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Autore: Pendragon of the Elves    16/08/2012    3 recensioni
Dedicata con tutto il cuore ad Hamber of the Elves
"A volte ci indispettiamo, e penso che non so perché siamo vicine, perché continuiamo a vederci, a parlarci: penso che ci detestiamo. Ma poi si sistema tutto e penso…
…che non possiamo fare a meno di essere amiche.
A volte, sballottata dal ricordo dei nostri alti e bassi, come una nave smarrita in una tempesta, temo e spero che riesca a durare, che continui così, anche se momenti belli si alternano a momenti brutti. Se c’è una cosa che ho capito in tutti questi anni, è che ogni momento buio all’ombra dei cavalloni della tempesta non è mai sprecato se, sulla cresta dell’onda, la luce è così intensa. Vale la pena vivere momenti brutti se poi posso godermi questo sole assieme a te.
A volte, anche se riesco a farmi detestare, so che ti voglio troppo bene per ferirti davvero, che sei troppo importante per me per lasciarti alla deriva. Perché senza di te sono una naufraga, una spiaggia senza mare, perché la mia vita sarebbe un oceano di vuoto.
Perché tu sei mia amica e sarò sempre al tuo fianco."
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mai





Ti ho lasciata sulla riva senza dirti una parola, pensando…
…che eravamo entrambe lì solo per senso del dovere,
…che il silenzio maleducato sottintendesse la nostra rabbia,
… che il mare tra di noi non avrebbe spezzato la corda di rancore legata ai nostri cuori.
E non sapevo…
…che faccia avremmo fatto quando ci saremmo riviste,
…se la rabbia sarebbe sbollita,
…se anche nel tuo silenzio fossero disciolti amari e rimuginati rimorsi.
Vedendo la tua figura che si allontanava sulla riva ho sentito che quei brutti momenti legati al dito cominciavano a divenire più tristi, più lontani, più sciocchi e che la mia ostinazione si caricava di disagi e vuoti che né il mare né la lontananza avrebbero potuto colmare.
Sembrava che il furore impacciato sbollisse con lo sciabordare delle onde contro il legno della nave, la nave che mi avrebbe portata lontano, che avrebbe sostituito la mancanza con nuove avventure. Eppure, nel mio cuore ho capito che né il mare né la distanza avrebbero potuto colmare i nostri silenzi o i nostri cuori.
E ho pensato, sperato –desiderato, forse- che il tuo cuore contenesse il mio stesso dolore…
…perché è lì che sento i sensi di colpa ogni volta che litighiamo, e capisco che siamo amiche.
 
 

«Ho finito!», fece Mai uscendo dalla doccia, un asciugamano premuto inutilmente in testa nel tentativo di contenere tutte le ciocche ribelli. Ruotò esasperata gli occhi al cielo quando trovò l’amica intenta a leggere nell’altra stanza, forte dell’ennesima scommessa vinta con se stessa.
San se ne stava mollemente abbandonata su una sedia, i piedi accavallati sopra il tavolo, con una mano dietro la schiena e una a tenere un libro aperto dinnanzi al viso. Si dondolava pigramente avanti ed indietro, come se fosse inconcepibile per lei cadere e farsi male, con una smorfia concentrata e gli occhi attenti mentre scorrevano rapidi le righe. Su un tavolino più indietro giacevano due piccole torri di libri impilati, probabilmente i prossimi da leggere.
«Oh, che sorpresa!», recitò con ironia Mai.
«Questo libro è una stupidata!», disse San, senza dare segno di aver sentito l’amica, «la storia è inconsistente ed è scritto male!».
«Allora non leggerlo!», sospirò Mai, sedendosi - più correttamente, accasciandosi- su una sedia. Dentro di se contò alla rovescia: “Ecco, ora dirà…”.
«No, l’ho iniziato e lo voglio finire».
“Ti pareva…”, fece Mai, alzando silenziosamente la mani come per dire “avevo indovinato”. Dovette ammettere che era piuttosto brava a vincere scommesse con se stessa quando si trattava della manie dell’amica. Il fatto che San avrebbe potuto vincerle tutte per quanto riguardava i suoi mille complessi non la rendeva più felice.
Si sedette sul davanzale, le gambe penzoloni nel buio del vicolo che si apriva sotto, rinunciando a distoglierla dalla lettura.
Ma San, per quanto cercasse di non darlo a vedere, non riusciva più a concentrarsi sulla lettura. Sì, era vero, stava fingendo di leggere, quasi non sapeva nemmeno di cosa parlava il libro e le era uscito spontaneo un giudizio che, comunque, sarebbe stato più che plausibile per la sua bocca. Era meschino e non era da lei ma aveva paura di rimanere in silenzio e trovarsi a doverle parlare, e non parlare per dire cose stupide, rilassandosi nel divertimento spensierato delle battute tra amiche, ma parlarle sul serio e per davvero. Non sapeva se le doveva delle scuse, di certo era lei a dovergliele, ma non sapeva quante colpe addossarsi.
Guardò con la coda dell’occhio la figura di Mai seduta alla finestra, con un nodo in gola ed un peso non ancora sollevato dal cuore. Non sapeva se essere sollevata o preoccupata perché l’ultima volta che si erano viste avevano litigato e si erano lasciate quasi senza salutarsi. Un timido sorrisino di sollievo le solcò il viso: Mai, la ragazza turbolenta e mutevole come un cielo, dal cuore incerto e scosso da passioni forti in tempesta, sembrava non ricordare.
Da un lato, era contenta di non aver rivisto quei fulmini ma dall’altro… non si sentiva tranquillizzata da quel cielo fin troppo, ingiustamente sereno.
 
«Stai attenta a non cascare in acqua!», sorrise Mai, porgendole la borsa.
Quel mattino, il mattino prefissato per la partenza della nave, il cielo era coperto da nuvole bianche che occultavano completamente la presenza del il sole, riversando solamente un’innaturale luminescenza biancastra e spenta sul mondo. Sotto quella luce, il viso pallido e scarno di Mai appariva ancora più segnato dalle occhiaie e dai foschi pensieri che ogni tanto lo solcavano come vele sul mare, e le ombre gettate sui suoi occhi si facevano più profonde fino a far brillare le iridi come lune piene sul fondo di pozzi di nebbia. Il vento che le scarmigliava costantemente i capelli neri completava quel quadro spettrale di abbandono e rassegnazione.
«Non sono così imbranata», fece San, senza pensare, «è da un bel po’ che mi sono abituata a camminare su un ponte che si muove, è stando qui a terra che mi rammollisco».
Mai continuava a sorridere, quasi come in contrasto all’umore fosco dell’amica, ma con una nota di malinconia negli occhi, una tinta che non riusciva mai a scacciare in quei momenti di separazione. «Mi piacerebbe vederti danzare sulle onde».
«Ma che dici?».
«Nulla», ridacchiò Mai. Poi, le porse, un pacco, un involto di stoffa piegato a coprire qualcosa di rigido e rettangolare.
«Che cos’è?», chiese prendendolo in mano.
«È un libro. Ma», aggiunse con tono scherzosamente severo, fermando le mani dell’amica, «aprilo solo in alto mare: cerca di farlo durare più di un’ora».
«D’accordo», sbuffò lei, mettendoselo sotto braccio, «ci proverò. Ma tu l’hai già letto?».
Un sorrisino enigmatico si dipinse, sibillino, sul volto di Mai: un sorriso che celava tante cose quanta impazienza e furberia rivelava. «Non ancora… ma mi raccomando: stai attenta quando lo maneggi, potrei aver lasciato qualcosa tra le pagine…».
Avrebbe voluto chiederle delle spiegazioni ma proprio in quel momento sentì il grido del capitano che richiamava tutti a bordo.
«Tutti a bordo! Prepararsi a salpare!».
«Su vai, non vedo l’ora di sentire cosa avrai da raccontarmi quando torni».
«Va bene», disse, cercando inutilmente di rendere convincente il suo sorriso, «ci si vede, eh?».
L’ancora fu ammainata e la nave, quasi per magia si staccò dal porto lieve come una farfalla ma inarrestabile e solenne come un elefante. La striscia bianca disegnata dalla città si allontanò sempre più e con lei scomparì anche quella piccola macchiolina azzurra ferma sul molo. Per quanto piccola fosse, riusciva quasi a sentire lo sguardo di quegli occhi da cane abbandonato.
San represse un sospiro: alla fine non era ancora riuscita ad affrontarla e a riprendere la questione. Se ne era stata zitta e muta, a covare i suoi rancori e rimorsi in silenzio, subendosi il conseguente mal di stomaco. Anche con tutta la sua forza morale, non era riuscita a rievocare da quei pozzi neri dell’oblio che erano gli occhi dell’amica quei ricordi non troppo lontani eppure così dolorosi. E ora che era partita, sentiva la pressante sensazione di quel conto in sospeso che lasciava, ancora una volta, ad aspettarla a riva. Già, i loro mondi si sarebbero allontanati ancora: Mai sulla terra, persa dietro il filo dei suoi effimeri pensieri, imperscrutabili agli altri, e lei in balia dei capricci dell’oceano, con gli occhi puntati fieramente, con sfida, sull’avvenire ma col cuore dubbioso ed insicuro, come se in mezzo al mare avesse trovato le parole giuste. Ma forse, nemmeno tra le onde, con gli spruzzi in faccia ed il vento nelle orecchie sarebbe riuscita a leggere il suo cuore.
Scosse la testa, appoggiata al parapetto della nave, e prese in mano l’involto che Mai le aveva lasciato: probabilmente l’ultima bella storia scoperta, una di quelle che le incendiavano il cuore a prima vista e che la spingevano a farla leggere anche a lei, anche se poi risultava non piacessero ad entrambe.
Decise che avrebbe almeno visto di cosa si trattava, prima di cimentarsi nella lettura. In fondo, sarebbe stato meglio scoprire subito se era una cosa che non la interessava minimamente. Ma quando aprì l’involto, la ruvida stoffa scoprì un grosso tomo rilegato in legno dipinto di rosso con vari intarsi sui bordi ma nessun titolo o autore da nessuna parte. Eppure le era stranamente famigliare…
Alla fine fu come se le si  fosse accesa una lampadina in testa: ricordava di averne visto uno pressoché identico blu in casa di Mai. Seguirono in rapida successione altre immagini che andarono a combinarsi veloci nella sua mente: i trucioli di legno sul pavimento, un coltellino da intaglio appoggiato su una mensola, il libro blu uguale a quello e le mani tormentate di Mai coperte di taglietti e vesciche. Lo aprì: dentro c’erano solo pagine bianche. Tutte, completamente bianche e senza parole, orfane di una storia.
Le tornarono in mente le ultime parole dell’amica: “potrei aver lasciato qualcosa tra le pagine…”.
Sfogliò velocemente, stando attenta a non rovinare la carta nella foga, fino a che non trovò qualcosa di piatto e bianco: una busta. Sul retro, con una calligrafia timida ed impacciata era scritta una sola parola: “San”.
La scartò con un misto di curiosità e timore, curiosa di leggere ciò che vi era scritto ma con la paura di trovare tra quelle righe un lato oscuro ed inaspettato di Mai. Sì, perché Mai era una ragazza forte, anche se poteva non sembrarlo, e sapeva essere molto fredda e dura, ma nascondeva questa suo lato sotto uno strato insondabile di comprensione e tolleranza a volte disarmanti. Aveva paura di trovare le parole della Mai tempestosa e impietosa che riservava ai suoi nemici.
Eppure, le parole scritte su quella carta, furono così sorprendenti che non ebbe il tempo di sollevarsi dalle sue preoccupazioni.

 

Cara San,
Da quando ci siamo lasciate, l’ultima volta, non ho fatto altro che pensare a quello che ci siamo dette, a rimproverarmi per tutte le cose che io stessa ho detto, rimuginando per notti intere senza poter prendere sonno e chiedendo scusa al mare sperando che le onde ti portassero le mie parole. Perché sapevo che, quando saresti stata dinnanzi a me, non sarei mai stata capace di ripetere tutte le parole che turbinano nel mio cuore.
Non so se per te è lo stesso, ma di una cosa sono assolutamente certa: e cioè che è difficile. È difficile dire ad una persona a cui si vuole bene delle cose brutte, è difficile doverci litigare, ma è ancora più difficile far capire che, qualsiasi cosa possa uscire dalla bocca, ne è uscita solo per amore. Perché a volte, il bene che si vuole ad una persona porta a dire delle cose terribili ed è difficile poi chiedere scusa, dire quanto si è dispiaciuti. C’è questo strano orgoglio, questa strana testardaggine che ci separa, che ci impedisce di ammettere con noi stesse le nostre colpe e a forzarle fuori dalla bocca. C’è in questo una strana vanità, un capriccio da bambine che ci fa continuare a tenere tutto dentro e fingere che non sia successo niente.
Sono bocconi amari da ingoiare, sono fantasmi con cui convivere, sono cose da tacere, sono sofferenze inspiegabili ma è un ciclo che si ripete, si ripete all’infinito. Io che avanzo insinuazioni, frasi sottili e violente che scoprono punti sensibili, tu che ti offendi, mi attacchi, mi mortifichi: noi che ci ringhiamo contro quello che  pensiamo ma ci guardiamo con occhi incattiviti e sofferenti. E, nonostante queste parole, nonostante certi gesti, certe manie, nonostante sguardi carichi di veleno e sibili nascosti, i nostri cuori si dicono tutto e le nostre anime si perdonano.
Soffriamo perché c’è vicinanza, soffriamo perché c’è dialogo, soffriamo perché c’è sincerità, soffriamo perché c’è affetto: noi soffriamo perché c’è amicizia. Il collante insolubile del nostro rapporto che né il sale del mare né quello delle lacrime potranno mai sciogliere, la catena invisibile che né la distanza né il tempo potranno mai spezzare.
Mi sono sempre rimproverata di non essere stata mai abbastanza coraggiosa, mai abbastanza abile, mai vagamente e semplicemente abbastanza per quella tua nave, per quella tua vita. Dall’alto di quel ponte, sembra tuto così irraggiungibile ed astratto, al di là della mia comprensione: il corpo di legno che separa i nostri due mondi, i nostri pensieri.  Perché per quanto io possa correre veloce a riva, non potrò mai raggiungere una nave. Perché lei fila veloce, più veloce delle mie deboli membra, più lontano dalla mia portata e dalla mia comprensione. E tu ci stai sopra con naturalezza, come se nulla fosse troppo per te, con quella luce orgogliosa negli occhi. E, per quanto possa rattristarmi, non smetterò mai di amare quella luce. Perché per quanto debba sopportare, anche con tutti i tuoi difetti, le tue pecche o le tue manie, io ti voglio bene e non smetterò mai di volertene. E anche con tutte le mie belle parole e farneticazioni, anche con tutti i miei pregi e difetti e quella debole scintilla che posso vedere in me, in verità ho solo paura di non essere abbastanza luminosa per la brillante, splendida San, che sa tante cose quante ne ignora ed è caparbia quanto orgogliosa ma, in fondo, ha l’intelligenza necessaria per poter capire tutto ciò che deve capire.
Era solo questo che volevo dirti la volta scorsa, quello che ho detto nel momento sbagliato, coll’umore sbagliato, col tono sbagliato e -forse- anche con le intenzioni sbagliate. Di questo e tante altre cose, ti chiedo scusa ma, quando litigheremo ancora -perché litigheremo ancora- quando il ciclo si ripeterà, potremmo sempre riscriverlo, con parole sempre nuove, chiedendo perdono per gli stessi errori di sempre, ma con lo stesso sentimento di sempre. Quando vedrai le nuvole nere all’orizzonte, ignora tutto ciò che potrai vedere sul mio viso e ricordati di questa piccola, semplice ma potente verità: cioè che io ti voglio bene e non smetterò mai di volertene.
Sinceramente,
Mai

 

Quando ebbe finito di leggere, riuscì appena in tempo ad alzare lo sguardo e scorgere per un ultimo istante la figura pallida di Mai che la salutava dall’alto di uno scoglio, con la curiosa impressione che sul suo volto si fosse allargato un sorriso sincero e nei suoi occhi scintillasse allegramente la nota lontana di una risata.



Fine



Dedicata alla mia Hamber of the Elves, sulla cui nave forse non riuscirò mai a salire ma che troverà sempre un posto nella mia, accanto al mio cuore.
I miei auguri di buon compleanno!
Sinceramente,
Pendragon of the Elves

  
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