Fanfic su artisti musicali > My Chemical Romance
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Autore: __Aivlis    16/08/2012    2 recensioni
Ci sono cose che mi sono sempre tenuto dentro più per protesta che per incapacità di esprimermi. Oltre ai traumi infantili, che sono scemati via come fa sabbia tra le mani, ce ne sono stati altri, che invece mi tengo ancora dentro come fossero cimeli di una vita un po' svalvolata. Forse per colpa del mio vivere tutto fino infondo, di ingigantire ogni cosa che vivo. Mi porta a non rendermi più conto della vera portata delle cose. A volte esagero con tutto, e questo è uno di quei momenti.
Sono sempre stato determinato ma mai abbastanza. Quello che mi è sempre venuto male, è abbandonare certe cose in favore di altre.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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__Aivlis, 16/08/2012 ©

Note: Questa è la mia prima longfic nella sezione My Chemical Romance, e spero tanto che non risulti un fallimento totale. E' incentrata principalmente sulla figura di Gerard in un futuro improbabile e un passato alternativo. Alcuni elementi sono verità “storiche” o gossip, altri sono solo pura invenzione. Spero vi piaccia, e buona lettura.




Fantasmi


And all the things that you never ever told me,
And all the smiles that are ever gonna haunt me.
[…]
And all the wounds that are ever gonna scar me,
For all the ghosts that are never gonna catch me.



2006, Los Angeles


« Sei sicuro sia questo quello che vuoi? Intendo dire... una casa, una famiglia e tutto il resto » dice.
Il suo sorriso tradisce le sue stesse parole; mentre parla gesticola, ma sembra tranquilla. Cammina lentamente sul legno invecchiato del portico come se quella fosse già casa sua, e si accarezza il pancione in maniera tanto tenera da farmi male.
« Ne abbiamo già parlato, Julie. Ne abbiamo parlato troppe volte, fino allo sfinimento... » le dico, guardandola sedersi su uno dei tre scalini che dal portico conducono verso il piccolo giardino sul retro. Lei si siede in ginocchio, spostando il peso leggermente di lato, e mi fissa come se in quello che ho detto ci sia qualcosa di estremamente sbagliato.
« Andiamo, sai cosa intendo dire » mi giustifico. Poi ci penso un attimo e punto le mani sui fianchi, tenendo gli occhi fissi su di lei. « Questo è quello che voglio: te, una casa che sia solo nostra e una famiglia. Questo è tutto quello di cui sono assolutamente sicuro. »
Il mio tono di voce si è leggermente abbassato, per questo credo che lei abbia capito la sincerità delle mie parole.
Julie è una che di tanto in tanto ha bisogno di certezze, di qualcosa che le ricordi i punti fermi della sua vita.
Il suo sorriso si allarga ulteriormente, e quel rossetto rosso le fa sembrare i denti ancora più bianchi e luminosi.
« Allora? » mi fa, in preda all'agitazione.
« Allora la prendiamo! » esclamo io, con sguardo ovvio.
Lei inizia ad urlare e si fionda su di me, ed è uno di quei tanti momenti in cui mi sento amato. Amato davvero.




2013, Los Angeles


Ci sono giorni che semplicemente non dovrebbero esistere. Giorni che non andrebbero vissuti. Sono quelli che iniziano in maniera talmente tanto malinconica da farti chiedere perché andare avanti e arrancare, da farti mettere in discussione la tua esistenza su questo pianeta.
Mi alzo, apro la finestra, e i primi raggi di luce mi colpiscono in faccia, così come la classica aria fredda delle mattinate autunnali. Il clima sta diventando man mano più rigido, e ci stiamo tutti preparando per quello che è stato annunciato dai telegiornali come un inverno lungo e freddo.
Vado in bagno, allo specchio, e mi sciacquo il volto con acqua gelida. Guardo il mio riflesso, ed è tutto come sempre. Stesse sfumature violacee sotto agli stessi occhi un po' chiusi; stessi capelli sconvolti. Mi allontano un po' e contemplo i risultati di mesi e mesi di palestra: sono abbastanza soddisfatto. Non sono mai stato un tipo sportivo, ma la palestra sembra l'unica cosa in grado di contenermi, l'unica cosa in grado di farmi incanalare bene lo stress.
Camminando a piedi nudi sulla moquette del corridoio ancora un po' buio, mi dico che oggi è il 5 Ottobre, il giorno più brutto e più bello dell'anno. E' uno di quei giorni in cui non riesco a decidermi se sorridere o se mettermi a piangere. Col passare del tempo ho imparato a dirmi di sorridere, e di guardarne i lati positivi.
Vado in camera di Hope, e mi avvicino lentamente al suo letto. Mi sistemo su una sedia accanto al comodino e la guardo dormire. Per una frazione di secondo sono tentato di lasciarla lì, con gli occhi chiusi e la coperta tirata su fino al collo, ma il mio lato paterno mi impedisce di farlo. Sono le otto meno un quarto, e fra mezz'ora dev'essere a scuola.
Allungo una mano verso la tenda dietro di me, e la scosto leggermente. Un lieve fascio di luce colpisce il volto di Hope, e la vedo arricciare il naso. Lei è la copia di sua madre, ha i suoi stessi occhi.
Nella mia vita non sono mai stato sicuro di niente, ma una cosa del genere non me la sarei mai immaginata. Quando ho sposato Julie ci amavamo talmente tanto da crederci invincibili. Ci immaginavo in questa stessa casa che abbiamo scelto insieme, con una famiglia, un cane e un gatto, ad amarci a modo nostro. Pensavo non fosse possibile cadere nell'oblio.
« Hope... » le sussurro, scuotendole leggermente un braccio.
Lei sbatte le palpebre e mi guarda per una frazione di secondo, poi richiude velocemente gli occhi sperando che non mi sia accorto di niente.
Credo che se Julie fosse ancora qui starebbe tutto il giorno ad assillarmi su quanto i loro sguardi si assomiglino, su quanto sia fiera di sua figlia. Ma lei non c'è, e tutte queste cose posso solo immaginarmele.
« Guarda che lo so che sei sveglia » le dico in tono scherzoso, avvicinandomi lentamente.
Lei sorride, cerca di trattenere una risata.
« E' ora di svegliarsi! » le dico ad alta voce, mentre le faccio il solletico.
Hope inizia a ridere a crepapelle, e ricordo come mai continuo ad andare avanti, ricordo come mai la vita è bella lo stesso. Perché è possibile innamorarsi due volte.
Quando il primario dell'ospedale si era avvicinato a me con il suo passo lento e ponderato dicendomi che Julie non ce l'aveva fatta, dicendomi che era stato un parto difficile, mi ero trasformato da preoccupato a incazzato giusto in tempo per vedere quello stesso medico allontanarsi da me. Il mio mondo era crollato in quell'esatto secondo. Poi avevo preso in braccio quell'involtino di appena sette mesi che aveva rischiato per un pelo di non essere lì nemmeno lui, e allora è successo; la speranza. Hope. E' per questo che le ho dato questo nome. Speranza che ci fosse un futuro anche per me. Speranza che le cose tornassero come prima. Speranza e basta. Julie non aveva voluto darle un nome, diceva che dovevamo deciderlo una volta guardata negli occhi. E aveva ragione.
Apro completamente la finestra e mi volto verso Hope.
« Buon Compleanno » le sussurro.
« Papà, posso non andare a scuola, oggi? » si lamenta.
« Hai iniziato le elementari da nemmeno due mesi e già non vuoi più andarci? »
Lei mi risponde con un ghigno stanco e infila la testa sotto le coperte.
Da quando ha iniziato le scuole elementari il suo atteggiamento sembra cambiato. Nei primi mesi era la stessa di sempre, ora sta diventando apatica. Parla sempre di meno, è chiusa in se stessa e nel suo mondo dove io, evidentemente, non sono ammesso.
« Dai su, alzati che quando torniamo da scuola andiamo a trovare la mamma » le dico poi, alzandomi a mia volta.
Ho imparato a non farmi prendere dallo sconforto quando parlo con Hope perché non voglio trasmetterle la mia paura e la mia poca fiducia nel futuro. Ed ho sempre voluto che tutto ciò che Hope avesse di sua madre fosse quanto di più bello e radioso ci fosse al mondo. Proprio come era lei, proprio come Julie. E Julie non avrebbe mai voluto che scaricassi le mie preoccupazioni su nostra figlia. Nonostante questo, il ricordo di Julie a volte si fa talmente tanto forte e vivido che non ci riesco a far finta di niente, a far finta che sia tutto a posto. Perché da quando non c'è più non c'è stato niente che è andato come doveva andare, eccetto Hope.
Accendo la luce dato che la luce naturale non basta ancora ad illuminare l'intera camera. Prendo dei vestiti dall'armadio e la aiuto a cambiarsi alla meno peggio.
Sono passati molti anni e mi sento ancora insicuro. Non ho mai avuto quell'istinto materno che ti giuda in certe situazioni, ed è forse per questo che non ho fiducia nel futuro, perché non mi sento mai all'altezza di Hope. Sento una mancanza, e so che nel profondo, prima o poi, inizierà ad avvertirla anche lei. Temo il giorno in cui verrà a dirmi che no, non sono sua madre, che non ho certi diritti. E io la guarderò negli occhi e non saprò cosa dirle, semplicemente perché avrà ragione.


Prima di lasciarla entrare nel cancello della scuola, mi accuccio per arrivare alla sua altezza.
E' così bella con quel suo grembiule rosa che non vorrei lasciarla andare. Mi abbraccia stretto e mi dice che mi vuole bene; le dico che le voglio bene anch'io, poi mi lascia un bacio come ricordo, e la vedo oltrepassare il cancello.
Forse sono paranoico, ma l'atteggiamento che ha assunto ultimamente non mi fa sentire sicuro. Non sopporto l'idea che qualcosa possa farla soffrire.
Sto fermo davanti al cancello finché non se ne vanno tutti, e ancora continuo a fissare le inferriate verdi davanti a me. Dopo un po' il telefono mi squilla in tasca, e lo tiro fuori. C'è scritto Frank. Rispondo.
« Ehy, Gee, tutto bene? » mi chiede.
« Sì, tutto bene. Dove sei? »
« Mi sono appena alzato, che ne dici se vengo da te? »
« Va bene, io vado a casa adesso, poi più tardi devo mettermi giù col materiale che ti dicevo ieri. Vogliono la nuova uscita entro lunedì. »
« Bene, allora passo da te un quarto d'ora, poi vado a correre. »
« Ok. A dopo. »
« Ehy Gee » mi richiama, prima che io abbia il tempo di riagganciare.
« Mh? » mugugno.
« Sicuro di stare bene? »
No, affatto – penso.
« Sì, Frank » dico, prima di sospirare.
Frank è uno di quelli che non se n'è mai andato dalla mia vita, neanche dopo che Julie è morta. Anzi, lo ha fatto per una sola settimana e poi è tornato, e quando l'ha fatto è stato come se non avesse mai deciso di allontanarsi.
Ricordo quel periodo a tratti, in modo sconnesso. Credo sia stato il periodo più brutto della mia vita. Ero uscito da poco dal tunnel della droga e dell'alcool, ma conservavo ancora l'instabilità tipica dell'abuso. Senza accorgermi, mi ero ritrovato con una figlia a cui badare, una band da mandare avanti e dei giudici da convincere. Era il momento di scegliere cosa fare della mia vita, e la scelta era stata ovvia sin dal principio.
Fu così che i My Chemical Romance si presero quell'infinito periodo di pausa che continua ancora oggi. La verità è che con Ray non ci parlo più da quattro anni.
Mi ero buttato sui fumetti, perché potevo farlo. Era un lavoro stabile, da stipendio fisso, uno di quei lavori che ti consentono di tenerti stretta tua figlia, se sei un ex tossicodipendente.
Nei giorni seguenti alla nascita di Hope, i giudici avevano fatto subito storie. Sono stato così tanto vicino dal vedermi Hope portata via, che ho capito. Quello che ho capito è che le scelte vanno fatte, e che servono. Che i compromessi ti obbligano a stabilire le priorità della tua vita. E allora ho accettato il lavoro per quell'editore, allora ho lasciato i My Chemical Romance definitivamente, e ho capito anche che dovevo rimanere pulito punto e basta, che non c'erano alternative o scelte, che era così e niente storie. Mi sono rimboccato le maniche e sono arrivato fin qui. Innamorato di un piccolo angelo, ma con i sogni nel cassetto. Chiusi a chiave. Doppia mandata.
Aver quasi perso mia figlia è stato uno degli eventi che mi ha aiutato maggiormente a crescere e a capire molte cose della vita. In un certo senso Hope mi ha salvato dalla mia parte negativa, dall'altro me di cui pure io ho paura, quello che ogni tanto minaccia di tornare e che ricaccio indietro con tutto me stesso.
Nella mia vita sono stato tante persone, lei ha semplicemente deciso al posto mio quale delle tante dovevo essere.
Entro in macchina e faccio il percorso al contrario, verso casa.
Da quando i My Chemical Romance si sono sciolti, credo di non aver avuto più il coraggio di cantare, neanche in macchina, neanche quando Hope me lo chiedeva in ginocchio, qualche anno fa, nonostante non sapesse niente del mio passato. Lei è sempre stata all'oscuro di tutto, perché raccontarle la mia storia, quella vera, equivarrebbe a raccontargli della droga, dell'alcol, e di quel periodo buio nel quale tutto ciò di cui avevo bisogno era di essere salvato.
Ora invece il mio scopo è salvare lei, ed è per questo che non sono tranquillo da quando il suo atteggiamento è cambiato.
Non sono tranquillo, mi dirigo verso casa senza pensarci troppo.
Quando parcheggio sul vialetto, Frank è già lì appoggiato al suo suv nero e brillante, con la classica sigaretta in bocca. Mentre mi avvicino noto che si è rasato di nuovo i capelli, come qualche anno fa. Sembra più giovane, sicuramente ha la mente più libera della mia.
« Ehi » mi dice, lanciando il mozzicone e schiacciandolo con il piede.
« Buongiorno » gli dico, ma credo che il mio viso tradisca la tensione.
« Cosa c'è che non va? » mi chiede mentre ci avviamo verso il portone.
Mi lascio scappare uno sbuffo. « Hope. Non credo si trovi bene nella nuova scuola. Non lo so, è strana ultimamente. Non parla più molto, a volte si nasconde nei posti più impensabili, cose così... »
Il suo sguardo si fa un po' triste. « Wow, mi dispiace, amico. Dai, non starti a crogiolare per niente, magari è una fase. »
« Non lo so, Frank.. A volte penso di non bastare per lei. Sento che se continuo così collasso. »
« Più che altro, se continui con la palestra collassi! » esclama, indicando il mio braccio destro, e io gli sorrido.
Entriamo in casa, ci accomodiamo sul divano del soggiorno, entrambi sdraiati come venissimo da una giornata faticosissima.
E' così da quando non suoniamo più insieme. La vita ci distrugge molto di più. Sentiamo entrambi che non ci sia un vero motivo per tirare avanti.
« Gee... » mi sussurra, dopo un po'.
Ho gli occhi chiusi, ma posso immaginare il suo sguardo dal tono di voce. Gli è venuto in mente qualcosa di pericoloso.
« Sì? »
« Ho la chitarra in macchina... » accenna, con tono calmo.
Ho un tuffo al cuore.
Non sento Frank suonare una chitarra da due o tre anni. Ho sempre saputo che quando è da solo ancora si suona tutta la nostra discografia senza stancarsi, ma non lo ha mai fatto davanti a me, e io non l'ho mai fatto.
Gli lancio uno sguardo interrogativo, per farlo parlare.
« Ti va se... » inizia, incerto. « ...andiamo disotto, in studio, e ci suoniamo qualcosa? »
Per qualche secondo le sua parole rimangono nell'aria, come se nessuno le avesse ascoltate.
« Non lo so, Frank.. è passato troppo tempo... non so neanche se so ancora cantare » dico, accennando un sorriso.
« Ti prego. »
Ne abbiamo bisogno entrambi.
Allora annuisco lentamente, ma ho una paura fottuta. Da solo non mi sarebbe mai venuto in mente, l'iniziativa non avrei mai avuto neanche il coraggio di prenderla.
Vedo un sorriso immenso stamparglisi in faccia.
« Grande! » esclama, prima di alzarsi e correre fuori di casa, verso la macchina.
Aspetto che rientri, poi mi alzo anche io, e insieme scendiamo due rampe di scale buie.
Mi ricordo che quando Hope era più piccola mi chiedeva sempre cosa ci fosse lì dentro. Io le dicevo che non c'era assolutamente niente, che non avevo le chiavi per aprire la porta. Lei non ci credeva, e continuava a chiedermi di farle vedere cosa ci fosse. Poi, col passare degli anni, quella richiesta si è spenta fino a scomparire. Credo si sia rassegnata.
Tiro fuori dalla tasca un mazzo di chiavi e riconosco immediatamente quella giusta, perché è quella più vecchia. La infilo nella toppa e giro. La porta si apre in modo automatico, liberando un odore ristagnante di chiuso e polvere. Accendo la luce a destra e sento quasi che sto per svenire. Sono in preda al panico.
Mi guardo intorno, ed è tutto in disordine come l'ho lasciato. Ci sono fogli sparsi per la stanza con su scritti testi di canzoni che non abbiamo mai pubblicato, chitarre appese alle pareti, qualche microfono, un computer vecchio di cent'anni, due sedie e dei tavoli. Tutto esattamente come me lo ricordavo.
Sono sorpreso, perché in qualche parte del mio cervello, nella zona che immagina cose impossibili, quella che ha conservato in un lucchetto la fantasia che in realtà non ho più, mi aspettavo che la vita che vivevo continuasse anche senza di me. Come se in realtà ci fosse un altro Gerard a finire quello che io stesso avevo iniziato. E' una cosa assurda, ed è in momenti come questo che mi sembra di non essere cambiato poi così tanto.
Frank si avvicina alla parete opposta alla porta e si allunga per aprire una piccola finestra in alto. E' un locale seminterrato, per questo tutta quella umidità. Ma quella piccola finestra è sempre bastata per illuminare l'intero locale. Allora spengo l'interruttore, e la stanza viene inondata dalle luci dell'alba inoltrata, una luce calda ma fresca allo stesso tempo, che si riflette sulle pareti giallognole.
Frank si volta e mette le mani sui fianchi. Mi guarda. Sorride.
« Allora? Che canzone vogliamo fare? » chiede.
Non posso farlo, non ce la faccio.
« The Ghost Of You » dico.
La prima che mi è venuta in mente.
Così. Di getto.
Mi pento subito dopo, ma Frank ha già preso posto su una delle sedie. Così io faccio lo stesso, ma lentamente.
« Non sono nemmeno sicuro di ricordarmi le parole » dico, con lo sguardo basso.
« Sì che te le ricordi » mi dice Frank.
Lui ha sempre confidato in me. Ed è una dei motivi per cui lo sento vicino.
Sento che inizia a strimpellare, allora mi dico che posso farcela, che è arrivato il mio momento, di nuovo, che devo farcela. Nonostante tutti i ricordi, nonostante i sogni chiusi a chiave. Nonostante Hope e tutto il resto.
Quando inizio a cantare, non mi sembra vero che la mia voce sia la stessa di sempre. Mi sento bene, mi sento libero.
« I never said I'd lie and wait forever. If I died, we'd be together. I can't always just forget her but she could try... »
Sento l'aria passare dai miei polmoni alla gola, e dalla gola vibrare attraverso le corde vocali, e rilassarmi e tendermi i nervi allo stesso momento. Sento ogni cosa brutta, ogni angoscia, ogni frustrazione scemare via mentre canto.
« At the end of the world, or the last thing I see, you are nevere coming home, never coming home... »
Canto con tutta la forza che ho in corpo, canto perché mi sento bene se lo faccio, e mi chiedo come mai io abbia deciso di smettere. Era l'unica cura, l'unica cosa in grado di farmi stare bene davvero.
All'improvviso sento gli occhi bruciarmi. Frank ha una lacrima che gli solca la guancia, e nonostante questo continuo a cantare.
E' come una scarica elettrica, una valanga di ricordi.
Mia nonna Elena.
Gli anni dei My Chemical Romance, turbolenti.
Gli anni del grande Gerard Way.
La droga. La depressione. Frank e i suoi occhi sempre puntati sui miei.
E poi Julie. Uno sprazzo di lucidità.
Julie. E il giorno della sua morte.
« And all the things that you never ever told me... »
Tutte le emozioni che un uomo può provare, una vita passata a cercare di rimettere a posto i pezzi di un cuore rotto per sempre.
Tutte le cose che non mi sono più detto. La verità. L'unica.
Non ce la faccio e scoppio a piangere. Frank smette di suonare e appoggia la chitarra di lato. Si alza, e io faccio lo stesso. Allora mi guarda un po' e poi mi abbraccia. Ora piangiamo insieme, piangiamo sui resti delle nostre vite, su ciò che siamo diventati non volendo. Piangiamo su noi stessi e per noi stessi. Sulle ceneri di chi siamo stati e non saremo mai più. E allora mi chiedo per quale motivo abbia accettato di cantare.
« Mi sei mancato, Gee » mi sussurra Frank.
Lo sappiamo entrambi, che Gerard Way è morto e sepolto. Lo sappiamo entrambi che la mia voce è destinata a morire soffocata. Ci sono troppe cose da rivangare, troppe cose da decidere nella vita, per poter tornare indietro.
« Una volta che ti sei lasciato il passato alle spalle non hai il diritto riviverlo » gli dico.
« Avevo bisogno di te » mi dice lui.




All'uscita da scuola l'aria si è scaldata rispetto alla mattina. Il sole è alto in cielo, si sta bene in giacca.
Vedo Hope saltellare verso di me con un fiore gigante in mano, sorrido in automatico.
Sono sicuro che lei non senta quanta malinconia io possa avere in corpo in questo momento. Oppure sono io che semplicemente spero non se ne accorga.
Le tolgo lo zaino dalle spalle mentre ci dirigiamo verso la macchina.
« Papà? »
« Sì? »
« Andiamo dalla mamma, vero? »
Per un attimo mi si stringe il cuore. Sei anni non passano mai troppo lentamente. Non bastano quando hai delle ferite così profonde da dover rimarginare.
« Certo, Hope... »
Mi metto alla guida dopo essermi assicurato che la cinta di Hope sia ben allacciata.
« Le ho fatto questo » mi dice, porgendomi un oggetto largo più o meno dieci centimetri.
Lo prendo in mano e lo guardo, e sento che non posso farcela. E' un cuore di pasta di sale colorato di rosso, e nel mezzo c'è incisa la parola “Mom”. Lo sfioro, me lo rigiro tra le mani, e mi commuovo in silenzio, cercando di non darlo a vedere.
« E' bellissimo » le dico, restituendoglielo. « Tienilo, così glie lo dai tu. »
Lei lo riprende e abbassa leggermente lo sguardo sulle ginocchia. Sta in silenzio per tutto il viaggio.
Guido verso il cimitero senza pensare alla strada, che tanto so a memoria. Con il passare degli anni, il cimitero è diventata la mia seconda casa.
Quando arriviamo, il cielo è terso e l'aria un po' più pungente. Sono teso come ogni anno, confuso come ogni anno.
Non passa un giorno senza che Julie sia nei miei pensieri. Non passa una mattina senza che io abbia i suoi occhi giganti piantati in testa, o la sensazione dei suoi capelli lunghi sul mio corpo.
Ci avviciniamo alla sua tomba con lentezza, ma Hope sembra molto più a suo agio di me.
Sostiamo davanti alla sua tomba, lei appoggia il suo regalo, dice una preghiera, la saluta, sta un po' lì, si guarda intorno. Io fisso la piccola fotografia incastonata nella lapide e mi dico che la vita è sempre completamente ingiusta.
Mi inginocchio accanto a Hope e le cingo le spalle con un braccio, lei appoggia la testa sulla mia spalla. La bacio sulla fronte, le prendo la mano, e ce ne andiamo.
In certi momenti non ci sono altre cose da dover dire. E non mi rendo nemmeno conto se lei abbia realizzato che sua madre è morta, e questo mi fa sentire completamente impotente.




E' notte e sono nel mio letto da due ore filate, con gli occhi spalancati verso il soffitto. Non riesco a dormire. Controllo ancora la sveglia: sono le una e mezza di notte.
Penso a tutto quello che è successo oggi, penso che se la mia vita fosse piena di giorni così, ci lascerei le penne.
Mi viene in mente Frank, e quello che è successo oggi nello scantinato.
Mi viene in mente la sensazione di invincibilità che ho provato quando ho cantato le prime strofe di quella canzone, e la sensazione di distruzione subito dopo, quando le emozioni hanno preso il sopravvento.
C'è di strano che il Gerard Way che i media ricordano non è mai stato uno sentimentale. Non fino all'eccesso, e non in questo senso, ad ogni modo.
Forse ho iniziato a dare peso alle cose solo sei anni fa. Ho iniziato a dare davvero importanza alla vita solo sei anni fa.
Chiamo Frank, tanto so che a quest'ora è sveglio. Squilla a vuoto per mezzo minuto, poi lo sento rispondere.
« Ehy Gee, è successo qualcosa? »
« Frank » dico, alzandomi con un gomito « ti ho svegliato? Dormivi? »
« Veramente sì » mi dice, ironico.
« Ah, scusa. Va bè, non fa niente. Ne parliamo domani... » mi affretto a dire, ma credo che lui abbia già capito la situazione dal mio tono di voce.
« Gee.. cos'è successo? » mi chiede, con tono serio.
Cerco di organizzarmi un discorso logico in testa.
« Ho ripensato a quello che è successo stamattina, mi sono venute in mente delle cose » inizio « ...ma non preoccuparti, ne parliamo domani, . »
Sento dei rumori dall'altra parte della cornetta.
« Allora... ho ''L'alba dei morti viventi'' e ''Alligator'', quale porto dei due? »
Sorrido tra me e me per avere l'amico migliore del mondo.
« Ti adoro, Frank. »


Alla fine abbiamo optato per “L'alba dei morti viventi”, ma nessuno dei due è troppo concentrato sullo schermo.
« Dov'è Hope? »
« E' di là che dorme, è stata una giornata pesante per entrambi. »
« Allora cos'è che dovevi dirmi? » mi chiede bevendo un sorso dalla sua birra.
Appoggio la testa sul palmo della mano aperta, e osservo come una bambina dell'età di Hope stia prendendo a morsi i genitori.
« Secondo te i My Chemical Romance sono morti e sepolti? » gli chiedo.
Lui sembra pensarci un po', con quel suo sguardo da eterno bambino.
« Sepolti vivi, direi. »
Io penso che non potrebbe esistere risposta migliore di questa.
Stiamo ancora un po' li a marcire su noi stessi, e mi soffermo a guardarlo.
Credo che Frank sia quello che si avvicina di più ad essere come un fratello per me. Senza nulla togliere a Mikey, ma ultimamente lo sento più lontano del solito. Si sta per sposare, sta cercando di mettere su famiglia, ed è sempre più assente. Frank invece c'è sempre stato in tutti momenti. Hope lo considera come una mamma, in un certo senso, perché dove non riesco ad arrivare io ci arriva sempre lui, nonostante non abbia figli, e a dire il vero neanche una fidanzata. Però lui è diverso da me, il suo istinto fa meno cilecca del mio, certe volte.
Mi sembra ieri che cercavamo di cambiare il pannolino a Hope in due, senza riuscirci. Effettivamente quella volta non era stato troppo d'aiuto. Però ci aveva provato, e anche se alla fine mi veniva da piangere per lo sconforto, lui era stato lì e c'era tuttora per incoraggiarmi a non mollare.
C'è sempre stato, nei miei ricordi.
All'inizio dei My Chemical Romance, quando ero troppo confuso dall'alcol e dalle droghe per rendermi conto di quello che mi stesse succedendo intorno, lui c'era. C'era quando ho avuto paura di mollare tutto, nei momenti di debolezza. Quando Julie è morta e credevo di morire anche io.
Quando abbiamo deciso di prenderci una pausa dai My Chemical Romance, lo abbiamo deciso insieme. Ricordo che eravamo seduti sotto al salice che ho ancora fuori casa. Io, Frank e Hope, nata da pochi giorni. Stavamo lì, ed era uno di quei primi momenti in cui non ti rendi davvero conto di essere padre, di avere una figlia che sta proprio lì accanto a te e ti guarda chiedendoti un po' del tuo affetto. Era uno di quei momenti in cui avevo quel groviglio di coperte vicino e non realizzavo che un giorno avrebbe iniziato anche a camminare, parlare, fare cose...
Ma quello che mi ricordo più di tutto, è che eravamo lì e che lui mi guardava come se non fossi umano. Mi guardava e ad un certo punto mi disse: « Gerard, sei diventato padre », e io feci finta di non capire quelle parole.
« Credo che dovrei lasciare il gruppo per un po'. Dedicarmi ai fumetti, sai.. per Hope » gli dissi. Ma non ci credevo davvero. Quella era una frase che avrei imparato a capire solo dopo, col senno di poi, con la lucidità. E infatti successe, a distanza di mesi, che mi resi conto di quanto avessi centrato il punto.
« Non lo so... Magari uno di questi giorni chiamo Ray e sento come sta, cosa fa... » mi dice Frank, risvegliandomi dal turbine di ricordi.
Ray invece se n'è andato per non essere costretto a vederci finire nello scarico del cesso, come effettivamente è successo.
Dopo che ci siamo sciolti, lui ha semplicemente deciso di prendere e partire. Adesso viaggia un po' ovunque, ha residenza a Santa Barbara, ma in giro si dice che non sia mai a casa.
Non ci siamo più sentiti, ad ogni modo. Forse una volta, a natale di tre anni fa, una chiamata veloce. Ma nessuno di noi ha ancora ben capito se sia arrabbiato, deluso, o se semplicemente abbia deciso di mandarci a cagare tutti. Di tutti noi, Frank è l'unico che riesce a sentirlo con una certa regolarità.
E comunque non lo biasimo, al posto suo avrei reagito in modo peggiore. Vedersi anni e anni di carriera buttati via così solo perché uno dei componenti è un deficiente patentato non dovrebbe essere una cosa simpatica. Non so quale sia il suo punto di vista a riguardo, non ho neanche idea di quali siano stati con precisione i sentimenti che lo hanno spinto ad andarsene, però ricordo bene la malinconia nei suoi occhi quando è partito. La delusione e la malinconia.
« Magari se lo chiami tu è meglio. Se lo chiamo io rischio di farmi riattaccare in faccia, e comunque non ne avrei il coraggio... »
Frank mi guarda per un attimo e sospira.
« Gee, io non credo che lui ce l'abbia con te... Non più, almeno » dice, appoggiando la birra a terra. « Sai come è fatto: prende, parte, si incazza, spacca qualcosa... ma poi torna, come se niente fosse. »
« Allora perché dopo sei anni non è ancora tornato? »
Sei anni possono essere una vita intera quando li passi aspettando qualcuno, o qualcosa.
Frank mi guarda un po' più triste di prima. Probabilmente sta pensando anche lui alla motivazione dell'assenza di Ray.
Eravamo tutti fratelli, tutti li a sostenerci l'uno con l'altro. E lui ha semplicemente deciso di andarsene.
« Non lo so, Gee... »


Note: Lo squarcio di canzone che avete letto appena sotto al titolo è parte del testo di “The Ghost Of You”. Tutti voi lo sapranno già, ma mi sembrava opportuno scriverlo.
Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, in ogni caso(vi preeeeeego) lasciate una recensione, come sempre anche solo per insultarmi XD.

   
 
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