ciliegio, con una mano
poggiata contro il tronco. I suoi lunghissimi capelli neri, così come
l’elegante abito dello stesso colore, erano fievolmente mossi dalla brezza in
quella che rasentava una danza; la donna batté una volta le palpebre, rivolgendo
ora non solo gli occhi neri, ma anche il raffinato viso leggermente truccato al
viaggiatore; dischiuse poi le rosee labbra in un sorriso, che però non aveva
niente di benevolente.
Se
Haru avesse dovuto definirla, avrebbe sicuramente detto che era una strega o
uno spirito uscito da qualche leggenda. Chissà, forse a breve l’avrebbe congelato
sul posto grazie al suo alito di ghiaccio*.
E
invece si limitava a guardarlo e sorridergli, forse divertita dalla sua
reazione. L’uomo discostò gli occhi e scosse il capo, ricordandosi che era
maleducazione fissare le persone.
«Scusi.» disse semplicemente, per poi riprendere il passo.
Nel momento in cui però superò di un passo la posizione in cui si
trovava la donna, questa lo seguì con lo sguardo e richiamò la sua attenzione
«Porta in mano dei fiori davvero meravigliosi.»
Anche la sua voce era meravigliosa, c’era da riconoscerlo, ma si sa
che più le donne sono belle e accattivanti più c’è da guardarsene, perciò Haru
non poteva che avere tutti i senti all’erta davanti a quella misteriosa
sconosciuta.
La buona educazione tuttavia gli imponeva di guardare negli occhi chi
gli parlava, e perciò tornò a fronteggiare la stupenda ma inquietante figura in
nero.
«La ringrazio.» annuì, aggiungendo dopo un attimo di silenzio «Mi fido
del parere di una donna.»
«Del suo no, viandante?» la nivea carnagione di lei era addirittura
pallida nei pressi della fronte, che aggrottò, sorpresa.
“Quindi quello misterioso sarei io?” commentò tra sé e sé Haru, non
senza un pizzico di sarcasmo. Con lo sguardo corse velocemente alle orchidee «…
No. È che non mi piacciono i fiori.»
Neanche avesse pronunciato la peggiore delle bestemmie!
La donna fece un passo all’indietro e sbarrò gli occhi, attraversati
da quello che, per un attimo, era sembrato un lampo d’ira. A quella reazione
così improvvisa, Haru si chiese se non l’avesse in qualche modo offesa svelando
quella piccola verità.
Per diversi secondi ogni suono sembrò appiattirsi, tanto da far
sentire il giovane professore in netto disagio. La sconosciuta continuava
imperterrita ad osservarlo, forse aspettando una reazione o delle scuse;
queste, ovviamente, non sarebbero mai arrivate, in quanto egli non reputava
affatto di aver detto qualcosa di offensivo ma di aver semplicemente espresso
la propria opinione.
Cautamente, riprese la parola «Ho detto qualcosa che l’ha offesa?»
Riprendendosi dal suo stato di trance, lei scosse piano la testa,
tornando poi a sorridere «È la prima volta che conosco qualcuno che non ama i
fiori.»
A Haru scappò una piccola risata amareggiata «Al contrario, io mi sono
sempre chiesto come si possano amare i fiori.»
«È impossibile che esista qualcuno che non ama i fiori.» asserì la
donna, troncando brutalmente il discorso dell’uomo, che rimase stupefatto da
tutta quella serietà e convinzione «Dentro ogni fiore c’è un significato
profondo, mio sprovveduto viaggiatore… come può
recarsi sulla via di un cimitero con un omaggio floreale senza sapere che cosa
porta in mano?»
All’improvviso,
Haru si sentì ingiustamente rimproverato ed accusato; si mise sulla difensiva,
ma non ebbe tempo per rispondere.
«La donna che sta andando a trovare… amava profondamente i fiori di ciliegio.»
L’uomo
rimase senza parole: come poteva quella tizia essere a conoscenza di una cosa
così personale? Fece un passo verso di lei, stringendo con forza i fiori «Ma
tu chi sei? E come fai a sapere di lei?»
Ella,
imperterrita, continuò con quel tono da giudice «L’orchidea ha un significato
troppo maturo, non è adatto a una sorella, ma ad un’amante. Il ciliegio che invece
tua sorella desidererebbe indica purezza, innocenza, bellezza, fragilità…»
«Non sono qui per una lezione sul linguaggio dei fiori-» provò ancora Haru,
ma venne interrotto ancora, e stavolta la voce della sconosciuta assunse un
tono più solenne.
Gli porse una mano, pallida e ossuta, e in questa fece comparire un
ramoscello di fiori di ciliegio, comparire davvero: l’arto vuoto si illuminò e
vi apparve dal nulla il rametto! Haru fece istintivamente un passo indietro,
sobbalzò, il cuore cominciò a battere più veloce, una goccia di sudore gli
attraversò la tempia.
Quella che aveva appena visto… era magia?
«Prendilo.» ordinò la strega, impassibile.
L’uomo la fulminò con un’espressione che sembrava dire “stai
scherzando?” e si ritrasse ancora di più, spaventato dalle assurdità che stava
vedendo susseguirsi.
«Stai lontana da me.» la ammonì con voce poco coraggiosa.
«Prendilo.» ripeté lei, allungando ancor più la mano per
incoraggiarlo, senza però riuscirci veramente. L’uomo non sembrava aver
intenzione di cedere, e dopo qualche minuto di silenziosa lotta di sguardi
feroci atti ad intimidire il nemico, fu lei la prima a cedere; con un sospiro
rassegnato ritrasse il braccio, e con esso i fiori.
Haru si chiese se non fosse in qualche modo riuscito a convincerla a lasciarlo
in pace, ma non ebbe l’ardire di rilassarsi: non l’avrebbe fatto finché ella
non fosse sparita dalla sua visuale.
«Te ne pentirai.» sentenziò invece quella, con una voce che gli fece
gelare il sangue nelle vene «E possa la mia anima scendere nell’Inferno se
entrò stanotte tu non capirai cosa significa amare un fiore.»
E detto ciò, scomparve nel vento.
***
Haru – Elegante, delicato aspirante
suicida
Doveva essere stato un sogno ad occhi aperti, o forse aveva mangiato
pesante la sera prima, o magari quella che aveva appena visto era una svitata
che si serviva di qualche trucco per terrorizzare i turisti. Insomma, da quando
la gente ti aggrediva se non ti piacevano i fiori?
L’unica cosa che Haru sapeva per certo era che se la stava dando a
gambe senza volerlo ammettere: sì, si era spaventato. Le parole con cui lei lo
aveva lasciato somigliavano fin troppo ad una dichiarazione di guerra, e se
quella donna era una strega, beh… chi sfidava una
strega solamente nelle storie occidentali si salvava, e purtroppo lui abitava
lì dove vigevano le tragiche storie orientali.
Scosse con decisione la testa, imponendosi la calma, e riprese il suo
cammino per uscire da quel boschetto maledetto. Sì, al ritorno avrebbe
sicuramente usato la strada alternativa e sarebbe passato attraverso il
festival: meglio che ritrovarsi faccia a faccia con quella pazza!
Ma ancora una volta i piani del nostro povero eroe stavano per essere
rivoluzionati.
Inizialmente, il giovane professore non si accorse nemmeno di non
essere più solo; camminava a testa bassa, immerso nelle sue tergiversazioni
riguardo ciò che era appena accaduto, e stringeva con meno vigore il mazzo di
orchidee che gli aveva portato male. Fu il suono di una soffice voce molto
giovane a catturare improvvisamente la sua attenzione, spingendolo ad alzare lo
sguardo.
Si trovava immerso in quello che chiunque avrebbe definito un paradiso
terrestre, ma che per lui era solamente un ponte in stile tradizionale
giapponese, costruito in legno pesante e colorato di rosso, che congiungeva due
lembi di terra divisi da un fiume che scorreva placidamente; su entrambe le
coste, una fittissima rete di rami colorati di rosa gli suggeriva di trovarsi
nel bel mezzo di una foresta di ciliegi. La luce del sole giocava con le
fronde, le attraversava, creava giochi luminosi e ombre deformi per terra,
lungo il sentiero polveroso, mentre il vento sospingeva dolcemente quei piccoli
fiori rosa che sembravano danzare.
Insomma, una scena che aveva visto mille volte in vita sua… tranne per un piccolo, umano, sconsiderato e
incosciente particolare.
Haru strabuzzò gli occhi e quasi sobbalzò quando si ritrovò a pochi
passi dalla persona a cui apparteneva la voce che canticchiava spensieratamente
un motivetto sconosciuto.
C’era una persona che camminava sul poggiamano
di legno al lato destro del ponte!
Sulle prime, il professore non seppe cosa fare, preso dal panico: che
diavolo stava facendo quel tizio?! Voleva forse ammazzarsi? Visto di spalle,
sembrava un giovane ragazzino – o ragazzina - di neanche sedici anni, o forse
ancora più piccolo a giudicare dalla statura decisamente bassa; le piccole
spalle erano sollevate, così come le braccia, come nell’impresa di tenersi in
equilibrio. Sembrava perfettamente a suo agio, lì sopra, tanto che a volte
azzardava pure un passo più lungo della gamba o giocherellava con un lembo del
maglione grigio a collo alto. Sebbene avesse dei capelli lunghi fino alle
spalle, non sembrava risentire del vento che probabilmente li portava ad
oscurargli la visuale.
Incapace di reggere oltre quella specie di film thriller, Haru esclamò
a voce alta «Hey, tu!»
La giovane figura sobbalzò, e nel farlo perse drasticamente
l’equilibrio, andando a piegarsi, neanche a farlo apposta, verso il lato che lo
avrebbe condotto dritto dritto in acqua, e se gli
fosse andata male direttamente in ospedale.
«Attento!» urlò l’uomo, slanciandosi il più possibile per accorciare
la distanza con il ragazzino; con una provvidenzialità che non credeva
possibile riuscì ad afferrarlo in tempo per un polso e trarlo con violenza a
sé. Lo sentì mugolare di dolore, ma almeno poté evitargli quella brutta fine.
Il ragazzino ruzzolò giù dal poggiamano e
piegò le gambe, finendo col mettere male i piedi per terra. Si udì un gelido
“crack”, seguito da un’esclamazione di dolore del giovane, che nel frattempo si
era aggrappato con tutte le sue forze alla giacca scura di Haru, col respiro
mozzato.
L’uomo lo afferrò per la vita e lo tenne stretto, finché non fu sicuro
che egli avesse ritrovato l’equilibrio necessario a stare in piedi; quindi lo
lasciò ed improvvisò l’espressione più severa del suo repertorio, quasi urlando
«Si può sapere che diavolo ti salta in testa?! Volevi ammazzarti, moccioso
incosciente?!»
Solo in quel momento si accorse che quella persona, ancora fermamente aggrappata
a lui… stava tremando. Tremava quasi violentemente,
singhiozzando nel frattempo, forse per il dolore o per la paura. Finalmente
sollevò il viso per farsi vedere in volto da Haru. Quest’ultimo non poté che
sentirsi immensamente in colpa per ciò che aveva appena detto quando incontrò
l’espressione penosa e spaventata di quello che era sicuramente un maschio,
sebbene avesse ancora tratti molto delicati e tondi, ben lontani dai duri
lineamenti maschili. Aveva due occhi di uno stupendo azzurro, tanto grandi
quanto pieni di lacrime.
«Mi… scusi…»
mormorò il ragazzo, e Haru notò con piacere che almeno la voce era un chiaro
segno della sua mascolinità.
L’uomo esplose un grande sospiro di rassegnazione, poi riprese con
tono di rimprovero «Non devi chiedere a me scusa. Eri tu quello che stava per
andare a fare compagnia ai pesci.»
«Non… non era mia intenzione…
di solito non perdo mai l’equilibrio…» continuò
quello, nel disperato tentativo di giustificarsi.
In effetti, rifletté il professore, finché non lo aveva chiamato quel
ragazzino era stato perfettamente a suo agio: era forse stata colpa sua e della
sua esclamazione improvvisa se si era spaventato ed era quasi caduto?
Quell’ipotesi lo convinse ad usare un tono più gentile mentre chiedeva «Ce la
fai a stare in piedi?»
«Sì!» affermò l’altro, e per dimostrarlo provò a raddrizzarsi e
lasciare andare l’uomo, ma un dolore lancinante alla caviglia destra lo fece
desistere «Ah! … No…»
“Che situazione…”
Haru decise di non perdere ulteriormente tempo in rimproveri: doveva
assicurarsi che il piede del ragazzo non fosse rotto; il suono udito poco
prima, quel sonoro crack, non sembrava prospettare niente di buono. Lentamente,
fece staccare da sé il giovane e lo aiutò a sedersi con le spalle contro il
poggia mano.
«Adesso controllo il piede. È questo che ti fa male, giusto?» si
informò, ricevendo un cenno d’assenso. Con la massima gentilezza prese tra le
mani il piede infortunato, scostò il lembo dei pantaloni neri ed osservò il
tratto di pelle visibile appena sopra il calzino: era perfettamente normale,
niente rossore né gonfiore.
«Forse è solo una storta, non sono esperto di queste cose… ma se fosse stato rotto a quest’ora staresti urlando
o sarebbe nero e gonfio.» spiegò, dando però così fondo alle sue conoscenze
mediche.
Insomma, era Haruhi quella che studiava medicina, lui faceva la muffa
su libri sacri!
«Fa già un po’ meno male…» mugugnò il
ragazzino, che intanto era affondato fino al naso dentro il dolcevita «La
ringrazio tanto…»
Un altro sospiro da parte di Haru, che cominciava a chiedersi quante
persone strane avrebbe trovato sul suo cammino quel giorno. Ripensare alla
strega gli ricordò che… lui aveva avuto dei fiori in
mano fino a poco prima! Alzò di gran corsa lo sguardo per cercarli, li aveva
lasciati cadere mentre si slanciava per salvare il giovane sconosciuto, ma… ma ora erano scomparsi nel nulla. Nessun bouquet,
nemmeno un petalo di orchidea… dov’erano finiti?
Alla sua ricerca instancabile sembrò unirsi anche il ragazzino, con
occhi curiosi. Quando realizzò la situazione esclamò con voce penosa «Ha perso
qualcosa per colpa mia!?»
Sul momento Haru fu tentato dall’annuire, ma quando incontrò
nuovamente lo sguardo pieno di sensi di colpa dell’altro sentì di non poter
urtarlo ulteriormente, dopotutto sembrava già sull’orlo delle lacrime.
Scosse dunque la testa «Niente di importante, non ti preoccupare.» e
poi per cambiare discorso aggiunse «Senti un po’, ma che ci facevi lì sopra?»
L’altro ebbe bisogno di qualche secondo per capire a cosa si
riferisse, ma poi improvvisò un timido sorriso, mentre le guance gli
diventavano rosse «Io… ehm…
ecco…»
«Va bene, va bene. Non puoi dirmelo.» capì al volo l’uomo; scrollò le
spalle, così da far capire che non gli importava poi molto, quindi chiese
«Almeno il tuo nome puoi dirmelo?»
In quell’attimo le sue parole furono accompagnate da un soffio di
vento più potente, che gli trasmise un brivido freddo lungo il corpo e che
scompigliò i capelli del piccolo apprendista suicida. Quest’ultimo socchiuse le
labbra senza emettere suono, evidentemente indeciso; forse cercava di non dare
a vedere la sua incapacità di prendere posizione, ma i suoi occhi erano fin
troppo limpidi ed eloquenti e rivelavano ogni pensiero che gli attraversava la
mente. Alla fine distese il volto in un’espressione più fiduciosa e sussurrò
«... Sakurai, mi chiami Sakurai*.»
In un primo momento, Haru pensò che Sakurai fosse un bellissimo nome,
e che ritraeva perfettamente chi lo portava.
Poi si ricordò del significato di quella parola, quindi tirò un altro
sospiro.
“È davvero una persecuzione…”
Quei dannati fiori di ciliegio erano una cosa fin troppo ricorrente
nella sua vita, ed erano tornati a portargli guai nella forma di un bellissimo
ragazzino con strane manie masochiste.
Nel frattempo, Sakurai non si era perso neanche una sua reazione.
Inclinando il capo, chiese sottovoce «Non… le piace
il mio nome, signor…?»
«Maejima.» rispose prontamente Haru «Ma chiamami Haru.»
«Haru-san!» ripeté prontamente Sakurai, sorridendo.
«Piuttosto…» il professore gli lanciò
un’occhiata torva «Sakurai che io sappia è un cognome. Non ce l’hai un nome?»
«Un nome?» ripeté candidamente Sakurai, per poi scuotere il capo «A me
non serve avere un nome. Io sono Sakurai.»
«Bene, Sakurai-kun…» Haru scrollò le spalle
«Avrai con te un cellulare. Non sarebbe meglio chiamare i tuoi genitori?»
Sakurai arricciò il naso e corrugò la fronte, in un gesto tipico dei
bambini che non capiscono qualcosa «Cellulare?» poi batté le palpebre, sgranò
gli occhi e si corresse «Oh, ho capito! No, mi dispiace, non ho nessun
cellulare, né dei genitori.»
Haru si morse il labbro, chiedendosi se non avesse toccato un tasto
doloroso. Forse Sakurai era orfano; eppure la cosa non gli tornava…
i suoi vestiti erano puliti, in generale non sembrava un ragazzino che vive per
strada, allora cos’era tutto quel mistero? Gli stava sicuramente mentendo o
nascondendo qualcosa, eppure i suoi occhi, così sinceri e spontanei, non
sembravano dar credito a questa ipotesi, facendo sentire Haru solamente più
confuso. Ragionevolmente, cominciava a pensare che a Sakurai mancasse qualche
rotella: insomma, prima passeggiava su un poggiamano
come se niente fosse, poi faceva una faccia stranita alla parola “cellulare”…
era come se venisse da un altro pianeta.
Ora Haru si rendeva conto di una cosa: non poteva lasciarlo lì, in
primis perché era solo un ragazzino, in secondo luogo perché sembrava
esageratamente ingenuo. Chiunque si sarebbe potuto approfittare di lui, anche
in modo violento…
Non poté che tornargli in mente l’edizione del telegiornale che aveva
ascoltato il giorno prima, nella quale si faceva riferimento ad una serie di
scomparse a catena di giovani ragazzi e ragazze che ultimamente occupavano le
pagine di tutti i giornali.
Non poteva lasciare Sakurai lì, così sperduto e solo…
«Qualcosa non va, Haru-san?»
Senza sapere come, quando Haru tornò alla realtà si ritrovò un Sakurai
improvvisamente vicinissimo al suo viso, che lo osservava curioso e con un
leggero sorriso. L’uomo sobbalzò per la sorpresa, ma dissimulò l’imbarazzo
tossendo ripetutamente «Non dovresti prendere le persone di sorpresa!» lo
rimproverò senza molta convinzione.
Sakurai non sembrò afferrare il concetto, la sua espressione si fece
confusa «Oh, mi dispiace… non era mia intenzione.»
«Fa niente.» tagliò corto l’uomo, che intanto si era rimesso in piedi.
Porse una mano al giovane «Ce la fai?»
«Certamente!»
Il moro sorrise ancora, in quel modo così innocente e pacifico che lo
faceva assomigliare a un bambino e che trasmetteva a Haru serenità. Quel
ragazzo forse aveva qualche strana attitudine a curare gli animi con la sua
spensieratezza e bontà d’animo, questo si disse. In quel frangente Sakurai
aveva afferrato con delicatezza la mano dell’altro e stava cercando di tirarsi
su, ma davanti alla sua espressione piegata dal dolore Haru decise di
intervenire.
«Non ti sforzare, peggiorerai le cose.» gli lasciò la mano e lo
osservò con attenzione, per studiarne le reazioni «Il dolore dovrebbe
attenuarsi pian piano, ma è meglio se non resti da solo finché stai male. Puoi
venire con me se ti va, sto andando al cimitero.»
Il ragazzino mise da parte il dolore e sfoderò il suo sorriso
migliore, quindi annuì, probabilmente senza neanche soppesare la proposta o
essere minimamente sospettoso nei confronti di quello sconosciuto.
Cercò di nuovo di mettersi in piedi, ma venne bloccato da Haru, che si
abbassò sui talloni e gli diede la schiena, facendogli cenno di salirvi sopra:
lo avrebbe portato lui.
Sakurai arrossì leggermente, forse perché non era abituato ad
attenzioni del tutto gratuite, ma alla fine accettò di buon grado.
Quando fu in spalla all’uomo, gli sussurrò all’orecchio «Prima mi
salva la vita e poi mi aiuta pure. Haru-san, lei è
per caso un angelo, o qualcosa del genere?»
Fu Haru ad arrossire stavolta, prima di riprendere il cammino «Ora non
esagerare…»
***
Haru e Sakurai – Un posto in cui tornare
La strada per il cimitero non era affatto lunga, e Haru la percorse
con tutta la calma necessaria a lui per non stancarsi e a Sakurai per non
risentire di movimenti bruschi. Provò più volte ad interrogare quel misterioso
ragazzino dagli occhi limpidi, chiedendogli se fosse da solo, se avesse un
coprifuoco da rispettare, se qualcuno lo stesse aspettando; ma ogni volta il
giovane rispondeva in modo evasivo o enigmatico, e questo portò Haru a credere
che fosse del tutto solo e cercasse di nasconderlo, o che avesse qualche serio
problema che lo aveva spinto ad allontanarsi da casa. Una cosa era certa:
risposta dopo risposta, Sakurai sembrava sempre più bisognoso d’aiuto ed
esageratamente ingenuo, tanto che persino un bambino avrebbe potuto avere la
meglio su di lui.
Dopo un po’ di tempo passato in silenzio, il ragazzo si acquietò e non
aprì più bocca, dando così l’impressione di essersi assopito.
“Non avrà scambiato le mie spalle per un letto?” si chiese Haru.
La vergognosa perdita dei fiori non lo aveva affatto distolto dal suo
intento: sarebbe andato a trovare Haruhi, con o senza di essi; sua sorella
avrebbe capito. Non poté neanche fare a meno di tornare con la mente alla donna
che aveva incontrato all’andata: le sue parole, pronunciate come una minaccia,
ancora lo inquietavano profondamente. Covava il timore di incontrarla di nuovo
sulla via del ritorno, ed esso era accresciuto dalla consapevolezza che molto
probabilmente per allora avrebbe ancora avuto con sé Sakurai, e non aveva la
minima intenzione di permettere a quella donna né a nessun altro di allungare
un dito su quel ragazzo così fragile.
Di tutta quella situazione, l’unica cosa che lo impauriva seriamente
era il ricordo di lei che materializzava e viceversa oggetti e poi scompariva
nel nulla. Ma voleva imporsi di non pensarci, di lasciar perdere e concentrarsi
sul presente. Non ne avrebbe parlato neanche con Sakurai, per non rischiare di
spaventarlo.
Raggiungere il cimitero, in un certo senso, lo tranquillizzò; immerso
nel verde, accerchiato dal bosco, quel luogo sembrava del tutto fuori dal
mondo, tanto che nessun rumore della città era capace di raggiungerlo.
La via principale era un sentiero che si diramava poi in tanti altri,
ognuno dei quali si inoltrava in una direzione diversa. Haru percorse una serie
di essi, lasciandosi cullare dal suono del vento tra le fronde, accompagnato
dal rumore prodotto dai suoi passi e dal leggero respiro di Sakurai. Passarono
altri dieci minuti prima che l’uomo si fermasse, finalmente riprendendo fiato,
davanti ad una lapide con su incisi i kanji del nome
“Maejima Haruhi”.
Con tutta la gentilezza possibile, il professore camminò fino
all’albero più vicino, si piegò sulle ginocchia e lasciò che il corpo di
Sakurai si adagiasse contro la corteccia.
«Tornerò presto.» assicurò al ragazzo addormentato, con un sorriso
ingentilito, poi si allontanò.
Nel momento in cui Sakurai riprese coscienza avvertì un brivido freddo
corrergli lungo la schiena. Arricciò il naso ed emise un piccolo mugolio di
disapprovazione, poiché davvero non aveva voglia di riaprire gli occhi… non poteva riposare ancora cinque minuti?
«Sei proprio un dormiglione, eh?»
«Ah!»
Sakurai strabuzzò gli occhi e scattò sull’attenti, irto con la schiena;
si guardò intorno, quando incontrò lo sguardo divertito di Haru.
«Haru-san!» esclamò, portando le mani al
petto «Chiedo scusa!»
L’altro sollevò un sopracciglio, senza capire «Di cosa ti stai
scusando?»
«Di essermi addormentato…» il ragazzino si
ritrasse un po’, quindi incurvò le spalle ed abbassò gli occhi «Sono davvero
una palla al piede…»
Quelle parole lasciarono Haru un po’ indeciso sul da farsi: gli
dispiaceva vedere Sakurai così contrito e in pena, ma d’altra parte non era nel
suo carattere insistere troppo quando vedeva qualcuno flagellarsi. Forse
avrebbe dovuto intervenire, ma la sua bocca decise di non collaborare e
rimanere serrata, immobile, mentre il silenzio suppliva alle parole. A
giudicare dall’espressione triste di Sakurai, probabilmente questi stava
interpretando quel silenzio come un assenso.
«Sono davvero spiacente…» il ragazzino si
mosse e cercò di mettersi in piedi «Prima lo spavento, poi la perdita di ciò
che ha perso, adesso questo…»
Fortunatamente, questa volta gli riuscì di mantenersi in equilibrio, e
prima che Haru potesse dire qualcosa, si stava già inchinando a mezzo busto in
un cortese ringraziamento.
«Haru-san, le devo molto!» affermò.
«D’accordo, ma ora calmati.» gli intimò l’uomo, che intanto si era
alzato a sua volta «Davvero, Sakurai, non devi scusarti. Non sei stato un
peso.»
Immaginò che il ragazzo stesse pensando che quelle fossero solo parole
di cortesia, ma Haru pensava davvero ciò che diceva, e doveva dimostrarlo se
non voleva ferire quella giovane anima. Sollevò una mano, nell’ombra proiettata
dal grande albero presso cui si trovavano, ed indicò la direzione in cui si
trovava la tomba di Haruhi.
«Io vengo qui ogni anno… da solo. Averti
vicino, oggi, mi ha fatto sentire meno triste.»
Mentre parlava, accennò un sorriso; era appena una smorfia, una curva
delle labbra leggermente rivolta verso l’alto, ma, come si aspettava, gli occhi
limpidi di Sakurai si riempirono di gioia nel vederlo. Gli sembrò quasi che la
felicità del ragazzo fosse completa, come se l’unico scopo della sua esistenza
fosse rendere gli altri felici: bellissimo proposito, ma in tal caso capiva
perché Sakurai sembrava così irrimediabilmente solo.
Sulle prime il moro non rispose, forse soppesando le parole appena
udite o godendosi il tenue sorriso di Haru, ma dopo qualche secondo ricambiò
l’espressione rilassata dell’altro e tornò a poggiarsi sul petto le mani. Aveva
modi di fare così femminili che il professore quasi si chiedeva se avesse
sbagliato nel giudicarlo un uomo; tuttavia non gli davano fastidio, anzi
sembravano rendere Sakurai solo ancor più elegante e raffinato, come un
principe. Ma chi diavolo era quel ragazzino strambo?
«Questo mi rende felice, Haru-san.» sussurrò
a bassa voce il giovane, inclinando il capo «Non immagina quanto.»
Tutta quella sincerità era disarmante per Haru; no, non facevano per
lui simili situazioni piene di zucchero. Fece cenno di seguirlo, quindi si
incamminò in direzione della tomba di Haruhi, spiegando nel frattempo «Si
tratta di mia sorella, gemella per la precisione. È venuta a mancare qualche
anno fa a causa di un incidente.»
Con la coda dell’occhio notò la malinconia dipingersi sul viso pulito
del suo accompagnatore. Stettero qualche minuto in solenne silenzio,
contemplando la fredda lapide che indicava nome completo, data di nascita e di
decesso della ragazza; nel frattempo, il vento si era fatto leggermente più
caldo, segno che ora di pranzo stava per scoccare. Haru corse con lo sguardo
all’entrata del cimitero, abbastanza lontana dalla loro attuale posizione, per controllare
che nessuna strega della foresta li stesse seguendo: l’ansia dovuta a quel
brutto incontro non sembrava volerlo abbandonare.
Nessuno.
Sospirò di sollievo, quindi tornò a guardare la tomba «Senti una cosa,
Sakur-…»
Ma Sakurai non c’era.
Improvvisamente colto dal panico – era stata la strega a spingerlo a
distrarsi mentre rapiva il bambino? – si ritrovò quasi a girare su se stesso, e
quando la sagoma del giovane chino vicino a un albero entrò nel suo campo
visivo si sentì profondamente rincuorato.
Il ragazzino era impegnato a cogliere dei fiori bianchi che Haru non
seppe riconoscere, e non sembrava sentirlo. Il professore lo osservò con
attenzione mentre si muoveva nell’erba bassa, ancora un po’ impacciato a causa
del piede che lo costringeva a bloccarsi repentinamente. Fu di ritorno dopo
neanche un minuto, e si premurò immediatamente di andare a posare con
delicatezza il piccolo mazzolino raccolto sopra la tomba di Haruhi, per poi
inginocchiarsi e pregare in silenzio. Haru fu sinceramente colpito da un gesto
tanto altruista e spontaneo, ma sapeva che ormai non doveva più stupirsi di
fatti simili se si trattava di Sakurai; gli sorse un sorriso ingentilito ed
anche intenerito.
Il tempo continuò a scorrere senza che nessuno dei due rompesse il
quadro che si era creato; aprendo bene le orecchie, Haru riusciva a mettere da
parte il suono del vento e a cogliere qualche parola sussurrata sottovoce dal
giovane.
«Hai freddo, Sakurai?» gli chiese infine, quando l’altro si fu messo
in piedi.
Sakurai guardò con poco interesse al suo maglione anonimo e
stropicciato, quindi infilò un dito tra la lana del dolcevita e la pelle fredda
del proprio collo «Affatto.»
«Sei sicuro?» volle accertarsi Haru, che ormai aveva compreso quanto
il ragazzo non volesse farlo preoccupare ulteriormente «E il piede?»
«Sto benissimo.» annuì ancora Sakurai, regalandogli un altro sorriso
«Davvero, Haru-san.»
Haru dovette arrendersi: che fosse vero o no, era lampante che Sakurai
non glielo avrebbe comunque detto. Forse non si fidava abbastanza, e come
dargli torto, si erano appena conosciuti! Nonostante questo, il professore
trovava molto difficile credere ad un’evenienza simile: quel ragazzo sembrava
davvero un libro aperto, e dava apertamente l’impressione di fidarsi
ciecamente.
Delicato e premuroso.
«Adesso che farai?»
Il sorriso di Sakurai sbiadì leggermente, incrociò le mani dietro la
schiena e sollevò lo sguardo al cielo «Penso che mi siederò sotto qualche
albero ed osserverò il cielo. Le nuvole sono la cosa che amo di più.»
Ecco, per qualche assurdo motivo Haru si aspettava una risposta
simile. Sospirò e portò una mano alla fronte e l’altra sul fianco, rettificando
«Intendevo dire… non torni a casa? Cioè… perdonami se sono brusco, ma da qualche parte dovrai
abitare, qualcuno dovrà pur prendersi cura di te.»
Ma si sentì quasi in imbarazzo quando notò l’espressione con cui quel
ragazzino gli stava rispondendo in silenzio: Haru ebbe la netta impressione che
i ruoli si fossero invertiti all’improvviso, e che il moccioso inesperto e
sprovveduto fosse lui.
Si pentì di aver fatto quella domanda a Sakurai, guardò altrove e
cambiò di corsa argomento «Lascia perdere…»
La risposta, sussurrata timidamente, si perse della brezza prima che
Haru potesse udirla.
«In un certo qual modo…»
***
Haru – Attimo di serenità
«È proprio sicuro di volermi
accompagnare?»
«Certo. Cioè…
voglio essere sicuro che il piede non ceda di nuovo…»
Haru
scappò lo sguardo di Sakurai, che nel frattempo arrossiva timidamente.
«Haru-san è così gentile!» commentò, per poi abbandonarsi
ad una risata allegra.
Sì,
Haru era generalmente gentile con il prossimo, sebbene il suo carattere fosse
diventato più duro e burbero negli ultimi anni; chi è innatamente gentile non
smette di esserlo da un giorno all’altro, questo pensava, e per quanto lui
potesse ancora soffrire la solitudine non aveva certo intenzione di farlo
pesare anche agli altri. E poi doveva qualcosa a Sakurai, che con il suo
intramontabile buon umore stava riuscendo a fargli passare una giornata
inaspettatamente bella; era da tanto, tantissimo tempo che Haru non si sentiva
così leggero, era tantissimo tempo che non gli capitava di ricambiare i sorrisi
di altri così spontaneamente.
Non
era ancora in grado di definire Sakurai “amico”, poiché non si conoscevano
quasi per niente e la differenza d’età superava sicuramente i dieci anni,
eppure avere quel piccolo imbranato accanto gli trasmetteva serenità: negli
ultimi anni aveva quasi dimenticato cosa fosse la serenità. Dentro di sé,
cominciava a sperare che quella giornata durasse ancora molto, e che a fine di
essa si sarebbero messi d’accordo per rivedersi.
Come
previsto, decisero di tornare indietro passando per la strada del festival.
Haru ne era stato molto sollevato, infatti era ancora preoccupato dal pensiero
della fantomatica strega; Sakurai si era dimostrato assolutamente entusiasta,
per poi spiegare che non aveva mai avuto occasione di prendere parte a un
festival prima di allora.
“Incredibile!”
si era detto l’uomo “Chi non ha mai partecipato a un festival?”
La
figura di quel misterioso ragazzo gli appariva sempre più contorta, ma decise
con filosofia di lasciar fuori dalla porta ogni dubbio o sospetto e godersi la
sua dolce compagnia.
Giunsero
così poco dopo l’ora di pranzo presso il luogo della festa, una lunga via che
circuiva il vecchio tempio della zona. Il cielo cominciava già ad oscurarsi,
tingendosi di un intenso rosso che preannunciava il tramonto, e gli addetti ai
lavori si apprestavano ad accendere le prime lampade. Non era presente molta
gente, forse perché la temperatura rigida e l’avvicinarsi della sera avevano
convinto le famiglie a terminare quella bella domenica in un posto caldo e
chiuso, ma quei pochi che c’erano non si risparmiavano: bambini che correvano
giocando, uomini che ridevano chiassosamente bevendo sakè, giovani donne con
indosso meravigliosi kimono dai colori sgargianti.
Haru
venne per errore investito da una bambina che correva ridendo.
«Mi scusi, signore!»
languì questa.
«Nessun problema.»
le rispose lui, accennando un sorriso.
La
piccola ricambiò con un’espressione radiosa, per poi sparire tra le bancarelle
piene di colori e luci. L’odore dei cibi tradizionali era molto invitante e
forte, tanto che Haru decise di offrire qualcosa a Sakurai: dopotutto era da
poco passata ora di pranzo, e sicuramente il ragazzino non metteva niente sotto
i denti da chissà quanto tempo.
Quando
si voltò a cercare il suo sguardo, però, non poté che lasciarsi scappare una
risata divertita.
A
giudicare dal suo viso assolutamente stupefatto ed emozionato, non si poteva certo
dire che quella non fosse veramente la prima volta che Sakurai vedeva un
festival.
«Allora, vogliamo muoverci? Non
so te, ma io ho fame.» mugugnò, ridendo a voce bassa dello stupore infantile
del moro.
Dopo un primo attimo di insicurezza, Sakurai rise ed esclamò
concitatamente «Sì… sì!»
La
prima bancarella che visitarono fu, ovviamente, quella dove vendevano il cibo.
Tra tutte le pietanze, quella che attirò subito l’attenzione di Sakurai furono i takoyaki*, cosa
che suscitò in Haru una risata divertita.
«Sei proprio un bambino!»
scherzò, scompigliando i capelli all’altro che intanto arrossiva.
Il
vero pranzo fu però a base di ramen*, a anche
stavolta Sakurai fece ridere il professore con la sua incapacità di usare le
bacchette.
«Sei straniero, Sakurai?»
gli chiese l’adulto, mentre gli mostrava la corretta posizione delle dita per
tenere i due pezzi di legno.
Il
ragazzino, troppo intento a riprodurre fedelmente la posa, rispose piuttosto
frettolosamente «Oh no, sono molto più giapponese di quanto si possa
immaginare.»
«Ma non sei mai stato a un
festival né sai usare le bacchette.» lo corresse Haru, prima di
tornare a mangiare.
Con
la coda dell’occhio, notò che il piccolo masochista era appena riuscito ad
impugnare i due oggetti, finalmente in modo perfetto. I grandi occhi celesti
gli si illuminarono, cercando contatto con quelli dell’uomo.
«Si sbaglia.»
ribadì con un sorriso gentile «In questo momento sono ad un festival, e ho appena
imparato a usarle. Tutto grazie a lei, Haru-san.
Questo è sicuramente il giorno più felice della mia vita.»
“Devi
aver avuto una vita molto noiosa, allora.” aggiunse mentalmente il professore,
ma non lo disse ad alta voce per paura di ferire Sakurai. Come aveva deciso,
non si sarebbe più intromesso nelle sue faccende private ed avrebbe goduto
della sua compagnia finché fosse durata.
«Quello…»
La
voce di Sakurai lo ridestò dai suoi pensieri. Haru, nel voltarsi verso di lui,
lo trovò in ginocchio sullo sgabello, con una mano armata di bacchetta puntata
contro il proprietario del chiosco intento a servire gli altri clienti, i quali
lo osservavano immobili.
Quella reazione improvvisa fece scattare sull’attenti Haru «Che… che cosa?»
«Quello è…» ripeté il ragazzino, la mano che
gli tremava.
L’uomo deglutì, aspettandosi lo scoppio di una bomba «… Che cos’è?»
Sakurai esplose in un sorriso eccitatissimo «È SUSHI!»
Dopo qualche attimo di silenzio assoluto, l’unica reazione di Haru fu
un sospiro sollevato, seguito da una grande risata.
Alla fine mangiarono un sacco; Sakurai voleva provare tutto quello che
gli capitava sotto gli occhi, come se in vita sua non avesse mai mangiato, ed
ogni cosa che assaggiava gli piaceva. Soffriva un po’ quando si trattava di
cibi piccanti, ma si faceva forza e, incurante degli incendi che gli
devastavano la gola, mangiava fino all’ultimo boccone. Haru non aveva mai
conosciuto qualcuno con uno stomaco talmente capiente.
“Per fortuna costa tutto poco… mantenere
questo piccolo dinosauro non deve essere facile…” era
il suo pensiero più ricorrente.
Fecero anche una gara a chi mangiava più velocemente il sushi con
salsa wasabi, e alla fine Haru vinse, alla faccia di
un piccolo Sakurai talmente rosso da sembrare a sua volta un takoyaki.
«La salsa wasabi è terribile!» commentò
Sakurai «Ma è anche buonissima!»
«Ed è anche da pazzi mangiarla a questa velocità se non si regge il
piccante, Sakurai!» lo rimproverò con poca
convinzione Haru, mentre gli asciugava i lacrimoni.
Successivamente ebbero modo di incontrare la processione che, a ritmo
di tamburi e canti, si apprestava a rientrare nel tempio. Anche questa volta
Sakurai si rivelò abbastanza ignorante riguardo le tradizioni, dunque Haru poté
dar prova delle sue abilità di insegnante di storia delle religioni.
«Haru-san, lei sa davvero tantissime cose!
Sono impressionato!» esclamò il giovane a fine spiegazione, per poi prendere
delicatamente la mano sinistra di Haru tra le proprie «Mi piacerebbe davvero se
mi insegnasse tutto quello che sa!»
L’altro sorrise davanti a quella genuina ingenuità «Per sapere tutte
queste cose ho dovuto lavorare sodo molti anni, Sakurai.»
«Non lo metto in dubbio.» annuì felicemente Sakurai «Io l’ammiro
molto.»
“Questo bambino probabilmente si diverte a mettermi in imbarazzo…”
Ancora una volta Haru chiuse in se stesso i suoi pensieri, ma scelse
di non lasciare la mano che Sakurai gli stava stringendo; vero, erano entrambi
maschi – anche se non ci avrebbe messo la mano sul fuoco per quanto riguardava
Sakurai -, ma non aveva paura che la gente fraintendesse. Dopotutto,
probabilmente apparivano come due fratelli con molti anni di differenza.
Continuarono dunque il loro giro per il festival, fermandosi diverse
volte per assecondare i desideri e la sete di conoscenza del piccolo aspirante
suicida. Più di una volta provarono a vincere dei pesci rossi, ma il retino si
spaccava così facilmente che dopo un po’ si arresero; provarono anche il gioco
in cui si deve sparare a dei bersagli, ma Sakurai si spaventava troppo per i
botti, quindi decisero di lasciar perdere quasi subito. Una bancarella che
attirò la loro attenzione fu quella dove una donna, vestita con molteplici
strati di sfarzosi e meravigliosi abiti, predicava la lettura del futuro
attraverso i tarocchi.
«Credi davvero in queste cose, Sakurai?»
Haru era molto contrariato all’idea di farsi leggere il futuro; non
gli era mai piaciuto pensare che qualcuno potesse sbirciare nel suo passato e
nel suo futuro con tanta disinvoltura.
Sakurai invece brillava di emozione ed annuì parecchie volte alla
domanda «Certamente! È gratis, Haru-san, le dispiace
se mi fermo qualche minuto?»
«Fai con calma. Io nel frattempo vado a prendere qualcosa da bere.» e
fece per mettersi di lato, ma Sakurai gli prese di nuovo la mano. La sensazione
che gli trasmise fu quella di un soffio di vento leggero che accarezzava la pelle.
Si voltò verso il giovane, ma questi, forse colto da un ripensamento,
lo lasciò andare immediatamente e si scusò un paio di volte, assicurandogli poi
con un sorriso mesto che avrebbe fatto in fretta.
“Forse voleva che restassi con lui…” ragionò
Haru, scoccandogli un’ultima occhiata prima di allontanarsi.
***
Sakurai – Arcani, malessere, lacrime
In realtà Sakurai non voleva essere lasciato solo; non gli piaceva
stare da solo, e sebbene intorno a lui vi fosse davvero molta gente, l’assenza
di Haru gli pesava sul cuore.
«Cos’è quell’espressione così depressa, bambina mia? Vieni da me, ti
leggerò il futuro.»
Le parole della cartomante lo risvegliarono; batté le palpebre per
tornare alla realtà e fece come gli era stato detto, obbediente e silenzioso.
Non importava se la donna gli aveva dato della ragazza: Sakurai poteva essere
sia l’uno che l’altro, a piacimento di chi gli stava davanti; ma non avrebbe
mai avuto crisi d’identità, poiché, bambino o bambina, lui era Sakurai, e
questo gli bastava. Si strinse nelle braccia, con le mani piccole e leggermente
tremanti e gli occhi azzurri rivolti verso il basso, sul tavolo che gli si
stagliava innanzi. Si accomodò su uno sgabello rivestito di velluto viola.
La bancarella era piccola ma profonda, il grande tavolo della
cartomante era in fondo, nell’ombra, con la sua tovaglia nera su cui erano
finemente poggiate le carte dei tarocchi, illuminati solo dal gioco di luci che
due candele, uniche fonti di luce, proiettavano.
Era davvero molto suggestivo, e normalmente Sakurai avrebbe goduto
appieno di quell’atmosfera mistica, ma non ci riusciva se si trovava da solo.
«Ora concentrati, affonda nelle profondità della tua mente e scegli
con attenzione tre numeri. Le tue possibilità si estendono da uno a ventuno.»
continuò la donna, allungando verso il viso di Sakurai una delle sottili mani
per carezzargli gentilmente una guancia.
Il ragazzino arrossì e curvò le spalle «Du-due,
nove e tre…»
Solo dopo, quando notò un sorriso allargarsi sul volto della donna, si
accorse di aver istintivamente scelto i numeri che componevano la data odierna:
ventinove marzo.
Dopo una manciata di secondi passati a mescolare e mescolare ancora le
ventuno carte, la cartomante iniziò a sfogliarle, mettendo da parte i numeri
due, nove e tre. Pose il due alla destra di Sakurai, il nove al centro e il tre
alla sinistra.
«Sveliamo il passato?» domandò con voce melliflua, adocchiando il
ragazzo.
Questo annuì senza convinzione.
Senza che la donna usasse nessuna mano, i bordi della carta si
illuminarono debolmente di viola, quindi questa si voltò autonomamente,
lasciando Sakurai incantato da quella magia.
La prima carta, quella che svelava i segreti del passato, era la
numero nove: l’eremita.
«Sei stato solo.» la bocca della donna si arcuò in un sorriso appena
accennato «Molto solo. L’unica compagnia che hai avuto è stato il tempo, che
scorreva lento e portava con sé una grande saggezza che ormai è tua. Il
silenzio è stato il tuo amante; la riflessione, la segretezza e la discrezione
le tue sorelle. Hai visto molti, ma pochi ti hanno notato. Hai atteso,
pazientemente giorno dopo giorno, qualcosa…»
La seconda carta si illuminò a sua volta, rivelando una ruota rossa su
cui troneggiava una sfinge: la fortuna.
«Qualcosa che finalmente è arrivato.» sentenziò la cartomante.
Sakurai trattenne il fiato e portò le mani al petto.
«La ruota della fortuna ha cominciato a girare, generando un
cambiamento inatteso, il quale però potrebbe essere positivo come negativo. Ma
tu cogli l’attimo, è il momento di reggerti sulle tue gambe: rischia, apriti al
cambiamento. È il tuo destino che si sta compiendo.»
Se in un primo momento il viso di Sakurai era stato oscurato
dall’inquietudine a causa dell’eremita, la fortuna sembrò riportare la speranza
sul suo viso delicato. Non azzardò però neanche un sorriso, temendo che
qualsiasi cosa potesse distruggere quel momento e farlo ripiombare
nell’insicurezza che si celava nel suo cuore. Quest’ultimo aveva cominciato ad
accelerare il suo battito, sostenuto dalla sicurezza che il destino era dalla
sua parte: la sua vita, finalmente, stava per cambiare. Che il cambiamento
fosse stato positivo o negativo lui lo avrebbe accettato, lo avrebbe custodito
gelosamente.
Lui, ora, era vivo.
Era ora il turno dell’ultima carta, alla quale il ragazzo guardava con
speranza. Al contrario, la donna non aveva occhi che per lui, e sembrava
profondamente divertita da quella scena. Quando Sakurai lo notò, abbassò lo
sguardo e attese in silenzio.
«Ti vedo molto motivato.» lei si passò un dito sulle labbra e si
appoggiò coi gomiti sul tavolo «Credi veramente in questa sceneggiata. Non mi
aspettavo niente di diverso da te, Sakurai.»
Gli occhi neri della strega incontrarono quelli celesti del moro,
grandi e afflitti.
«Beh, la ruota della fortuna sta girando, no?» sussurrò lui,
abbozzando un sorriso amaro.
La risposta gli giunse in forma di risata, una sottile risata appagata
«Non puoi sfuggire al tuo destino, mio dolce bocciolo di ciliegio, nessuno
può.»
Sakurai sapeva perfettamente quanto lei avesse ragione, quanto altri mille
prima di lui avessero tentato l’impresa disperata in cui lui si stava cimentando… e non c’era mai stato un vincitore. Solo una
scia di cadaveri freddi e vuoti, ai quali anche lui presto si sarebbe unito.
La sola prospettiva lo riempì di terrore e gli fece desiderare di
terminare al più presto quella conversazione.
«Io… io devo…»
annaspò, pieno di vergogna.
«Non hai avuto fortuna.» la strega tranciò sul nascere ogni tentativo
di fuga; prese tra le dita la carta della fortuna e la indirizzò verso di lui,
che la osservava impaurito, pallido, come temendo di essere ucciso con un solo
sguardo «Hai scelto la persona sbagliata.»
«Non è vero!» si sforzò Sakurai, serrò i pugni ed alzò un po’ la voce,
fronteggiando la donna «Haru-san è una persona-…»
«Arida, senza voglia di vivere, incapace di amare.» ancora una volta
la strega riuscì ad imporsi su di lui «In altre parole, morto.»
Il ragazzo scattò in piedi «È una bugia! È una persona che ha sofferto
molto, che ha conosciuto la solitudine, ma ha avuto la forza di andare avanti!
… È diverso da me…»
Tutta la passione che l’aveva infervorato sembrò sfiorire quando smise
di parlare di Haru e passò ad analizzare se stesso; abbandonò lungo i fianchi
le braccia, mentre un pizzico insistente agli occhi lo avvertiva che a breve
avrebbe dovuto combattere per reprimere le lacrime.
«Io non ho mai avuto speranza… mi sono
subito arreso, senza neanche provare a combattere. Ho ignorato questo mondo ed
ora me ne pento. Ci sono così tante cose, cose talmente stupende! Questo mondo
è così meraviglioso, ed io per paura non l’ho mai affrontato! Ma ora… non
voglio morire così, senza aver mai davvero vissuto…»
strinse le mani al petto, rosso in viso, e non potendo più sopportare la
pressione che gli prorompeva dal petto per la prima volta urlò a pieni polmoni
«Io non voglio morire senza sapere cos’è l’amore!»
Silenzio. Silenzio terribile per un almeno dieci secondi, alla fine
dei quali la strega non riuscì più a trattenere una risata divertita.
«Oh, Sakurai!» lo richiamò, con l’espressione di una madre che spiega
una cosa banale al proprio figlio «È questo che vuoi? La carta della fortuna
consiglia di mirare in alto, ma dovresti porti dei limiti se non vuoi soffrire
inutilmente!»
Incapace di reggere oltre, tremando da capo a piedi per l’imbarazzo e
l’incapacità di reagire, Sakurai si abbandonò alle lacrime e urlò ancora «STAI
ZITTA!»
«Lo dico solo per il tuo bene, lo sai.» la donna si mise a sua volta
in piedi, superandolo in altezza. L’ilarità di poco prima sembrava essere
svanita nel nulla, sostituita da una solennità ed una serietà che fecero
sentire Sakurai come il più vile dei vermi. Gli rivolse uno sguardo austero e
grave, aggiungendo «Il tempo a tua disposizione sta per scadere, te ne sei
accorto?»
In realtà no, Sakurai non se n’era accorto. Fino ad allora aveva
passato delle ore bellissime in compagnia di Haru, talmente tanto spensierato e
felice da non aver fatto caso a ciò che invece aveva cominciato a tormentarlo
da quando era stato lasciato solo: le forze venivano meno, il respiro si faceva
irregolare e pesante, i muscoli sembravano perdere la loro vitalità, la mente
faticava a ragionare. Un terribile senso di annebbiamento dei sensi lo
pervadeva, gli sfuocava la vista, gli rendeva difficoltoso udire e parlare. Ma
la cosa più terrificante era il vuoto che andava prendendo possesso del suo
petto e della sua mente.
“Haru-san…” lo invocò col pensiero, mentre
cominciava ad arretrare velocemente “Haru-san…”
Sapeva benissimo che la strega non era sua nemica, che voleva davvero
evitagli di soffrire più del dovuto, ma in tal caso sarebbe stato costretto a
gettare tutto ciò per cui aveva lottato quel giorno, l’unico giorno veramente
vissuto della sua vita, a vanificare ogni sorriso forzato ed ogni pensiero
negativo represso con tanta buona volontà.
Non voleva morire solo e disperato, come morivano tutti quelli simili
a lui.
“Haru-san…”
«Non è ancora finita, Sakurai.» gli ricordò la strega, ma lui era già
di spalle e stava scappando via, lontano da quella tenda, con il terrore di
andare incontro al suo futuro. Rimasta sola, ella tornò a guardare l’ultima
carta rimasta ancora coperta, quella che rappresentava le cose che dovevano
ancora avvenire. Usò la pallida mano destra per voltarla, scoprendo così la
ventunesima carta del mazzo: il mondo.
«Il tuo tempo è quasi scaduto. È il momento di raccogliere ciò che hai
seminato, di gioire della vita che hai vissuto, delle esperienze che ti hanno
aperto gli occhi. E forse di sfiorare l’amore che tanto brami…»
***
Haru – Morte, amore, Sakurai
Haru non ci aveva impiegato poi così tanto tempo. Insomma, tra
l’andare, il comprare e il tornare aveva perso neanche dieci minuti… non era abbastanza: una bancarella non poteva
sparire nel nulla in dieci minuti!
Rimase per un minuto intero immobile, coi piedi piantati nel terreno e
la bottiglia d’acqua ancora sigillata nella mano destra, mentre in quella
sinistra stringeva un pacchetto azzurro contenente un regalo. Si trattava di
una sciarpa turchese, finemente lavorata con un motivo ispirato alle nuvole;
ricordava che Sakurai, al cimitero, aveva detto che le nuvole erano ciò che più
amava. Alla fine non era riuscito a resistere alla voglia di fargli un regalo,
anche se non c’era nessun motivo particolare: lo voleva fare e basta, sperava
che così Sakurai si sarebbe ricordato di lui in futuro.
Ma adesso tutto era privo di un senso.
Lo stand della cartomante era scomparso nel nulla, e con esso anche
Sakurai.
Haru era agitato fino al midollo.
Si guardò intorno svariate volte, chiamò a gran voce il nome del
ragazzo e cominciò a domandare un po’ a tutti i commercianti della zona.
«Una cartomante? No, ragazzo mio, qui non c’è mai stata nessuna
cartomante.» gli rispose il terzo venditore che interpellò, un uomo molto
anziano che gestiva un chiosco di ramen «E anche se
ci fosse stata nessuno te lo direbbe.»
«E perché mai?» lo interrogò ancora il professore, che cominciava già
a sospettare qualcosa.
L’uomo sollevò un sopracciglio, probabilmente si stava chiedendo se
Haru fosse stupido, e mormorò con attenzione «Perché nessuno vuole incorrere
nelle ire della strega della foresta, semplice!»
Il bruno ebbe la netta sensazione che la terra gli si stesse aprendo
sotto i piedi; i suoi più terribili sospetti erano stati confermati: era la
strega, era tornata. E forse gli aveva portato via Sakurai. Un senso di vuoto
gli occupò il cuore, un dolore profondo e simile a quello che aveva subito
quando Haruhi se n’era andata via per sempre.
“No, Sakurai no…”
pregò tra sé e sé, mentre si passava le mani tra i capelli.
Perché diavolo l’aveva lasciato solo?!
Sarebbe tornato nella foresta e avrebbe chiesto scusa alla strega,
pregandola di non fare del male a quel povero ragazzo, le avrebbe dato la
qualsiasi pur di non perdere anche Sakurai. Era troppo, non poteva sopportare
di perdere anche lui, proprio lui…
«Però l’ho visto un ragazzo come quello che dicevi tu. Piccolino, con
gli occhi azzurri e un maglione grigio.»
Come se avesse appena scorto un raggio di sole nell’oscurità della
notte, Haru afferrò le spalle dell’anziano «E dov’è andato?! Stava bene?!»
«Hey, fai piano! Sono solo un povero
vecchio!» brontolò quest’ultimo, agitandosi per scrollarsi di dosso le mani del
giovane uomo «Per stare bene, non sembrava stare affatto bene! Mi è sembrato
che stesse piangendo, e andava piuttosto di fretta.»
L’idea che Sakurai stesse piangendo era quanto di più doloroso potesse
sopportare, non poteva concepire la visione di quel viso innocente e sempre
gioviale rigato dalle lacrime. Doveva trovarlo, immediatamente.
«Dov’è andato?» ripeté nuovamente, stavolta mantenendo i nervi saldi.
Il venditore gli indicò con un dito calloso un piccolo sentiero alla
loro destra, che abbandonava la fiera e si inoltrava nella foresta, al buio. Il
dominio della strega. Haru ringraziò sentitamente l’uomo, quindi si avviò a gran
velocità su quella strada.
Il sentiero era molto più lungo di quanto si aspettava; aveva ormai
percorso almeno una cinquantina di metri, ma ancora l’unica cosa che si
innalzava attorno a lui erano alberi di ciliegio in fiore, le cui fronde,
scosse dal vento freddo, producevano un rumore che gli faceva un po’ paura.
Gli sembrava di essere all’interno di uno dei suoi mille incubi, in
cui, accerchiato da quegli odiati fiori, non riusciva a raggiungere e salvare
Haruhi; neanche una volta era riuscito a salvarla, ma adesso era diverso: non
era un sogno, anche se la coincidenza era abbastanza spaventosa, e Sakurai era
con tutta probabilità in pericolo.
Non avrebbe permesso che la tragedia si ripetesse, non su Sakurai!
Ben presto le gambe cominciarono a fargli male per lo sforzo di
continuare a correre, e gli occhi, forse per effetto del buio e della poca luce
lunare che gli illuminava la via, iniziarono a notare ombre deformi che si
aggiravano per il bosco. Gli mancò il fiato per un attimo, quindi si risolse ad
accelerare ancora più, chiudendo in un angolo della sua mente quelle leggende
che volevano che di notte, nelle foreste, gli oni*
uscissero a cercare prede.
«Sakurai! Sakurai!» continuava a chiamare, senza però ottenere
risposta. Sakurai non sembrava essere lì: che fosse stato catturato e portato
via? No, non voleva neanche considerare un’eventualità simile. Corse ancora più
veloce, sgolandosi così tanto che fu sicuro che tutte le creature della foresta
ormai sapessero chi stava cercando.
Dopo un tempo che gli parve infinito, finalmente intravide la fine del
sentiero; sul viso gli si formò un sorriso rincuorato, perché finalmente stava
per uscire da quella stradina così buia. Mano a mano che si avvicinava, si
accorse che quella che stava raggiungendo era una radura.
Nel momento in cui arrivò a destinazione, tuttavia, non poté fare
altro che sgranare gli occhi e lasciare che lo stupore gli mozzasse il fiato.
Se esisteva qualcosa di veramente “magico”, allora la magia era tutta
confluita in quel piccolo angolo di mondo: l’erba verdissima e profumata era
cosparsa di fiori di ciliegio, la cui abituale colorazione rosa era stavolta macchiata
di rosso; la luna giocava tra le nuvole, proiettando qua e là sprazzi di luce
nella quale giocavano piccoli barlumi, che solo dopo un attento esame Haru
riconobbe come lucciole; tutto intorno, il vento scuoteva con dolcezza ogni
cosa, spingendo le fronde degli alberi a suonare la loro migliore melodia.
Tutta quella era la forza della natura, un’energia talmente potente
che Haru la sentiva scorrere dentro di sé. Era una sensazione incredibile.
Aguzzando la vista, infine, nel bel mezzo della radura poté scorgere
una sagoma che gli sembrava di conoscere, sebbene fosse di schiena. Basso,
minuto, dai capelli corvini che gli accarezzavano le spalle: sì, era lui.
Haru si avvicinò senza pensarci due volte «Sakurai…?»
E l’altro, sentito il suo richiamo, finalmente si voltò. Sì, era
proprio lui, pensò Haru, nessun altro aveva degli occhi così limpidi.
Tuttavia, c’era qualcosa di diverso in Sakurai.
Il suo sorriso, solitamente gioioso e sereno, adesso era spento e
appena accennato; la sua pelle pallidissima, il viso scavato; gli occhi,
cerchiati di viola, erano quelli di chi aveva pianto a lungo e aveva smesso da
poco. Nel complesso sembrava molto sciupato e malinconico, ma anche commosso di
vederlo lì.
Il suo abito, poi, era completamente diverso. Se fino a dieci minuti
prima aveva indossato quel vecchio maglione grigio e dei normalissimi pantaloni
un po’ troppo larghi e lunghi per lui, il kimono che aveva addosso in quel
momento lo rendeva simile a una figura regale. Ovviamente, le varie tonalità di
rosa tempestato di disegni di fiori, unito ai mille veli bianchi che gli circondavano
le braccia e la vita non erano affatto mascolini, ma gli donavano così tanto da
sembrare essere stati fatti apposta per lui.
«Haru-san…» sussurrò il ragazzino
felicemente, e benché fossero ancora un po’ lontani, Haru lo sentì benissimo.
Sul viso del professore si fece spazio un sollievo senza paragoni, e
sorridendo si avvicinò a lui a grandi falcate. Anche Sakurai voleva
raggiungerlo, perciò cominciò a muoversi con una naturalezza che faceva
presumere che fosse stato abituato sin da bambino a muoversi indossando i
kimono.
«Haru-san!»
ripeté ancora una volta, con le lacrime gli occhi e, come sempre, le mani
strette al petto. Sakurai non credeva possibile che
Haru lo avrebbe seguito, che lo avrebbe trovato. L’emozione gli mozzò il fiato,
ma non solo quella purtroppo: uno spasmo lo piegò in due per il dolore,
facendogli perdere l’equilibrio per poi cadere rovinosamente sulle ginocchia,
quindi disteso.
«SAKURAI!»
Sentì urlare il suo nome, ma nel suo campo visivo erano presenti solo
bellissimi fiori.
Haru lo raggiunse immediatamente e si sedette accanto a lui, lo prese con
delicatezza tra le braccia e lo fece appoggiare al proprio petto. Il ragazzo,
gli occhi serrati ed il viso sudato, respirava con difficoltà e tremava;
sembrava stare parecchio male.
«Sakurai…» lo chiamò ancora una volta l’uomo,
disperato, senza sapere cosa fare.
Doveva assolutamente portarlo in ospedale! Infilò una mano nella tasca
dei pantaloni, estraendone poi un telefono cellulare nero; aveva già cominciato
a comporre il numero quando si rese conto che in quel luogo non c’era nessuna
copertura di rete.
«Dannazione!» imprecò a denti stretti «Com’è possibile che non ci sia
campo?!»
«Anche se ci fosse sarebbe del tutto inutile andare in ospedale.»
Una voce gelida, di chi ha visto le epoche passare senza battere
ciglio, distrusse tutte le sue speranze. L’uomo alzò lo sguardo nella direzione
da cui era venuto, imbattendosi nella strega che aveva incontrato quella
mattina.
«Smetti di darti affanno, viaggiatore. Lui sta morendo, e tu non puoi
salvarlo.» sentenziò la donna.
«No…»
Il freddo che Haru provava divenne assolutamente gelido, talmente
tanto che pensava di morire assiderato; un brivido gli scosse il corpo e lo
fece tremare, lo assalì quel vuoto che aveva avuto dentro di sé quando Haruhi
era morta, forse questa volta era addirittura più insopportabile. Non stava
accadendo di nuovo, non poteva accadere di nuovo!
«Tu puoi salvarlo!» gridò senza ritegno contro la strega, maledicendo
lei e tutti quei fattori che stavano per mettere fine ad una vita così giovane,
così bella e capace di portare la felicità agli altri. No, Sakurai non poteva
morire, non doveva affatto morire!
«Nessuno può salvarlo, è giunto al termine del suo ciclo vitale, come
la natura vuole.» intervenne ancora ella, solenne come lo era stata quella
mattina.
«Stronzate!» la rabbia si impossessò di lui, che nel frattempo
continuava a stringere spasmodicamente a sé il ragazzo morente «Nessuno muore
così giovane!»
Se la strega voleva fargli credere che Sakurai stesse morendo di morte
naturale… allora era sulla cattiva strada. Haru passò
con gentilezza un braccio dietro la schiena del ragazzino, cercando di
spronarlo con piccole spinte a non lasciarsi andare.
«Sakurai! Resta sveglio! Troverò un modo per salvarti, ma non ti
addormentare!» lo pregò con voce rotta dalla tristezza.
Finalmente, dopo qualche stimolo, il giovane socchiuse le palpebre ed
improvvisò un sorriso in direzione del cielo stellato, poiché la vista era
ormai talmente annebbiata da impedirgli di vedere Haru.
«Haru-san…» lo chiamò debolmente, alzando
pian piano una mano.
«Sono qui, Sakurai…» gli rispose l’uomo,
improvvisando un sorriso senza speranza; gli prese la mano con la sua libera,
sentendone la freddezza e sfiorando delicatamente quelle piccole dita senza più
forza.
«Haru-san, le chiedo scusa…»
sussurrò ancora il ragazzo, gli occhi pieni di lacrime ed un’espressione di
dolore sul viso «Io le ho detto una bugia.»
Haru avrebbe voluto ribattere che andava tutto bene, che non gli
importava se lo aveva coperto di bugie o lo aveva ingannato: vero o finto, realtà
o illusione, Sakurai era entrato nel suo cuore come nessuno aveva mai fatto,
con quella gentilezza infinita e capacità di fargli dimenticare ansie e dolori.
Senza saperlo, quel piccolo aspirante suicida era arrivato a toccare lì dove
nessuno aveva mai fatto; non si era arreso là dove tutti avevano rinunciato in
partenza. E lui non poteva lasciarlo morire così miseramente!
«Non fa niente, Sakurai, non fa niente…» lo rassicurò Haru, sinceramente disinteressato a
conoscere la verità su quella presunta bugia.
Dopo un profondo respiro, il moro riprese a parlare, pur senza
riuscire a guardarlo negli occhi «Io… ho aspettato, ho
aspettato così a lungo, arrabbiato ed invidioso di quegli esseri umani che, al
contrario di quelli come me, sanno cos’è l’amore, si beano e si cullano in
esso. E così… quando ne ho avuto la possibilità, ho
pensato che…»
Un colpo di tosse gli tolse il fiato e bloccò le parole sul nascere;
Sakurai si accucciò contro il petto di Haru, che intanto continuava a
ripetergli di conservare le forze e non parlare, benché fosse ormai evidente
che non c’era più niente da fare.
La strega reputò giusto intervenire, quindi si avvicinò di qualche
passo, col lunghissimo abito blu notte che strofinava sull’erba pulita.
«Gli ho dato io questa possibilità.» affermò, ma lo sguardo che
ricevette da Haru non fu affatto di gratitudine «Dopo il nostro incontro di
stamane. Ma il suo ciclo vitale era già quasi del tutto esaurito, sapeva che
avrebbe avuto massimo un giorno per realizzare i suoi sogni, ed ha riposto
tutte le sue speranze in te, pur sapendo quanto sei senza cuore.»
«Haru-san non è senza cuore!» ripeté ancora
una volta Sakurai, debole ma con fermezza. Avrebbe voluto guardare le persone
con cui stava parlando, ma i suoi occhi erano ormai vacui e scorgevano solo
macchie di colore, dunque non gli restava che affidarsi alla loro misericordia
«È una persona buona, gentile, piena d’amore!»
«Sakurai…» l’uomo si sentì profondamente
onorato per quella descrizione in cui non credeva di ritrovarsi. Lui avrebbe
descritto così Sakurai, non se stesso. Accarezzò piano il capo del ragazzino.
E allora la strega, fredda e dura, piantò uno sguardo gelido in quello
agitato di Haru.
«E così l’ho reso umano per un giorno.»
Haru lo aveva già capito, compreso ed accettato. Forse lo aveva
intuito nel momento in cui lo aveva guardato bene per la prima volta: puro,
innocente, bellissimo, fragile; questi erano gli aggettivi con cui la strega
aveva definito quel fiore che tra tutti lui odiava di più. O meglio, che aveva
odiato prima di incontrarlo presso quel ponte, intento a camminare sul confine
tra vita e morte.
Ora capiva ciò in vita aveva provato Haruhi, ora capiva molte cose.
«Ora capisci cosa significa amare un fiore, Maejima Haru.»
Haru annuì lentamente e strinse a sé il piccolo fiore di ciliegio.
Chiuso nel suo abbraccio caldo, Sakurai si lasciò scappare un
singhiozzo «Mi dispiace così tanto, Haru-san…»
Era vero, Haru lo riconosceva: si stava ripetendo la tragedia e lui
non poteva fare niente, di nuovo. Sakurai lo aveva aspettato a lungo, ma lui
era arrivato troppo tardi, quando le misere due settimane di vita del fiore di
ciliegio erano già trascorse. Non era Sakurai quello che doveva scusarsi, ma
lui stesso, per essere arrivato troppo tardi.
«Non è colpa tua…» mormorò triste; quindi si
avvicinò col viso a quello del ragazzino, dandogli un piccolo bacio sulla
fronte, quasi con la paura che un gesto troppo improvviso potesse ferirlo.
Notò allora che, nonostante il momento terribile, Sakurai aveva ancora
la forza di sorridergli nel modo più dolce che poteva, e lui cercò di
ricambiare nello stesso modo, perché voleva che il ragazzino si spegnesse in
pace e felice.
«Quando ci siamo incontrati…» riprese parola
Sakurai, sempre più debole e immobile «… hai notato
che Sakurai è un cognome. Tutti quelli come me si
chiamano così, in realtà… Ho pensato a lungo, e alla
fine credo di aver trovato un nome solo mio, che nessuno di loro ha: Minato. Ti
piace?»
Era veramente fiero di quel nome, glielo si leggeva negli occhi, per
quanto ormai vacui e grigi. Persino la strega, che si era rinchiusa in un
ermetico silenzio assieme alla natura circostante, arrivò ad accettare quella
novità, sebbene il suo animo atavico non potesse più essere commosso da niente.
Haru, che invece era coinvolto con tutto il cuore, annuì, sinceramente
commosso «È un nome stupendo.»
Minato riuscì a sorridere a fatica, aggiungendo poi con voce bassa e
stentata «L’ho scelto con cura. Volevo essere il porto sicuro in cui tu avresti
sempre trovato riparo*…»
Sì, Haru lo aveva immaginato, e si sentiva ancor più onorato di prima:
il ricordo di Minato sarebbe stato per sempre il porto sicuro in cui lui
sarebbe tornato, questo era sicuro.
«Ti ringrazio.» gli disse, carezzandogli una guancia pallida «Ma
adesso smetti di sforzarti.»
Minato provò a scuotere un po’ il capo, come a dire che non aveva
importanza, che andava tutto bene e sarebbe andato tutto bene anche in futuro.
Avrebbe voluto aggiungere dell’altro, ma ormai riusciva a stento a sillabare
qualche frase, mentre il resto del corpo, compresa la mente, non rispondevano
più ai suoi comandi ed avevano finito col soccombere ad una fredda e morta
immobilità.
«Vorrei… che mi chiamasse…»
lo pregò infine, la speranza riempiva la sua voce.
Haru non poté far altro che accontentarlo con tutto il suo cuore,
ripetendo un’infinità di volte quel nome, “Minato, Minato, Minato, Minato”,
sempre più lentamente e con più commozione, finché nemmeno lui fu capace di
resistere oltre e si abbandonò alle lacrime. Tenne vicinissimo a sé Minato, che
però sembrava più morto che vivo.
«Adesso io so cos’è la felicità… e spero
anche lei…» sibilò Minato, così piano che per Haru fu
quasi difficile sentirlo. Infine, lentamente, chiuse gli occhi.
«Grazie di tutto…»
Il silenzio era piombato come una doccia fredda nella radura nel
momento in cui il corpo di Minato si era abbandonato tra le braccia di Haru ed
il suo ultimo respiro venne esalato. Il vento, che fino a quel momento aveva
soffiato senza pietà o discrezione, fu il primo a sentirsi in dovere di
mettersi a lutto; e così anche le lucciole, che smisero di brillare e si
poggiarono sui fiori; e così anche le figure che, nel bosco, avevano assistito
a tutta la scena con occhi curiosi; e così anche la strega della foresta, con
gli occhi socchiusi rivolti alla luna.
L’unico a rompere il silenzio era Haru, che non riusciva a frenare
lacrime e singhiozzi e stringeva a sé con forza il cadavere del piccolo fiore.
In un certo senso, era una fortuna che la sua mente fosse completamente
annebbiata dal dolore, perché se avesse potuto riflettere su ciò che era appena
accaduto sarebbe sicuramente sprofondato in una disperazione senza fine.
«Minato…» continuava di tanto in tanto a
chiamarlo, senza però ricevere nessuna risposta. Alla fine quella tragedia si
era ripetuta una seconda volta, e un’altra persona che amava gli era stata
strappata. Sapeva di non poter scaricarne la colpa sulla strega, poiché non era
stata lei a stabilire la durata della vita degli esseri viventi; sapeva che in
realtà non era colpa di nessuno: la natura aveva solo svolto il suo ciclo. Ogni
giorno moltissime persone morivano e molte altre ne nascevano, era così che
doveva andare.
Eppure lui non riusciva ad accettare la morte di Minato.
«Non può finire così…» pianse, la voce rotta
dai singhiozzi.
Mentre lo diceva, però, accadde qualcosa. Il corpo di Minato si fece
improvvisamente più leggero, come se non avesse più peso, e quando Haru aprì
gli occhi per capire cosa stava succedendo… se lo
vide scivolare via, sollevato dal vento: la pelle, i capelli, tutto si era
improvvisamente tramutato in mille e mille fiori di ciliegio che stavano
volando via.
«No… Minato!»
Con fatica ed arrancando, Haru si mise in piedi e, evidentemente senza
ragionare, si gettò all’inseguimento dei fiori, superando la strega immobile
per poi inoltrarsi nella foresta.
Quando egli scomparve nel folto del bosco ed ogni rumore si fu
acquietato, la donna finalmente inspirò profondamente e riaprì gli occhi. Nella
tasca dell’abito aveva ancora conservati i tarocchi che poco prima aveva letto
a Minato, li tirò fuori e chiese «Come consigli a Maejima Haru di agire in
relazione al suo futuro?», quindi li mescolò e li aprì a ventaglio, pescando un
arcano a caso: il sole.
La strega sorrise «Che ironia.*» e infine posò gli occhi sull’erba, lì
dove Minato era morto «Forse non è ancora finita…»
Haru corse, corse, corse fino a perdere il fiato e sentire le gambe
fargli male; corse con tutto se stesso, libero come non lo era da molto tempo,
con l’unico pensiero di inseguire quei fiori di ciliegio che un tempo avevano avuto
forma umana, che fino a pochi minuti prima gli avevano sorriso innocentemente,
che avevano vinto nell’impresa di tirarlo fuori dalla gabbia di ferro in cui si
era autonomamente rinchiuso anni addietro.
“Minato!”
Non aveva mai creduto che fosse possibile amare così tanto qualcuno
pur avendolo appena conosciuto: non credeva nei colpi di fulmine, e, a dirla
tutta, aveva smesso anche di credere nell’amore.
“Haru-san non è
senza cuore! È una persona buona, gentile e piena d’amore!”
“Minato!”
Forse serviva solamente che qualcuno, una persona particolare,
riuscisse a risvegliare la sua voglia di vivere. Haruhi sarebbe stata felice. E
anche Minato.
“Non andartene!”
Teneva il naso all’insù mentre correva, senza curarsi di ciò che si
poneva sulla sua strada e senza guardare dove andava: molte volte andò a
sbattere contro alberi o si fece male passando troppo radente agli arbusti; ma
non si lasciò abbattere: cadeva, ma si rialzava sempre. Fino a quella mattina
si sarebbe lasciato morire senza muovere un muscolo, adesso combatteva con le
unghie e coi denti pur di raggiungere ciò che restava di lui.
“Minato!”
E finalmente la foresta terminò… terminò con
un piccolo burrone, nel quale Haru cadde e rotolò come un inetto, tagliandosi
più volte ed atterrando su un braccio; cacciò un gemito di dolore, ma neanche
la dolorosissima sensazione che gli si propagava dalla spalla al resto del
corpo poté incrinare la sua determinazione. Si rimise in piedi, riprese a
correre.
Incredibilmente, e forse anche ironicamente, era giunto lì dove tutto
era iniziato: il ponte. La notte lo spettacolo era ancora più suggestivo e
magico, e rivederlo adesso fece notare all’uomo quanto in una sola giornata era
cambiato: quella mattina aveva guardato con distacco allo spettacolo,
addirittura disturbato dall’eccessiva bellezza del luogo; adesso si sentiva in
comunione con la natura, commosso dalla magnificenza dei fiori di ciliegio che
venivano illuminati dalla luce della luna, ed il suono dell’acqua che scorreva
nel fiume era quanto di più soave avesse mai udito.
Continuò nel suo inseguimento, tenendo penzoloni il braccio senza
alcun dubbio rotto e scosso da fitte lancinanti, quando ebbe un terribile
presentimento che immediatamente si avverò: il vento cambiò direzione, ed i
fiori vennero trasportati via, verso il fiume, là dove non esisteva alcuna
strada percorribile.
Haru dovette fermarsi.
In realtà, se avesse potuto seguire la sua volontà, avrebbe percorso
il resto del tragitto vogando, ma questo lo avrebbe portato a terribili
conseguenze: le acque gelide e la corrente velocissima e fredda non avrebbero
avuto pietà di lui. E Minato non glielo avrebbe mai perdonato.
Si sentì come se le forze gli fossero improvvisamente venute meno,
svuotato di ogni coraggio che lo aveva mosso fino ad allora: Minato era andato
via, definitivamente.
«Che senso ha tutto questo?» sibilò, al limite della sopportazione.
Era rimasto da solo, di nuovo. Gli avevano portato via Minato: chi
avrebbe dovuto odiare stavolta? Nessuno, questa era la verità e lo sapeva
benissimo; non aveva niente e nessuno su cui riversare la sua rabbia e la sua
disperazione, non poteva fare altro che accettare quella perdita e farsene una
ragione. Come sarebbe andato avanti? Non riusciva più a concepire una vita come
quella che aveva trascorso fino a quel giorno, così piatta e priva di serenità.
L’unica persona che era stata in grado di dargli la forza di tornare a
sorridere se n’era andata.
«Non è giusto… non è giusto che finisca così…»
Si mosse quasi inconsciamente, poiché voleva tornare lì, nell’esatto
punto in cui il piccolo aspirante suicida si era materializzato nella sua forma
umana, e lo voleva ricordare ancora una volta in quel modo: con gli occhi
grandi e limpidi, i lineamenti delicati, i gesti eleganti ed i modi gentili.
Faticava a riprendere fiato, un tremore inestinguibile gli
attraversava il corpo, soprattutto il braccio ferito; ma la sua mente non
riusciva a focalizzare su niente che non fosse quel pensiero che gli faceva
battere il cuore e sentire un’agonia senza pari, che gli straziava l’anima.
Quando finalmente fu lì, esattamente dove ricordava di aver afferrato il polso
di Minato, si pentì terribilmente di aver stretto così forte la presa in quel
momento: chissà che dolore gli aveva fatto provare…
Riemerse dai suoi pensieri non appena gli occhi lo notarono: ne era
rimasto uno.
Un piccolo fiore di ciliegio giaceva sul legno, come in attesa.
Le lacrime ricominciarono a rigare il volto dell’uomo, che subito lo
prese tra le mani con la massima delicatezza, intenzionato a tenerlo per sempre
con sé, a farne il suo tesoro insostituibile: quel fiore era Minato.
«Minato…» ripeté, prima di appoggiarsi con
le spalle al legno del ponte, e lì restare, solo con la persona che amava.
***
Haru, mille
fiori di ciliegio, Minato
Il sole batteva a picco, creando un piacevole contrasto con il vento
fresco che spirava. A Haru piaceva quel clima, gli piaceva il sole che illuminava
e riscaldava, il vento che soffiava e portava via i pensieri, e gli piacevano
anche le giornate come quella.
Era di nuovo il 29 marzo, un anno esatto era passato dall’ultima volta
che si era recato in quel cimitero; sperava che Haruhi lo avesse perdonato per
essersi buttato giù così a lungo, per non aver avuto la forza di percorrere
nuovamente quel sentiero che si diceva essere abitato da una strega potentissima;
come se non bastasse, al lungo periodo di depressione si era aggiunta anche una
dolorosa convalescenza e riabilitazione del braccio rotto durante quella notte.
Fortunatamente era riuscito a superare tutto, pian piano e con la propria forza
di volontà.
«Mia cara sorellina, mi sei mancata.» sorrise l’uomo, in direzione
della lapide «Ti ho portato una cosa.»
Detto ciò, con delicatezza, appoggiò sulla tomba un ramoscello di
fiori di ciliegio, guardandoli commosso. Ora concordava con Haruhi e con la
strega su quanto fossero belli: ora, finalmente abbandonati per sempre odio e
rancore, la sua esistenza era tornata ad essere libera da ogni sentimento
negativo.
Ora viveva, viveva per sé stesso, per Haruhi e per Minato.
Rimase lì per diverso tempo, contemplando la meravigliosa vista della
foresta che si aveva da quella posizione e raccontando a Haruhi di come aveva
ripreso in mano la sua vita nell’ultimo anno ed era tornato ad essere il
gioviale e gentile Haru di sempre, di come aveva fatto nuovi incontri, nuove amicizie.
Ormai non era più solo, anche se sentiva ancora profondamente la
mancanza di sua sorella e di Minato.
Inspirò profondamente l’aria fredda, che riuscì a ridestarlo dallo
stato di riflessione in cui era caduto.
Sorrise in direzione della tomba, passandovi sulla sommità una mano
«Tornerò presto.»
Con questa promessa si avviò sulla via principale, le mani infilate
nelle tasche della giacca marrone che gli faceva sentire meno freddo, assieme
alla sciarpa azzurra che gli pendeva dal collo. Alla fine l’aveva tenuta lui, e
assieme al piccolo fiore di ciliegio rappresentava l’unico ricordo tangibile di
Minato.
Gli venne improvvisamente voglia di guardarlo un’altra volta, il suo
tesoro, dunque estrasse da una delle tasche il portafogli: lo custodiva nella
sua carta d’identità. La tirò fuori e l’aprì… ma
dentro non c’era nessun fiore.
Haru sgranò gli occhi e sentì un senso di vuoto fin troppo conosciuto
impossessarsi di lui: come un forsennato, cominciò a scavare dentro il
portafoglio, nelle tasche, ovunque potesse essere finito quel fiore. Avrebbe
percorso tutta Kyoto pur di ritrovarlo!
«Dov’è… dov’è… Minato…» si disperò a voce alta, nel panico.
«Cerca qualcosa?»
Il portafoglio ed il cellulare, che in quel momento aveva in mano, gli
sfuggirono e si abbatterono per terra. Haru neanche sentì il tonfo che
produssero: la sua mente era in black out. Quella voce… non era possibile…
Lentamente, come se avesse paura di trovarsi dentro un sogno da cui si
sarebbe presto risvegliato, voltò il capo nella direzione da cui provenivano le
parole, e quando i suoi occhi verdi ed increduli incontrarono un altro paio di
un limpido azzurro, si rese conto che quello non era un sogno: era la realtà.
E questo era infinitamente più bello.
«O magari qualcuno, Haru-san?»
Note:
#1: Gli hanami sono le feste per la
fioritura dei ciliegi, una delle più famose si svolge proprio a Kyoto.
#2: Haru ha una piccola distrazione e confonde la strega con una yuki-onna, uno spirito di donna della mitologia giapponese
che congela gli uomini col suo alito di ghiaccio.
#3: “Sakurai” significa “pozzo di fiori di ciliegio”.
#4: I takoyaki sono delle polpette a base di
polpo; quelle amate da Sakurai, naturalmente, sono invece quelle tagliate in
modo da somigliare a un polipo – la versione per bambini dei takoyaki.
#5: Piatto di origini cinesi a base di tagliatelle e carne/pesce,
arricchito con vari condimenti.
#6: Gli oni sono dei demoni mostruosi della
mitologia nipponica.
#7: Minato significa “porto”.
#8: La strega si riferisce al fatto che il nome “Haru” può essere
scritto sia coi kanji di “primavera” sia con quelli
di “sole”.
Note dell’Autrice:
E rieccomi! Di certo non pensavo che sarei tornata a
pubblicare così presto, lo ammetto! Appena finita la storia per cui forse
alcuni di voi mi conoscono, “What colour
is the snow?”, ho avuto
quindi giorni di rigetto verso qualsiasi cosa andasse scritta XD
Innanzitutto
“Senbonzakura” nasce da un mio AMV/MAD mentale, nato
spontaneamente la prima volta che ho ascoltato la canzone “Senbonzakura”
dei Vocaloid – nel caso qualcuno la volesse ascoltare
su YouTube -, per questo motivo ho deciso di lasciare
come titolo quello della canzone, tradotto con “Mille fiori di ciliegio”.
I
personaggi in realtà appartengono ad un’altra mia storia, una long che ho
ancora in cantiere perché si sta rivelando ostica. Infatti il vero nome del
personaggio di Sakurai è Minato Sakurai,
e Haru Maejima è il co-protagonista assieme alla sua sorella gemella Haruhi –
nell’originale perfettamente viva e vegeta per fortuna! In realtà i loro
caratteri sono invertiti qui, ahahaha! Nell’originale
Haru è un simpaticone sempre allegro e compagnone, mentre Minato uno tsundere timidissimo e scontroso a livelli estremi! Ho
deciso di usare loro perché i nomi si adattavano meravigliosamente – Sakurai che si riferisce ai fiori di ciliegio, Haru che
significa sia primavera che sole…
Beh, spero
che il risultato finale sia gradito! ^_^
A presto!
Sely.