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Autore: Sion    13/08/2012    2 recensioni
Per un secondo, un secondo solo, ad Haymitch venne da piangere. Forse fu l’alcol, forse fu il viso di Danae che si sovrapponeva al viso di Katniss Everdeen, forse fu la forza, la determinazione, eppure l’incertezza che colse negli occhi grigi — occhi da Giacimento, su un viso da Giacimento — della giovane, forse fu quel gesto di protesta, di affetto, forse fu solo la speranza che premeva per uscire, ma Haymitch si alzò in piedi, barcollante, caracollando verso Katniss.
( otherpov + oc )
Genere: Generale, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Effie Trinket, Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Primrose Everdeen
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Titolo: Drunk hopes
Autore: Sion
Fandom: Hunger Games
Rating: Verde.
Personaggi/Pairing: Haymitch Abernathy, Effie Trinket, Primrose Everdeen, Katniss Everdeen, OC (Danae Werthart)
Lunghezza: 2126 parole.
Avvertimenti: Original Character.
Genere: Generale.
Disclaimer: Hunger Games, tutti i personaggi nominati e l’universo in cui vivono non mi appartengono (ad eccezione di Danae Werthart), ma sono di proprietà di Suzanne Collins.
Note dell'Autore: Che dire, amo Haymitch. Quindi... ecco. La mietitura dei 74esimi Hunger Games visti da un paio d’occhi un po’ ubriachi.




Drunk hopes




Aveva dodici anni. Se la ricordava perfettamente, perché aveva un’aria così innocente, fragile, che i suoi occhi grigi gli erano rimasti impressi sin dal primo momento in cui l’aveva vista. Ed era abbastanza strano, visto che l’aveva vista da ubriaco, sul palco della Mietitura.
Si chiamava Danae. Danae Werth-qualcosa, il cognome l’aveva rimosso nel momento in cui avevano estratto il suo nome dalla boccia maledetta dove erano contenuti i nomi di tutti i maledetti ragazzini del maledetto Distretto 12. Non ricordava mai i cognomi dei tributi scelti: avrebbe ricordato il viso della madre, del padre, dei parenti. Ma i nomi li ricordava tutti. Dai Cinquantunesimi Hunger Games in poi.
Quando Danae venne scelta erano stati indetti i Sessantasettesimi Hunger Games. Diciassette nomi. Diciassette nomi scritti su lapidi scolpite da scalpellini male in arnese. Diciassette cognomi rimossi.
Non ricordava quasi più i volti di metà dei tributi che aveva seguito. Ma quello di Danae era impresso a fuoco nelle sue retine: lunghi capelli neri, pelle olivastra e liscia, occhi grigi. Facce da Giacimento, tutte simili, eppure nella sua c’era qualcosa di diverso. Forse era il modo in cui gli occhi assunsero una sfumatura rassegnata quando arrivarono a Capitol City a rendergliela indimenticabile. Tutti i tributi avevano occhi spaventati, terrorizzati, arrabbiati, delusi, determinati, a volte, ma mai rassegnati.
Danae si era arresa ancora prima di cominciare. Sapeva, dal momento in cui aveva messo piede nel Palazzo di Giustizia, che non vi sarebbe mai più ritornata, lì dentro. Era troppo magra, troppo poco forte, troppo lenta, troppo buona. Non aveva l’assassinio nel sangue.
Haymitch Abernathy ricordava nitidamente anche il viso indifferente del Favorito del Distretto 1 che l’aveva impalata con una picca nel bagno di sangue. Quando era andato in bagno, aveva vomitato. Non avrebbe dovuto stupirsi, impressionarsi tanto: da quando aveva memoria aveva visto morire in modo simile talmente tanti giovani che avrebbe potuto scriverci una monografia. Ma Danae era una bambina. Era minuscola, indifesa. E arresa.
Effie Trinket si era lamentata per ore di quella bambina. Di come avrebbe dovuto allontanarsi in fretta, di come Haymitch fosse un pessimo mentore, di come il suo compagno di Distretto avrebbe forse dovuto aiutarla. Per tutta risposta, Haymitch le ruttò in faccia, per poi sedersi accanto all’operatore che teneva d’occhio i tributi del Distretto 12, pronto a veder morire anche il tributo maschio.
Forse fu Danae a far scattare nella sua testa annebbiata dall’alcol la molla della rassegnazione. Non combatteva neanche più per tenere in vita i propri tributi: sarebbero morti comunque. Il Distretto 12 non produceva armi, i suoi abitanti non sapevano come procurarsi del cibo da soli, non sapevano costruire niente. Il Distretto 12 faceva il carbone, e il carbone bruciava. E basta. Si consumava, a volte lentamente, a volte con un’esplosione, ma era destinato a morire.
Lui aveva vinto, eppure da ventiquattro anni continuava a perdere.
La mattina della Settantaquattresima Mietitura si svegliò con un gran mal di testa. E quella non era una novità. Stringeva in un pugno il coltello, nell’altro una bottiglia di liquore. E neanche quella era una novità. Guardò fuori dalla finestra della cucina con gli occhi cisposi di sonno e la bocca che sapeva di merda. Piantò il coltello nel tavolo, osservando per un momento il lucore tenue della lama sporca al sole, e bevve dell’acqua dal rubinetto.
Per buona misura, bevve anche una lunga sorsata di liquore.
Gli bruciava i polmoni e gli incendiava lo stomaco, ma era la sensazione più vicina alla vita che provava da anni.
Uscì sul pianerottolo della sua fatiscente casa nel Villaggio dei Vincitori, penosamente vuoto. Bevve un altro po’ di liquore, giusto perché quella visione lo deprimeva in modo tristissimo.
Non voleva partecipare. Non voleva neanche vedere in faccia gli ennesimi due ragazzini che sarebbero morti massacrati nell’arena. Che morissero pure, ma che non lo mettessero in mezzo.
Attraverso i fiumi dell’alcol si ricordò di essere l’unico che potesse essere messo in mezzo. Sbuffò e rientrò in casa, indossando le scarpe buone ormai ridotte a brandelli ed una vecchia giacca sbrindellata.
Non ricordò molto del tragitto da casa sua al palco. Solo spezzoni: un sasso in cui era inciampato, il vociare della piazza, lui che spintonava una madre angosciata, il caracollare sulle scale, Effie Trinket che lo guardava disgustata, il sindaco mortificato.
Per un momento rimase immobile a fissare la folla di ragazzi. Poi urlò.
«Condoglianze!»
Probabilmente gli riuscì solo uno stridio incomprensibile, visto che la lingua gli si impastò mentre parlava e inciampò nell’ultima sillaba, ma non se ne curò. Li sentì applaudire e avrebbe voluto urlare «Cosa avete da applaudire, stupidi, due di voi moriranno e sarà anche colpa mia», ma si lasciò cadere su una sedia e guardò le gambe di Effie Trinket, magre e fasciate da un vestito verde. Per un momento pensò che erano molto belle, e senza rifletterci due volte si sporse per abbracciarla.
Ma Effie si allontanò, allarmata. Non si accorse neanche dei riccioli rosa che si spostavano, calando su un lato, ma la cosa lo divertì molto e perciò ridacchiò.
Il sindaco la chiamò per presentarla al pubblico che ormai la conosceva da anni e da anni, probabilmente, la detestava, ma lui si limitò ad emettere un rutto sommesso e a fissarle il didietro, per evitare di concentrarsi sulla sua voce eccessivamente allegra, artificiosa.
Blaterò sugli Hunger Games, e dal tono con cui parlava sarebbero sembrati quasi una cosa divertente. Quasi.
Haymitch si grattò una guancia e spostò lo sguardo annebbiato sulla folla. Volti spaventati, angosciati. Gli facevano un po’ pena, doveva ammetterlo. Essere sottoposti ogni anno a quella tortura era una crudeltà che solo Capitol avrebbe potuto ideare. A volte ringraziava Dio per essere stato scelto e per aver vinto. Poi pensava alle altre quarantasette persone che erano morte in quell’Edizione della Memoria e beveva fino a svenire.
Si rese conto dopo qualche secondo che l’estrazione dei nomi era cominciata, perché vide il didietro di Effie Trinket allontanarsi dal centro del palco per spostarsi verso la prima boccia, quella delle donne.
Ah, le femmine. Erano sempre le più difficili da sopportare, con quella loro aria innocente e ingenua. Come Danae. Ebbe l’impulso di alzarsi e calciare via la boccia, ma un conato di vomito gli impedì di muoversi e rendersi ancora più ridicolo in diretta nazionale.
Non che gli importasse.
Per un momento si chiese se non fosse diventato sordo, poi intercettò la mano di Effie che estraeva il nome e avvertì il silenzio denso che avvolgeva la piazza. Avevano tutti una paura marcia, lo sapeva. Guardò il pubblico e vide che chiunque, in quel momento, stava pensando ‘Ti prego, non io’. Sarebbero stati capaci anche di mandare avanti un fratello, pur di non essere scelti. E lui non li avrebbe biasimati.
Non erano Favoriti, non avevano preparazione. Erano bambini mandati allo sbaraglio con un’arma che non sapevano usare in un’arena la cui unica funzione era uccidere. La loro non era cattiveria, ma sincero terrore.
«Primrose Everdeen».
Cavolo, questa aveva anche un nome delicato.
Dopo un secondo di esitazione si fece avanti una bambina minuscola, bionda, con la pelle pallida, e sembrava un fiore chiaro, di quelli che crescevano nel Prato ad Aprile. La vide, e seppe che sarebbe morta. Probabilmente al bagno di sangue. Non c’era neanche bisogno di darsi pena per salvarla.
Aspettò di vederla salire sul palco per guardarla bene in faccia, ma la bambina non salì.
«Prim!»
Haymitch Abernathy alzò gli occhi verso la voce, aspettandosi di vedere una madre addolorata. E invece vide uno squarcio nel compatto squadrone di ragazzi, ed una giovane, sui quindici anni, vestita d’azzurro, che camminava velocemente verso la tale Primrose, e proprio mentre stava per salire, la spinse e usò il proprio corpo come scudo, fronteggiando Effie Trinket e il sindaco.
«Mi offro volontaria! Mi offro volontaria per il tributo!»
Ah, questa non se l’aspettava. Si sarebbe giocato tutto l’alcol del mondo che quella fatina vestita d’azzurro era la sorella del tributo scelto. Avrebbe voluto farsi una risata, sopratutto perché poteva vedere i deboli ingranaggi nel cervello di Effie lavorare a velocità atomica. Nel Distretto 12 non si vedeva un volontario da... sempre.
Insomma, dovevi essere davvero stupido per voler andare a morire. O avere un coraggio straordinario.
Mentre il sindaco ed Effie brontolavano tra loro — era una cosa talmente nuova che non sapevano come comportarsi, Haymitch si sarebbe giocato altro alcol in proposito — si prese la briga di guardare la volontaria.
Non sembrava la sorella di Primrose. Era più alta, lunghi capelli neri intrecciati sul capo, pelle olivastra, occhi grigi. Faccia da Giacimento.
Faccia da Giacimento.
Il viso di Danae lo colpì come un pugno nello stomaco, e seppe che il viso della volontaria gli avrebbe fatto compagnia molto presto, così come il ricordo della sua prossima morte.
Sentì Effie e il sindaco parlare ad alta voce, adesso, e il tono triste del sindaco lo spinse a riportare la propria attenzione sulla scena che si stava svolgendo sotto al palco. La bambina iniziò a gridare, scalciare, e un ragazzo — identico alla volontaria, tranne che per i capelli decisamente più corti e l’aria decisamente più virile — la sollevò da terra portandola via.
Effie ci avrebbe marciato su come un panzer, su questa cosa. Era esattamente quello che aveva sempre voluto: suspense, azione, il pubblico col fiato sospeso. Si sorprese a pensare che era davvero vuota come il guscio di una lumaca.
Dal breve scambio di battute tra Effie e la volontaria, Haymitch ne colse il nome. Katniss Everdeen. Appunto, la sorella della bambina.
Si passò una mano tra i capelli lerci e pensò che quella sarebbe stata davvero una bella gatta da pelare. Katniss doveva essere un osso duro, se aveva avuto il fegato di presentarsi come volontaria per salvare la sorella, ed oltretutto si sarebbe aspettato da lei lacrime e ripensamenti, e invece se ne stava lì, immobile, con Effie che si gingillava elogiandola.
Quel pagliaccio imparruccato chiese un applauso. Haymitch sentì una risata impigliarsi nella gola quando alla sua richiesta, il Distretto 12 rispose col silenzio. Un silenzio denso, accusatorio, il silenzio della protesta. Si chiese chi dovessero essere, per quel distretto, Primrose e Katniss Everdeen. Aveva smesso di vivere tra la gente da anni, e per lui quei nomi non erano niente più di due fili d’erba in un prato.
Però, la cosa che successe dopo lo sorprese. Lentamente, il pubblico portò l’indice, il medio e l’anulare della mano destra alle labbra, baciò le dita e le alzò verso il palco.
Per un secondo, un secondo solo, ad Haymitch venne da piangere. Forse fu l’alcol, forse fu il viso di Danae che si sovrapponeva al viso di Katniss Everdeen, forse fu la forza, la determinazione, eppure l’incertezza che colse negli occhi grigi — occhi da Giacimento, su un viso da Giacimento — della giovane, forse fu quel gesto di protesta, di affetto, forse fu solo la speranza che premeva per uscire, ma Haymitch si alzò in piedi, barcollante, caracollando verso Katniss.
Le passò un braccio attorno alle spalle, guardando verso il pubblico, e berciò: «Guardatela. Guardate questa qui!». Incontrò per un altro secondo gli occhi grigi del tributo, e non vide più Danae, ma una giovane donna tanto stolta quanto coraggiosa che aveva rischiato tutto per sua sorella. E gli piacque. Gli piacque perché sembrava vera, tanto vera da spaventare, quando tutto ciò che vedeva da anni erano solo mostri, spettri e incubi.
«Mi piace! Ha un gran...»
Avrebbe voluto dire cuore. Ma seppe che non era la risposta giusta.
«Fegato!», riprese, trionfante. Si allontanò da lei e si portò a passi incerti davanti al palco. «Più di voi!», gridò, rivolgendosi al pubblico. Si volse verso una telecamera, e in quel vetro pulito alla perfezione vide gli occhi di tutta Capitol, di tutti i distretti, di tutta Panem, nel bene e nel male puntati su di sé. Vide odio, vide vuotezza, vide tutto ciò che più lo disgustava al mondo, e fu puntando un indice verso la telecamera che urlò, con tutto il fiato che aveva in gola, «Più di voi!»
Sentì il capo girare, forse per l’atto di ribellione, o, più probabilmente, per l’alcol ingollato prima di arrivare alla Mietitura.
Avrebbe voluto gridare ancora, sfogare tutto l’odio e la rabbia che provava per quel Paese infame, per quel governo di cani rognosi, avrebbe voluto urlare fino a perdere la voce, fino ad essere ucciso, fino ad essere mandato via a calci nel culo, avrebbe voluto davvero tanto, per se stesso, per Danae, per questa Katniss, per tutti quelli che aveva perso e per ciò che non aveva mai trovato, ma il suo corpo non resse, e cadde.
L’ultima cosa che pensò, prima di perdere i sensi, fu che forse questi Hunger Games valeva la pena giocarli. E giocarli per vincerli.

  
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