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Autore: Aika Morgan    17/08/2012    40 recensioni
– Raccontami una storia, Salvatore. Una storia con le stelle.
Ci pensò su un attimo prima di cominciare a parlare.
– Le stelle... le stelle sono le case degli angeli. Dio le ha create per farceli andare a stare così possono vedere quello che succede qui.
Filippo strofinò il naso contro il suo collo.
– E... ogni volta che c'è un angelo nuovo, Dio crea una nuova stella. – continuò Salvatore.
– E le stelle cadenti allora? Le case degli angeli si muovono?
Si sentiva un bambino, ma non riusciva a fare a meno di quei racconti che avevano il potere di rassicurarlo. Gli girava ancora la testa per quello che lui e Salvatore avevano fatto, quasi non riusciva a credere di essere nudo e abbracciato stretto al suo migliore amico, quello con cui era cresciuto e del quale si era scoperto innamorato.
– No, no. Sono gli angeli che le cavalcano e giocano ad inseguirsi fra di loro. – ridacchiò Salvatore.

[Prima classificata al concorso "A night in Wonderland"]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Slash is the way <3' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Ci porterà via il mare.

 

Ad Alessia, che aspetta

pazientemente da aprile che

Filippo e Salvatore prendessero

vita.

 

 

Filippo non aveva mai amato il mare.

Per un bambino che era nato e cresciuto in un paese di pescatori, figlio lui stesso di un pescatore, era di certo una cosa strana.

Quando aveva cinque anni, suo padre era scomparso durante una notte di tempesta e non aveva fatto più ritorno a casa. Era capitato qualche volta che rimanesse in mare giornate intere, rincasando quando Filippo e sua madre meno se lo aspettavano, con cassette di legno piene di pesce da vendere al mercato, grazie alle quali avrebbero avuto il denaro necessario per tirare avanti qualche settimana senza preoccuparsi.

Quella volta, però, era stato diverso. Il padre di Filippo era scomparso e non l'avevano più visto.

Erano passate alcune settimane prima che Filippo si rendesse conto della situazione e, quando aveva chiesto alla madre per quale motivo il padre stava via così a lungo, l'unica risposta che aveva ricevuto era stata:

Tuo padre, tesoro mio, se l'è portato via il mare.

Aveva accettato quella spiegazione senza fare altre domande, tornandosene a giocare con le sue biglie colorate senza più pensare alle parole della donna.

Del resto, a quei tempi, le cose importanti erano altre. Che smettesse di piovere e tornasse il sole, per esempio, così sarebbe potuto andare a giocare a pallone con Salvatore e i suoi amici nel campo di terra battuta dell'oratorio dietro la chiesa, ad esempio.

Era importante racimolare qualche moneta da spendere al bar del paese per comprare il gelato in estate, o trovare qualche mozzicone di sigaretta a terra per fingere di fumare “come facevano i grandi”.

Col passare degli anni Filippo non aveva mai provato alcun particolare interesse per il mare, forse perché ricollegava ad esso la scomparsa del padre, e, durante l'estate, quando la maggior parte dei suoi amici andava in spiaggia per mescolarsi ai villeggianti di città, finiva per restare in disparte, nonostante Salvatore ogni volta cercasse di convincerlo in tutti i modi ad unirsi a loro.

Fra tutti i bambini di Acitrezza, Salvatore era quello che, a conti fatti, Filippo poteva definire il suo migliore amico.

Avevano la stessa età ed erano nati a soli due giorni di distanza, da due famiglie che abitavano nella stessa via e che si conoscevano da anni.

Mentre Filippo era l'unico figlio della vedova Carmela, Salvatore era il maggiore di tre figli e, arrivato all'età di tredici anni, aveva dovuto smettere di andare a scuola per aiutare il padre nel suo lavoro, visto che due braccia sole non erano in grado di sfamare cinque persone.

Nemmeno Filippo aveva avuto la possibilità di frequentare la scuola superiore: quella era una cosa da ricchi, sospirava sua madre, mentre cuciva accanto al lume della cucina, per i poveri la terza media era già un lusso più che sufficiente.

La vedova Carmela, come la chiamavano tutti, faceva la sarta, e si occupava di cucire vestiti a quasi tutto il paese, spesso in cambio di cibo invece che di soldi. Quando qualcuno si sposava, era certo che sarebbe stata lei a cucire l'abito della sposa e, in quelle occasioni, la sua camera da letto si riempiva decine di comari che si affaccendavano a dare consigli mentre la futura sposa, in sottoveste davanti allo specchio, sbuffava dalla voglia di provare il suo vestito.

Da piccolo Filippo era l'unico maschio che potesse assistere a questa sorta di rito. Nessuno si accorgeva di quel bambino minuto seduto ginocchioni sul letto a guardare ciò che gli accadeva attorno, e a lui piaceva avere l'attenzione degli amichetti quando mimava loro ciò che vedeva e sentiva, spesso imitando le voci di questa o quella donna.

Poi, col passare degli anni, assistere a quel teatrino era divenuto noioso e Filippo aveva perso ogni interesse nell'intrufolarsi nella stanza di sua madre mentre lei faceva provare il vestito a qualcuno. Da quando poi aveva cominciato a lavorare come garzone dal fornaio, non trascorreva molto tempo a casa, sempre esposto alle temperature roventi del forno o impegnato a servire i clienti quando il padrone non era in negozio.

Salvatore invece, andava a pescare con suo padre. Partivano da casa che il cielo era ancora buio e prendevano il largo a bordo di Santuzza, la barca di famiglia – sarebbe stato più appropriato dire che erano quattro assi messe insieme dal nonno quando lui era ancora piccolissimo – e non rientravano fino a che il sole non era tramontato.

Santuzza si chiamava così in onore di Sant'Agata, la patrona di Catania, santa alla quale la nonna di Salvatore era molto devota. Più volte era stata protagonista dei giochi infantili di Salvatore e Filippo, che vi salivano a bordo come se fosse un galeone dei pirati e passavano intere giornate a raccontarsi avventure strabilianti che non avrebbero mai vissuto.

Il lavoro non impediva ai due di riuscire a vedersi ogni giorno. Finite le proprie incombenze infatti, ognuno aspettava che anche l'altro si liberasse e facevano sempre in modo di incontrarsi sulla strada che percorrevano per andare a casa.

Nel corso degli anni Filippo si era affezionato a Salvatore come ad un fratello e un po' lo considerava come tale, considerato che era figlio unico e che a volte era noioso essere sempre da solo.

Quando si lamentava del fatto che avrebbe voluto avere un fratello o una sorella, Salvatore gli assicurava che no, avere due fratellini più piccoli sempre in giro ad urlare per casa non era una gran cosa, ma Filippo scuoteva la testa e ribatteva che comunque lui solo non era, considerato che Salvatore era sempre lì con lui.

Filippo adorava giocare a calcio.

Fra tutti i suoi amici, era il più bravo e, quando in oratorio Don Vincenzo organizzava le partite per i bambini, tutti volevano stare in squadra con lui per assicurarsi la vittoria.

Nei suoi sogni, quelli che non osava confidare a nessuno, era un giocatore famoso e poteva mantenere sua madre senza che questa fosse costretta a fare la sarta, anzi no, di più, riusciva perfino a dare dei soldi a Salvatore per permettergli di continuare a studiare.

Infatti, se Filippo sognava di diventare un calciatore, Salvatore avrebbe voluto fare lo scrittore, o meglio, come diceva lui raccontare fatti1.

Aveva sempre un sacco di storie che gli passavano per la mente, e le raccontava volentieri a chiunque stesse ad ascoltarlo. Erano quasi sempre le stesse, ma non erano mai del tutto uguali, arricchite di questo particolare diverso ogni volta. Le ricordava tutte a memoria e non aveva mai avuto modo di trascriverle, vuoi per il tempo che mancava, vuoi perché non poteva permettersi di comprare quaderni superflui, visto che quelli che c'erano in casa servivano ai suoi fratelli.

A lui andava bene così: non aveva le stesse ambizioni di Filippo e gli bastava fare felice qualcuno anche solo per cinque minuti e non gli era mai importato di raccogliere le sue storie per farne un libro. Quello che gli era davvero dispiaciuto era stato dover abbandonare la scuola così presto e il suo sogno era quello di avere denaro a sufficienza per poterci tornare, prima o poi.

Salvatore aveva qualcosa da raccontare per ogni occasione.

Una volta sua sorella Annina gli aveva chiesto per quale motivo le stelle scivolassero giù dal cielo e lui le aveva risposto dicendole che erano gli angeli che le cavalcavano e giocavano a rincorrersi quando Dio non poteva vederli, ma a volte capitava che inciampassero giù per il cielo.

Quando succedeva – aveva aggiunto con un sorriso sibillino – gli angeli erano costretti a fare penitenza e ad esaudire il desiderio di chi per sbaglio li avesse sorpresi a cadere.

Filippo era uno dei suoi ascoltatori più assidui.

Adorava ascoltare i suoi racconti e, ogni volta che si vedevano, gliene chiedeva sempre uno nuovo. La maggior parte delle volte Salvatore trasformava in una favola la prima cosa che gli veniva in mente, fosse un aneddoto della sua giornata o una riflessione qualunque pescata da chissà quale angolo remoto della mente.

Nonostante le ristrettezze, erano felici: Acitrezza, a pochi chilometri dalla città grande, Catania, dove si andava nei giorni di festa, era il loro mondo, quello nel quale avevano la certezza che, così com'erano iniziate, le loro vite si sarebbero concluse.

L'idea o la curiosità che esistesse altro oltre quello, non li sfiorava quasi mai e, comunque, bastavano i racconti di Salvatore a colmare ogni desiderio di conoscere qualcosa di diverso da ciò a cui erano abituati.

 

***

 

L'estate che rivoluzionò le loro vite fu quella del 1967.

Avevano sedici anni e nell'inverno precedente entrambi erano cresciuti talmente tanto che adesso i vestiti estivi – magliette sbrindellate e pantaloncini di tela – stavano loro troppo corti e troppo stretti.

Ad entrambi era cambiata anche la voce e sembravano non avere più nulla a che fare con i ragazzini che erano stati l'anno prima, tanto che nemmeno loro riuscivano a capacitarsi di quanto fossero diventati diversi.

Iniziava a spuntare loro un accenno di barba, che puntualmente tagliavano via quasi ogni giorno perché non riuscivano a riconoscersi con quella peluria sul viso, e i loro lineamenti erano diventati più adulti.

Con i loro amici si cominciava a parlare di donne, e alcuni di loro avevano anche cominciato a risparmiare il necessario per pagare donna Nerina affinché li rendesse uomini nella stanza da letto della sua casa proprio dietro la chiesa.

Qualcuno c'era anche stato, e aveva raccontato l'esperienza nei minimi dettagli, forse forzando un po' i particolari per non dare l'impressione di essere stato uno sprovveduto alle prese per la prima volta con un corpo femminile.

Salvatore ascoltava quelle storie senza prestarvi troppe attenzioni, troppo preso dal lavoro quotidiano e dalle incombenze familiari. Toccava a lui occuparsi della famiglia, dopo che suo padre, in seguito ad un incidente con degli attrezzi di lavoro, era rimasto ferito ad un braccio e non si sapeva ancora per quanto non sarebbe potuto andare con lui a pescare.

Filippo invece, per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare per nulla interessanti i discorsi dei suoi amici e cercava sempre di evitare di intervenire, anche perché non aveva niente da dire.

Fu in quei giorni di metà giugno che le cose iniziarono a cambiare.

Filippo non ricordava l'esatto momento in cui, per la prima volta, a vedere Salvatore insieme ad una ragazza, aveva provato quella strana fitta allo stomaco.

Era successo che Salvatore, per guadagnare qualche spicciolo in più, avesse cominciato ad affittare Santuzza per dei brevi giri turistici che non andavano oltre i faraglioni di Acitrezza. Ad approfittare di quella opportunità erano soprattutto i ricchi villeggianti che venivano dal Continente ed era capitato che qualche ragazza, magari con addosso solo un costume da bagno, gli sorridesse con complicità, incurante dell'essere sulla barca in compagnia dei genitori.

Salvatore, concentrato com'era sul remare, nemmeno si accorgeva di queste sottigliezze, ma Filippo aveva notato come la fila per fare un giro su Santuzza fosse principalmente composta da ragazze della loro età, o poco più grandi, e si era reso conto che la cosa gli dava non poco fastidio.

Ci vollero diversi giorni – e diversi sorrisi complici fra Salvatore e Cosima, una ragazza napoletana – perché Filippo realizzasse che forse aveva contratto la malattia.

A quei tempi, nessuno aveva mai detto loro cosa fosse davvero la malattia.

Don Vincenzo, a catechismo, aveva spiegato per sommi capi cosa fossero i peccati capitali e quali fossero i più gravi, quelli per i quali Dio, dopo la morte, avrebbe potuto spedire le persone dritte all'Inferno, senza alcuna possibilità di perdono.

Quando li aveva nominati, tutti i bambini si erano fatti un rapido esame di coscienza per capire in che misura ci fosse il rischio di venire puniti così gravemente, ma il prete li aveva rassicurati dicendo loro che erano ancora troppo piccoli per preoccuparsi di questo e che solo una volta diventati grandi avrebbero dovuto tenere un comportamento esemplare.

Ma della malattia, Don Vincenzo non aveva detto niente, lasciando però intendere che si trattasse di qualcosa di veramente grave.

Così nessuno conosceva né i sintomi né la cura della malattia, sapevano soltanto che Dio li avrebbe puniti gravemente se si fossero lasciati concupire e non avessero cercato in tutti i modi di resistervi.

Filippo si era fatto un'idea di cosa potesse essere la malattia spiando i discorsi mormorati a mezza voce dalle vecchie che cucivano riunite davanti alle porte di casa. Una volta una di loro, abbassando la voce con fare cospiratorio, aveva accennato a zio Totò, il fratello della madre dello stesso Filippo, affermando che se anni prima era emigrato in Continente era proprio perché era malato e lì forse l'avrebbero potuto curare.

Filippo non ricordava nemmeno che faccia avesse suo zio e sua madre non lo nominava mai, limitandosi a zittirlo ogni volta che lui provava ad accennarvi. Forse nemmeno quelle donne sapevano esattamente cosa avesse zio Totò, ma parlavano di lui come un masculu ereticu2 che si accoppiava con altri masculi come lui.

Usavano il termine accoppiare con disprezzo, come se parlassero di un animale da monta e Filippo non riusciva a capire il perché di tanto accanimento.

L'idea di essersi ammalato, di provare il desiderio di accoppiarsi con Salvatore come se fosse un animale, lo fece precipitare nello sconforto.

Chiuso in camera sua, passò ore a riesaminare la sua vita, tutti gli episodi in cui Salvatore era stato accanto a lui, il modo fraterno in cui gli aveva sempre detto che gli voleva bene gettandogli poi le braccia al collo.

In realtà non era poi tanto sicuro che provare quella strana sensazione di fastidio alla bocca dello stomaco quando vedeva Salvatore in compagnia di una ragazza fosse un sintomo della malattia ma, passando in rassegna tutti i sentimenti che provava nei confronti degli altri suoi amici, si rese conto che non aveva mai provato la stessa sensazione quando li sentiva parlare di donne.

Si scoprì lentamente a desiderare ricevere tutte le attenzioni che Salvatore riservava alle giovani turiste, e un giorno il suo cuore saltò un battito quando lo vide accarezzare la schiena di una ragazza. Provò dei brividi lungo la spina dorsale e si morse le labbra desiderando per sé quel tocco capace di farlo tremare anche solo immaginandolo.

Cominciò a fare sogni strani, in cui Salvatore lo toccava e gli accarezzava il viso, baciandolo poi su una guancia, e si svegliava sempre di soprassalto, sudato e con una sensazione di stordimento che non sapeva come spiegarsi.

Fin quando erano solo sogni, non si preoccupava eccessivamente: sapeva che erano immagini che appartenevano solo alla notte e che non potevano assolutamente nuocergli ma, quando un giorno si ritrovò ad immaginare ad occhi aperti Salvatore che lo baciava sulla bocca, iniziò a preoccuparsi seriamente.

Si sorprendeva a scoprire di pensare a quanto fosse diventato bello Salvatore. Era come se mai davvero lo avesse visto, come se non si fosse mai accorto delle lentiggini che gli spruzzavano la pelle del viso bruciata dal sole.

Senza quasi accorgersene, iniziò anche ad evitarlo, forse perché aveva paura che potesse accorgersi della malattia e scansarlo come avrebbe fatto con un animale schifoso.

Eppure questo accorgimento non bastò a far cessare i suoi strani pensieri. Stava sveglio la notte a fissare il soffitto e a chiedersi cosa avrebbero detto gli altri se avessero potuto leggergli il pensiero. Si rigirava nel letto cercando di prendere sonno, ma alla fine il suo pensiero costante era lì, immobile, a tormentarlo senza che lui potesse farci nulla.

Non andava più al porto ad aspettare che Salvatore tornasse dal mare e quando invece era l'amico ad andare al forno, riusciva sempre a liquidarlo con poche parole, dicendo di essere stanco o di dover lavorare più del previsto.

Nemmeno questo però bastava a tranquillizzarlo o a togliergli dalla mente l'immagine di Salvatore, diventato quasi un'ossessione.

Più d'una volta si ritrovò a passare davanti alla casa di Donna Nerina, ma non riusciva mai a trovare il coraggio di bussare e dirle che aveva bisogno di lei per diventare un vero uomo e guarire da quelle sensazioni contro natura che continuava a provare.

Provò persino a parlarne con Don Vincenzo, in confessionale, ma non riuscì ad andare in fondo alla cosa.

Gli mancavano le parole e aveva troppa paura che il prete – nonostante il segreto della confessione – andasse a raccontare in giro ciò che gli avrebbe detto.

Così, al momento di parlare, gli raccontò solo qualche peccato di poco conto – ad esempio l'aver rubato una pagnotta mentre lavorava perché aveva fame e mancavano parecchie al mezzogiorno – e la sua penitenza consistette in due Ave Maria e tre Gloria.

Recitò le preghiere con fervore, inginocchiato davanti all'altare, implorando poi la Madonna di liberarlo da quel tormento che non voleva abbandonarlo, pregandola di perdonarlo se non riusciva a confessare a Don Vincenzo ciò che provava e promettendo che non avrebbe mai ceduto a quel desiderio insistente.

Se ne tornò a casa un po' più tranquillo e riuscì a non pensare alla questione per un paio di giorni. Anche sua madre, seduta a cucire accanto alla finestra, si era accorta che c'era qualcosa che non andava, ma Filippo aveva risposto elusivamente alle sue domande, dicendo che in quei giorni Salvatore aveva da lavorare il doppio.

La sera di San Giovanni fu quella nella quale nascondersi da Salvatore divenne praticamente impossibile. Quel giorno non lavorava nessuno, andavano tutti alla Messa del Santo Patrono e poi alla festa in piazza, nella quale c'era un'orchestra che suonava per intrattenere i paesani.

Filippo sarebbe voluto rimanere a casa, ma non aveva trovato una scusa abbastanza plausibile, così non gli era rimasto altro che sperare di riuscirsi a confondere fra la folla e sperare di non incontrare Salvatore.

Sapeva che l'amico non era stupido e che in qualche modo doveva essersi accorto dei suoi tentativi di evitarlo, mentre con gli altri amici era sempre cordiale e disponibile, ma non aveva alcuna spiegazione da dargli in merito.

Anzi, la spiegazione c'era, ma non era esattamente la più facile da articolare.

Quando vide che Salvatore gli stava venendo incontro con fare deciso, per poco non gli andò di traverso il torrone che aveva appena iniziato a masticare.

Filippo, ciao! Buonasera, donna Carmela! – li salutò educatamente Salvatore.

Quando sua madre si allontanò per andare a parlare con delle sue amiche, Filippo capì che stava per giungere il momento in cui non avrebbe potuto più mentire.

Si può sapere che ti è successo?

Filippo aggrottò le sopracciglia, come a chiedere una spiegazione.

Sono giorni che non ci vediamo perché hai sempre da fare! Ce l'hai con me per qualcosa?

I suoi occhi scuri erano tristi, tanto che Filippo provò il desiderio di abbracciarlo e chiedergli scusa per la freddezza che gli aveva dimostrato nell'ultimo periodo.

Forse... forse con lui poteva confidarsi, pensò un attimo dopo.

Immaginava che saperlo malato avrebbe fatto schifo a Salvatore, ma sperava che la loro amicizia potesse superare anche una cosa del genere.

Vieni con me!

Lo prese per mano e lo portò in un vicolo lontano da occhi e orecchie indiscrete.

Mi prometti che non lo dici a nessuno? – chiese, preoccupato.

Il cuore prese a battergli forte. Non sapeva che parole usare per spiegargli tutto e inoltre era scombussolato dall'avere Salvatore così vicino, con quel corpo che ormai occupava ogni suo sogno e desiderio.

Cosa?

Baciarlo sembrò la cosa più semplice da fare. Filippo non aveva mai baciato nessuno in quel modo e quel gesto lo elettrizzò, facendogli provare sensazioni che non credeva esistessero. Le labbra di Salvatore erano morbide e la sua guancia profumava di acqua di colonia, che probabilmente aveva usato prima di uscire di casa quella sera.

Si rese conto di ciò che era riuscito a fare solo quando si allontanò da lui e ne scoprì lo sguardo sorpreso.

Ti... ti ricordi la malattia, Salvatore? – balbettò a voce appena udibile.

Sì.

Penso di essermi ammalato. Probabilmente andrò all'inferno perché sogno che tu mi tocchi e mi baci come se fossimo marito e moglie. – confessò Filippo tutto d'un fiato.

La tensione era talmente alta che sentì persino qualche lacrima corrergli per le guance. Sapeva che da quel momento niente sarebbe stato più come prima e questo lo terrorizzava.

Si era già preparato all'eventualità di ricevere uno spintone e uno sguardo carico d'odio, e fu per questo che la reazione di Salvatore lo sorprese.

Ed è per questo che non mi parlavi più? – chiese l'amico senza scomporsi.

Sì. Pensavo che se non ci vedevamo smettevo di pensare a te. – tirò su col naso, sentendosi uno stupido – E poi che ne so, magari la malattia è contagiosa, non voglio che stai male anche tu.

Non aveva nient'altro da aggiungere, e sperava che adesso fosse Salvatore a colmare quel silenzio che iniziava a mettergli paura.

Salvatore...? Mi giuri che non lo dici a nessuno, vero?

Certo che non lo dico a nessuno, Filippo? Ma sei sicuro che sia una malattia?

Filippo abbassò lo sguardo.

Non lo so. Quando ti penso sono felice, adesso che ti ho baciato non mi sento come se avessi la febbre, anzi mi sento benissimo. E sto male solo quando tu guardi le ragazze e le aiuti a salire su Santuzza. Però tu sei maschio come me, quindi è sbagliato...

Forse la malattia non aveva gli stessi sintomi dell'influenza.

Ma io non guardo le ragazze! Io ci lavoro quando le faccio salire su Santuzza! – rise Salvatore.

E non le baci quando nessuno può vedere? – Filippo si morse la lingua subito dopo aver fatto questa domanda.

No, ci mancherebbe solo questo!

L'abbraccio di Salvatore lo stupì.

Si aspettava un altro epilogo da quella confessione, ed era contento che le cose fossero andate così, anche se continuava a sentirsi ancora in colpa per via dei suoi desideri peccaminosi.

Volere un ragazzo come lui doveva essere di gran lunga più grave che andare da donna Nerina, di questo era certo. Adesso che Salvatore sapeva come stavano le cose, era più tranquillo, era stato come togliersi un peso dal cuore.

Salvatore? – chiese titubante.

Sì?

Posso dartelo un altro bacio come prima? Voglio ringraziarti.

E sentire ancora il sapore della tua bocca.

Il bacio durò un po' più a lungo, senza che Salvatore facesse smorfie schifate. Filippo sarebbe rimasto lì per sempre, ma sapeva che doveva accontentarsi di quei due unici baci, che probabilmente sarebbero stati gli unici che si sarebbe potuto aspettare da Salvatore.

Forse, adesso che aveva soddisfatto quella strana curiosità di sapere come fosse baciarlo, non avrebbe più pensato all'amico in quel modo malato.

Quando Salvatore gli strinse la mano per rassicurarlo e dirgli che gli voleva bene, Filippo non fu più tanto sicuro che avrebbe dimenticato facilmente ciò che provava.

 

***

 

Quello che Salvatore non disse a Filippo, e che realizzò solo a qualche giorno di distanza dalla festa di San Giovanni, fu che, tutto sommato, i baci che si erano scambiati, entrambi piuttosto timidi e impacciati, non gli erano affatto dispiaciuti.

Sulle prime l'aveva lasciato basito l'idea che all'amico potessero piacere i maschi come lui, ma si era abituato immediatamente alla cosa, senza trovarla una cosa dell'altro mondo. Forse era perché si trattava di Filippo, a cui voleva un bene dell'anima, forse perché gli sembrava che i sentimenti, per quel poco che ne capiva lui, non potessero mai essere una cosa sporca.

Col passare dei giorni lui e Filippo ritornarono ad essere gli amici inseparabili di prima e, anzi, Salvatore faceva in modo da passare con lui più tempo possibile, senza mai accennare ai baci che si erano scambiati né alla malattia che l'altro diceva di avere.

Gli sembrava buffo che Filippo fosse attratto da lui, visto che si conoscevano da una vita, e pensava che forse l'amico stava confondendo l'attrazione con l'amicizia e che prima o poi avrebbe incontrato qualche ragazza che gli sarebbe davvero piaciuta.

Non che non prendesse la cosa sul serio, gli dispiaceva che Filippo fosse stato male all'idea di essere malato o che fosse geloso delle ragazze che lui portava a vedere i faraglioni, e sapeva quello che sarebbe successo se qualcuno avesse saputo delle loro conversazioni.

Ci pensava tutto il giorno, alla storia di Filippo, anche quando cercava di scacciarla dalla sua mente, e fu piuttosto sorpreso il giorno in cui si ritrovò a considerare che non doveva poi essere tanto male l'idea di essere attratto da un ragazzo.

Filippo poi non era un ragazzo qualunque, prima di ogni altra cosa era il suo migliore amico, e questo non sarebbe di certo cambiato se fosse stato una femmina. Aveva uno sguardo dolce e capelli lisci e castani che gli coprivano parzialmente il viso. Alto più o meno quanto lui, aveva però i muscoli meno sviluppati dei suoi.

E sì... poteva considerarlo bello, persino pensare che quell'attrazione potesse essere reciproca.

Prima della rivelazione di Filippo non aveva mai pensato ad un ragazzo in questi termini, tanto che i primi tempi pensava si trattasse di una sorta di imitazione dei sentimenti dell'amico.

Poi però il pensiero di quello che erano stati i due baci che si erano scambiati e come sarebbe stato baciarlo ancora, stringerlo e toccarlo in maniera diversa da come era abituato a fare, aveva iniziato a farsi più insistente, al punto che spesso, senza volerlo, si trovava protagonista di strane fantasie che lo vedevano insieme a Filippo.

Filippo, dimmi una cosa... Ti piaccio ancora? – gli chiese una sera di metà luglio, due settimane dopo la confessione dell'amico, mentre l'altro lo aiutava a sistemare delle reti da pesca giù al porto. Attorno a loro non c'era nessuno, solo il rumore delle onde del mare che sbattevano contro gli scogli faceva da sfondo al loro lavoro.

Non aveva intenzione di fare una domanda così diretta, né di toccare di nuovo quell'argomento spinoso che sembrava tanto agitare Filippo, ma quella domanda era il frutto diversi giorni passati ad arrovellarsi sempre sulla stessa cosa.

L'altro avvampò e distolse lo sguardo.

Salvatore...

Tornò a cercare di districare la rete da pesca che aveva in mano, forse per evitare di dargli una risposta.

No, perché è un paio di giorni che ci penso... – continuò Salvatore – Penso a quello che mi hai detto e a come... a come è stato quel bacio.

Da-davvero? – Filippo rimase a bocca aperta.

Sì. Non avevo mai baciato nessuno in quel modo. E l'idea di farlo ancora con te non mi fa tanto schifo.

Salvatore, che dici? Guarda che è una cosa brutta questa. È un peccato mortale, se lo viene a sapere Don Vincenzo...

E chi glielo dice a Don Vincenzo? – sorrise Salvatore – Facciamo che è il nostro segreto, no?

Si chinò a baciare un incredulo Filippo, stringendogli poi le mani.

Vuoi dire che ti piaccio anche io, Salvatore? Ne sei sicuro? – fu la prima domanda dell'amico quando si staccò da lui.

Non lo so, ho tutto così confuso qui dentro! – rispose lui, picchiettandosi la testa con un dito – Però adesso ascolta il mio cuore... Ascolta come batte forte.

Era vero. Il suo battito era accelerato senza che sapesse davvero spiegarsene la ragione, e il fiato gli si spezzò quando Filippo gli poggiò una mano sul petto.

Ho paura che sia tutto sbagliato. – ammise l'amico più tardi, dopo che parlavano da ore della stessa cosa.

Non preoccuparti, se c'è qualcosa di sbagliato, non è nelle nostre teste!

Salvatore non era del tutto sicuro di ciò che diceva, anche lui era cresciuto con l'idea che la malattia fosse qualcosa di davvero grave e contraria al volere di Dio, ma, adesso che stava provando quelle sensazioni sulla sua pelle, non era tanto sicuro che fosse qualcosa di brutto.

Non era nemmeno certo che quello che provava per Filippo fosse vero amore, ma per quel poco che ne sapeva – sua madre ogni tanto comprava Intimità e lui leggeva di sfuggita qualche fotoromanzo melenso – l'amore non scoppiava quasi mai all'improvviso e cominciava con un sentimento più forte dell'amicizia che andava sviluppato poco a poco.

Aveva molte titubanze, comunque: sapeva che se suo padre avesse scoperto una cosa del genere su di lui sarebbero stati guai seri, ma per adesso preferiva non pensarci e concentrarsi sulla mano di Filippo stretta alla sua.

Comunque andranno le cose, noi saremo sempre amici, mi hai capito? – gli sussurrò, accarezzandogli poi i capelli e avvicinando la sua fronte a quella di Filippo.

Anche se ci fanno del male quando lo scoprono?

Se lo scoprono. Non bagnarti prima di piovere.

Filippo annuì, regalandogli un sorriso dolcissimo e infilandogli le mani sotto la maglietta che indossava per poter toccare direttamente la sua pelle facendogli venire i brividi.

Si salutarono per andare a dormire solo dopo qualche ora, quando era passata la mezzanotte da un po', ridacchiando di quella nuova strana avventura che avevano deciso di intraprendere insieme.

L'amore arrivò più avanti, esattamente come Salvatore aveva previsto.

Scoprirsi ogni giorno sempre più innamorato di Filippo lo faceva svegliare con un enorme sorriso sulle labbra, così come l'idea di vederlo quando finiva di lavorare.

Anche se si conoscevano da quando erano nati, adesso vedevano tutto sotto un'altra luce e il tempo passato insieme sembrava non bastare mai.

Se inizialmente Salvatore aveva avuto paura che la sua attrazione nei confronti di Filippo fosse dovuta solo al suo confondere i sentimenti, adesso doveva ricredersi: si era innamorato di lui, non di un ragazzo, ma di Filippo, come teneva sempre a precisare quando era in vena di tenerezze.

Ogni tanto ritornavano a galla i discorsi su quanto fosse giusto ciò che stavano facendo ed entrambi si arrovellavano su come una cosa così bella come il sentimento che provavano l'uno per l'altro potesse essere considerato sporco.

Anche Salvatore, per quanto cercasse di essere sicuro di sé, aveva le stesse paure di Filippo, ma si era messo in testa di proteggerlo da quelle sue paure, quindi non dava mai a vedere i suoi dubbi, cercando sempre di tranquillizzarlo e di promettergli che sarebbe andato tutto bene.

Il bisogno di approfondire la parte fisica del loro rapporto – non erano mai andati oltre al baciarsi o allo stare abbracciati all'interno di Santuzza, ormeggiata sulla spiaggia – si presentò qualche notte prima di Ferragosto.

Avevano passato la serata in piazza con gli amici a giocare col nuovo flipper che il signor Gino aveva comprato per il suo bar, avevano mangiato un gelato e bevuto una limonata, restando a chiacchierare fino a che tutti pian piano erano tornati alle loro case.

Loro due non avevano voglia di separarsi, così erano andati a fare una passeggiata in spiaggia, andando poi a sdraiarsi all'interno di Santuzza, che era diventata col passare dei mesi un vero e proprio rifugio appartenente solo a loro.

San Lorenzo era passato da solo due giorni, e quindi era possibile vedere ancora le stelle cadenti, tanto che inizialmente i due ragazzi rimasero a guardare il cielo senza dire una parola. Poi Salvatore si voltò a guardare il viso sereno di Filippo, regalandogli un bacio a fior di labbra e poi ponendosi su di lui per abbracciarlo.

Il resto fu naturale, come se entrambi fossero guidati dallo stesso istinto che diceva loro cosa fare.

Goffamente - non aveva mai spogliato nessuno, ad esclusione di suo fratello Giovanni, quando da piccolo lo metteva a dormire nella sua culla - Salvatore slacciò il cordoncino che teneva fermi i pantaloni di tela di Filippo, poi lo accarezzò sul viso.

Cosa sto facendo?

Glielo avrebbe voluto chiedere, se non fosse stato che nemmeno Filippo aveva una risposta da dargli. L'amico si sporse verso di lui per baciarlo e gli prese le mani per mettersele sui fianchi.

Cosa stiamo facendo?

Era sbagliato, immorale, li avrebbe fatti bruciare all'inferno come nelle storie che Don Vincenzo raccontava durante le prediche della messa domenicale.

Gli tolse la maglietta di cotone che indossava e poi baciò il petto magro di Filippo, scendendo con la lingua giù fino alla pancia, fino all'ombelico. Filippo gemette piano, poi cercò di togliergli i pantaloni a sua volta.

Poi una domanda, mormorata da Filippo a voce appena udibile.

- Stiamo sbagliando?

- Se stiamo sbagliando finiremo all'inferno insieme.

Un bacio, e poi un altro, poi la mano di Salvatore esitò qualche attimo sull'elastico delle mutande di Filippo. Si erano visti nudi l'un l'altro centinaia di volte, specialmente quando erano bambini e facevano il bagno insieme, ma adesso c'era qualcosa di diverso, che un po' li impauriva.

Puoi... puoi toccarmi? – Filippo gli mormorò questa richiesta dritta all'orecchio e Salvatore non poté fare altro che accontentarlo.

Filippo trattenne a stento un gemito e si morse le labbra, poi fece la stessa cosa a Salvatore, lasciando che le sue mutande scivolassero giù per le gambe e non fossero d'impaccio.

Non avevano la minima idea di come si facessero certe cose, non ne avevano mai sentito parlare, se non dai racconti dei loro amici, e il battito violento dei loro cuori impediva loro di articolare un pensiero coerente.

Si abbracciarono per sentire i loro corpi stretti l'uno all'altro e, così facendo, le loro erezioni vennero in contatto, regalando loro un forte senso di piacere al basso ventre.

Ridevano innervositi, forse anche impauriti da quello che sarebbe potuto succedere se qualcuno li avesse visti ma, nel momento in cui Salvatore cercò di iniziare a penetrare piano Filippo, tutto il resto del mondo attorno a loro sparì.

Salvatore tappò la bocca di Filippo con la sua perché non urlasse e gli sussurrò di mordergli le labbra se sentiva troppo dolore. Filippo aveva le lacrime agli occhi, ma Salvatore si accorse che faceva di tutto per resistere e non chiedergli di smettere. Lui dal canto suo continuava ad accarezzargli il viso e a baciarlo, ripetendogli continuamente che se avesse voluto si sarebbe fermato, ma al tempo stesso sperando che quell'invocazione non arrivasse mai.

Cominciò a muoversi lentamente, iniziando pian piano a sentire il disagio iniziale trasformarsi in qualcosa di più diverso e piacevole, più simile al calore avvertito poco prima.

Va tutto bene?

Filippo annuì, strappandogli un bacio.

Va tutto bene. – mormorò, facendogli poi un sorriso. – Lo senti anche tu questo strano caldo qui sotto?

Sì. – annuì Salvatore – Ti piace?

Tantissimo. Non... non smettere. È tutto così... bello.

Si morsero le labbra quando la sensazione di piacere divenne troppo forte dal non poter più essere trattenuta e dopo, quando il ritmo del loro cuori si fu calmato il necessario per permettere loro di respirare normalmente, si abbracciarono per permettere ai loro corpi di restare ancora l'uno accanto all'altro.

Filippo, le vedi le stelle?

Salvatore indicò il cielo buio con un dito, muovendo poi la mano come a disegnare le stelle che lo illuminavano.

Sì.

Strinse Filippo a sé, baciandolo fra i capelli.

Loro ci guardano e ci proteggono. Per loro non stiamo facendo nulla di male.

Lo sentì sospirare piano.

Raccontami una storia, Salvatore. Una storia con le stelle.

Ci pensò su un attimo prima di cominciare a parlare.

Le stelle... le stelle sono le case degli angeli. Dio le ha create per farceli andare a stare così possono vedere quello che succede qui.

Filippo strofinò il naso contro il suo collo.

E... ogni volta che c'è un angelo nuovo, Dio crea una nuova stella. – continuò Salvatore.

E le stelle cadenti allora? Le case degli angeli si muovono?

Si sentiva un bambino, ma non riusciva a fare a meno di quei racconti che avevano il potere di rassicurarlo. Gli girava ancora la testa per quello che lui e Salvatore avevano fatto, quasi non riusciva a credere di essere nudo e abbracciato stretto al suo migliore amico, quello con cui era cresciuto e del quale si era scoperto innamorato.

No, no. Sono gli angeli che le cavalcano e giocano ad inseguirsi fra di loro. – ridacchiò Salvatore.

Mi piace. Anche io voglio cavalcare una stella. – confessò Filippo – Mi... mi è piaciuto quello che abbiamo fatto. A te?

Sembrava incerto, come se avesse paura che adesso lui potesse respingerlo o prenderlo in giro.

Anche a me. – lo rassicurò, accarezzandogli i capelli – Senti, forse però è meglio che ora torniamo a casa o se ci addormentiamo qui domani finisce che ci svegliamo con le ossa rotte.

Sotto di loro c'era solo il legno duro di Santuzza ricoperto da qualche sacco di canapa e dai loro vestiti stropicciati.

Mh, non voglio andare via. – mugolò Filippo con un piccolo sbadiglio che evidenziava quanto fosse stanco.

Ci rivediamo domani sera, dai! Io, te e le stelle. E la luna.

Gli sorrise e lo baciò sulle labbra, aiutandolo a rivestirsi. Fecero la strada per tornare a casa tenendosi per mano, girandosi però continuamente per guardarsi alle spalle per la paura di poter essere scoperti.

Sulla soglia di casa, Salvatore lo salutò con un abbraccio e Filippo rimase a guardarlo finché non lo vide arrivare all'angolo della via in cui abitavano. Prima di rientrare alzò gli occhi al cielo e scorse una stella cadente, la terza che vedeva quella sera.

Mentre Filippo e Salvatore si amavano, gli angeli giocavano ad inseguirsi sulle loro stelle.

 

***

 

L'arrivo al paese di zio Totò coincise con l'inizio delle dicerie circa lo strano rapporto che legava Filippo e Salvatore.

Nonostante i due ragazzi stessero attentissimi a non isolarsi troppo dai loro amici o si guardassero furtivamente intorno prima di concedersi una stretta di mano, successe che un giorno Mariuccia, la figlia minore del fornaio, li vide da lontano mentre si scambiavano un bacio a fior di labbra.

Agli occhi di Mariuccia non c'era niente di male in quel gesto, ma quando lo raccontò a tavola, sua madre si infuriò e le diede un ceffone, dicendole che inventarsi quelle cose immorali era da bambini maleducati e che non avrebbe mai dovuto ripetere una cosa simile davanti a nessuno.

Mariuccia però non era stata l'unica a notare il comportamento ambiguo di Filippo e Salvatore. Fu forse a causa della sua scoperta che suo padre cominciò ad osservare molto più attentamente i movimenti del suo garzone e le sue frequentazioni.

L'uomo si accorse così che ogni sera Salvatore veniva ad aspettare l'amico di fronte al negozio e che, ogni volta che lo vedeva, sembrava fremere dalla gioia. Poi lo trascinava in un vicolo e sparivano per un buon quarto d'ora, per riapparire sulla strada principale con un'espressione diversa dipinta sul volto e continuando a ridacchiare come se nascondessero chissà che segreto.

In un paesino come Acitrezza le dicerie non ci mettevano nulla per diffondersi.

Il fatto che il figlio della vedova Carmela potesse essere afflitto dalla stessa malattia dello zio e che avesse contagiato in qualche modo Salvatore era una notizia preoccupante, ma al tempo stesso succulenta, per tutte le pettegole che non vedevano l'ora di avere qualcosa di cui sparlare mentre recitavano il loro Rosario quotidiano.

D'improvviso, e senza alcuna spiegazione, donna Carmela si vide revocare la commissione dell'abito da sposa di Lucia Grasso, figlia del farmacista, e non ci volle molto a capire che era proprio a causa di tutte le dicerie attorno al comportamento di suo figlio.

La donna non sapeva nulla di quello che stava succedendo e credeva solamente che la ricca famiglia del farmacista avesse deciso di comprare l'abito già bell'e fatto in una sartoria di Catania, visto che potevano permetterselo.

Il lavoro però iniziò a mancarle, perché nessuno in paese sembrava aver voglia di farsi cucire neanche un solo bottone da una donna circondata da uomini malati.

Donna Carmela aveva comunque qualche risparmio da parte e poi, con l'arrivo del fratello, aveva decisamente altro a cui pensare, per cui non aveva tempo di chiedersi che cosa stesse realmente succedendo e il motivo per il quale nessuno volesse servirsi più del suo lavoro.

Zio Totò arrivò in paese il 17 agosto, con la corriera delle 10:30 che lo aveva portato lì dalla stazione di Catania. Non aveva avvisato nessuno che sarebbe tornato, così, quando la sorella se lo ritrovò di fronte, quasi nemmeno lo riconobbe, urlando di gioia e abbracciandolo stretto solo in un secondo momento.

I due fratelli non si vedevano da anni, e i loro contatti erano consistiti soltanto in cartoline e lettere spedite per le feste comandate. Zio Totò era andato a vivere a Roma subito dopo la fine della guerra e, in quella occasione, si era mormorato a lungo della sua relazione peccaminosa con un soldato americano venuto a liberare la Sicilia dai nazisti.

Nessuno sapeva se questa storia fosse vera ma, come nel caso di Filippo e Salvatore, amavano tutti ricamarci sopra, al punto che all'epoca si era sospettato addirittura che zio Totò fosse l'oggetto del contendere di un soldato americano e di uno tedesco.

A Roma adesso zio Totò aveva un negozio di abbigliamento e “se la passava sicuramente bene” per dirla come aveva commentato la moglie del fornaio il suo abbigliamento elegante, del tutto diverso da quello semplice degli abitanti del luogo.

La domanda che serpeggiava fra tutti, era se don Totò fosse guarito e dunque tornato ad Acitrezza per restarvi o se sarebbe tornato a Roma, a vivere la sua vita nel peccato.

Filippo aveva ricordi vaghissimi dello zio, ma si trovò subito bene con lui, passando ore a farsi raccontare di Roma e di tutto quello che l'uomo faceva nella Capitale. Riferiva poi tutto a Salvatore, che prontamente si divertiva ad inventare come sarebbe stata la loro vita se mai fossero andati a vivere in Continente.

Il ritorno dello zio Totò non aveva comunque contribuito a far fermare le chiacchiere su Filippo e Salvatore.

I due ragazzi, perduti nel loro mondo fatto d'amore e di piccole scoperte quotidiane l'uno sul conto dell'altro, nemmeno si erano accorti che i loro amici li guardavano in modo strano, quasi con timore.

Non avevano mai avuto il sospetto che qualcuno potesse aver scoperto di loro, tranne una domenica, quando Don Vincenzo, durante la Messa, aveva predicato a lungo contro coloro che vivevano nel peccato della lussuria, abbandonandosi ai comportamenti immorali di Sodoma e non mostrando alcuna intenzione di pentirsi.

Dici che parlava di noi? – chiese Salvatore a Filippo la stessa sera, mentre erano abbracciati seminudi dentro Santuzza.

No, chi glielo dovrebbe dire, scusa?

Sembrava furioso, hai visto? Gli occhi gli uscivano quasi dalla testa.

Se sapesse com'è bello amarci come ci amiamo noi, sono sicuro che cambierebbe idea! – commentò Filippo, con un sorriso.

Sebbene agosto fosse ormai agli sgoccioli, la serata era ancora calda, ventilata da una leggera brezza marina e in cielo non c'era nessuna nuvola, e ciò permetteva alla luna piena di splendere illuminando tutta la spiaggia.

I due ragazzi in quel momento erano così tranquilli che non si accorsero di non essere soli. Quando per un attimo la luna venne oscurata dall'ombra di una figura che sulle prime non riconobbero. Fu Salvatore, dopo qualche attimo di spaesamento a urlare terrorizzato:

Papà!

Le dicerie erano infatti arrivate anche all'orecchio dell'uomo che, se prima aveva cercato di non darvi troppo conto, alla fine aveva deciso di indagare per accettarsi quanta verità ci fosse nelle parole di quelli che per lui erano solo malpensanti.

Già da qualche giorno aveva visto suo figlio in compagnia di Filippo e aveva deciso, senza consultarsi con nessuno, di punire Salvatore in maniera esemplare, per salvare quantomeno l'onore della famiglia.

Era quindi andato in spiaggia con un bastone, pronto ad assalire i due ragazzi quando meno se lo aspettavano. Li aveva sentiti parlare di amore e aveva provato ribrezzo nell'immaginarli uniti insieme come due animali.

Salvatore non riuscì a dire nient'altro. Suo padre si avventò contro lui e Filippo con una forza inaudita, del tutto diversa da quella che usava quando da piccolo capitava che gli desse qualche scappellotto.

Cercò di fare scudo a Filippo con il suo corpo, ricevendo colpi di bastone sulla schiena fino a non sentirla quasi più.

Basta! Basta, si fermi! – Filippo, con le lacrime agli occhi, cercò di implorare l'uomo per cercare di placare la sua furia, ma tutto quello che ottenne fu uno sputo in faccia e altre parole cariche d'odio.

Tu! Figlio di un cane, sei tu che hai fatto ammalare Salvatore! Tu ce l'hai nel sangue come tuo zio, sei figlio di un demonio di mala razza!

L'odio non ha bisogno di armi per uccidere, può farlo con un solo sguardo.

Salvatore se ne rese conto da come lo guardava suo padre, con quegli occhi carichi di rabbia che gli spezzarono il cuore e lo fecero tremare dalla paura.

Quegli occhi gli fecero più male del bastone sulla schiena, gli entrarono nelle ossa fino a quasi spezzarle.

Dalla posizione in cui si trovava non riusciva a dimenarsi per cercare di scappare, così dovette sottostare alla furia cieca del padre finché questo non si stancò di picchiarlo. Qualcuno dei suoi colpi raggiunse anche Filippo, ma in quantità minore, tanto che alla fine riusciva ancora a muoversi, mentre Salvatore rimase tramortito senza la forza di reagire in qualsiasi modo.

E ringraziate che non lo faccio sapere a tutto il paese che razza di malati siete! Siete il nostro disonore, meritereste di morire soli come cani rognosi! Tu, non ci hai pensato nemmeno una volta a tua madre, povera donna? – chiese al figlio. – E tu, perché non te ne vai in Continente a farti curare come tuo zio? – aggiunse, rivolto a Filippo.

Prese Salvatore per il braccio e gli ordinò di rialzarsi, ma il figlio non riusciva a reggersi in piedi.

Forza, finiscila con questa sceneggiata! Alzati o ti lascio qui e non ti faccio più rientrare in casa mia.

Filippo cercò di mettersi fra Salvatore e l'uomo, ma quest'ultimo lo spinse via e si caricò il figlio sulle spalle come un sacco di patate. Salvatore cercò di dire qualcosa, ma dalla bocca gli uscirono solo alcuni rantoli sconnessi.

Se ti vedo avvicinarti ancora a mio figlio, invece del bastone uso il coltello, mi hai capito? Trovati un altro a cui appiccicare la tua malattia del demonio. – lo minacciò l'uomo, facendo poi per allontanarsi, trascinandosi dietro Salvatore.

Rimase da solo senza sapere cosa fare. Si sentiva distrutto, aveva male ovunque e si odiava perché credeva che la colpa di tutto quello che era successo fosse solo sua. Salvatore si era fatto quasi ammazzare di botte per lui, che era rimasto a guardare impotente. Le lacrime cominciarono a scorrergli per le guance senza che facesse nulla per fermarle. Avrebbe anche urlato, se non avesse corso il rischio di svegliare mezzo paese.

Si incamminò a testa bassa verso casa, zoppicando lievemente perché una delle bastonate lo aveva colpito alla gamba.

Adesso lui e Salvatore avevano bisogno di aiuto, ma non sapeva a chi rivolgersi, perché era normale che chiunque avrebbe dato ragione a don Alfio per quello che aveva fatto.

Non riusciva a capacitarsi di come l'uomo avesse scoperto tutto, considerato quanta attenzione ci avevano messo entrambi nel non farsi scoprire e nell'essere il più discreti possibile.

Era sicuro che adesso la vita per Salvatore sarebbe diventata un inferno e nemmeno il fatto di non poterlo più vedere liberamente lo faceva stare più male di questa certezza.

Arrivò a casa senza rendersene quasi conto, si spogliò e si mise a letto senza riuscire a dormire. Il giorno dopo, quando sua madre andò a svegliarlo per dirgli che era ora di andare a lavorare, le disse di non sentirsi molto bene e la pregò di riferire al fornaio che quel giorno non sarebbe andato in panificio.

Era ancora stordito per quanto era accaduto la notte precedente e non faceva altro che chiedersi come stesse Salvatore e che scusa avrebbe inventato per tutti i lividi che di certo gli sarebbero spuntati sul corpo dopo tutte le bastonate ricevute. Si chiedeva anche se avrebbe mai più voluto vederlo e se in qualche modo non lo ritenesse anche lui responsabile di tutto quel pandemonio.

Per cercare di consolarsi almeno un po', cercò di rivivere tutti i momenti felici passati insieme a Salvatore, ma tutti quei ricordi erano alterati dall'amaro epilogo della notte precedente, tanto che alla fine gli veniva sempre da piangere e si metteva a pensare ad altro per impedirselo.

Fu nel tardo pomeriggio che la porta della sua stanza si scostò e zio Totò gli chiese il permesso di entrare.

Allora, Filippo, come ti senti? – chiese con voce gioviale.

Ho mal di testa... – inventò sul momento – E forse anche la febbre...

Ti sei preso la febbre ad agosto? Fammi un po' sentire...

L'uomo gli tastò la fronte e sorrise, come se volesse rassicurarlo.

Non hai la febbre... A me puoi dirlo, volevi prenderti un giorno libero e non sapevi che scusa inventare? Giuro che non lo dico a tua madre!

No, non è così... – Filippo esitò un attimo – Zio, se ti dico una cosa che deve restare segreta, mi giuri che non la dici a nessuno?

Sulla povera anima di mia mamma. – l'altro si mise la mano destra sul cuore per promettere solennemente di restare in silenzio.

Forse di lui poteva fidarsi. Del resto aveva vissuto sulla sua pelle la stessa paura che adesso stava attanagliando lui e non l'avrebbe certo condannato per quello che provava.

Hai presente Salvatore, il figlio di Don Alfio u piscaturi3?

Sì, quello che sta sempre con te e i tuoi amici, giusto?

Filippo annuì, fermandosi un attimo. Non sapeva esattamente come andare avanti, ma ormai aveva buttato la pietra, quindi ritirare la mano era totalmente inutile.

Io e lui... ecco, zio, io mi sono ammalato. Ho cominciato a guardarlo in modo diverso da come dovrei guardare un maschio. Io e lui ci siamo innamorati.

La parola innamorati pesava come un macigno sul petto, sembrava una condanna, piuttosto che la cosa bella che avrebbe dovuto essere.

Siete come a me? – domandò zio Totò, non senza una punta di sorpresa nella voce.

Sì... Prima ero solo io, poi probabilmente gliel'ho appiccicato, non lo so... – aveva di nuovo voglia di piangere, ma cercò di trattenersi – Salvatore mi ha detto che gli piacevo anche io e così ci siamo baciati. E andavamo ogni sera in spiaggia, abbiamo anche fatto... quella cosa lì. – si sentì arrossire a queste parole – Solo che...

Che? Avanti, continua! – lo incitò l'uomo.

Don Alfio ci ha visti ieri sera e ha riempito Salvatore di bastonate. E ha detto che non dobbiamo più vederci. E adesso ho paura per Salvatore, non so come sta, ieri era mezzo svenuto per le botte…

Le labbra dell'uomo si incresparono in una smorfia di preoccupazione.

Non è facile, Filippo. Vi siete cacciati in un bel guaio.

Se lo sanno in paese finisce che ci ammazzano veramente... – commentò il ragazzo, abbassando lo sguardo.

Non glielo permetterò, stai tranquillo. Non dovete passare quello che ho passato io. Troveremo il modo di fare qualcosa, te lo prometto.

Filippo si sentì come rassicurato da quelle parole, specialmente quando lo zio gli sorrise rassicurante e gli scompigliò i capelli con una carezza.

Adesso la cosa importante è sapere come sta Salvatore. – decretò poi, tornando di nuovo serio.

E come facciamo? Se vado a casa sua, suo padre mi ammazza.

Facciamo così: vado a vedere io se c'è qualcuno con lui, casomai ti chiamo e ti aspetto fuori, va bene? Ce la fai ad alzarti?

Era ancora dolorante, ma niente che non gli permettesse di camminare. Rimase impaziente ad aspettare che zio Totò gli facesse un segnale dall'angolo della strada. Aveva paura che le cose non sarebbero andate come avevano progettato e tirò un sospiro di sollievo quando invece l'uomo gli diede il via libera.

Vuoi che ti aspetto qui fuori e ti faccio un segnale se arriva qualcuno? – gli chiese lo zio quando lo raggiunse.

No, no, va bene così, zio. Se adesso non c'è nessuno, di sicuro non tornano per un paio d'ore.

Come vuoi. Penso che andrò a fare una passeggiata, allora. Ci vediamo a casa più tardi! Ho una certa questione da risolvere...

Il sospetto che Salvatore potesse essere talmente malconcio dal non riuscire ad aprirgli, gli balenò in mente un attimo dopo aver bussato, tanto che rimase col fiato sospeso fino a che non udì la sua voce, debolissima, annunciare il suo arrivo.

Gli bastò incrociare il suo sguardo per un attimo per capire che Salvatore non ce l'aveva affatto con lui per quello che era successo e che anzi era felice di vederlo. Aveva qualche livido sul volto e sulle braccia, ma riuscì comunque a sorridergli lievemente.

Filippo, ma sei pazzo? Se mio padre ti trova qui ci ammazza.

Non mi trova, stai tranquillo! Tua madre e i tuoi fratelli dove sono?

Sono andati da mia nonna e restano lì fino all'ora di cena! – rispose Salvatore – Mamma non sa quello che è successo stanotte, mio padre le ha detto che mi hanno malmenato dei ladri che ho incontrato per strada...

Filippo insistette perché Salvatore si rimettesse a letto, dove era stato tutto il giorno, prese una sedia e si sedette accanto a lui.

Mi dispiace, Salvatore. È tutta colpa mia! – provò a dire dopo qualche minuto, stringendo i pugni sulle ginocchia.

Non è colpa tua, Filippo. Non c'è niente di male in noi, non te lo dimenticare. Se loro non vogliono capirlo, non sono affari nostri!

Cercò di mettersi a sedere, ma non riuscì a trattenere una smorfia di dolore. Si allungò per stringere una mano di Filippo.

Dici che in paese lo sapranno tutti? – chiese quest'ultimo, lievemente preoccupato.

Non lo so, ma non importa, te l'ho detto.

Come facciamo adesso? Io non voglio essere costretto a non vederti più.

Salvatore chiuse gli occhi, ci pensò su un attimo e poi rispose, con lo stesso tono di voce che usava quando cominciava a raccontare le sue storie:

Prendiamo Santuzza e andiamocene, Filippo. Ci portiamo una vastedda di pane e ce la facciamo bastare per tutto il viaggio.

E dove andiamo?

Non lo so. Ci sono le stelle, le seguiamo come fanno i marinai e da qualche parte arriviamo. E poi c'è il mare, ci porta via lui, non abbiamo manco bisogno di remare.

Diventiamo pirati! – scherzò Filippo.

Non è una cattiva idea, possiamo prendere il largo e rapinare le navi mercantili, solo che forse Santuzza non è adatta! Abbiamo bisogno di un galeone vero! – stette al gioco Salvatore.

Filippo non poteva fare altro che ammirare l'ottimismo col quale parlava Salvatore: forse lo faceva per non angosciarlo, forse davvero pensava di poter rendere tutto semplice a parole. Entrambi sapevano a quali difficoltà sarebbero andati incontro se avessero deciso di rimanere ad Acitrezza e vivere il loro amore clandestinamente, ma dei due Salvatore sembrava quello che, nonostante lo scontro col padre, non voleva lasciarsi abbattere dalle difficoltà.

Chiacchierarono del più e del meno fino alle sette, quando Salvatore disse a Filippo che era meglio che andasse via se non voleva correre il rischio che qualcuno lo vedesse.

Torni a trovarmi domani? – gli chiese, sporgendosi verso di lui a baciarlo sulle labbra.

Torno domani appena posso e se sei da solo! – si mise la mano sul cuore, come a giurare solennemente di mantenere la sua promessa.

Prima di scomparire oltre la porta della stanza, Filippo si girò verso di lui.

Salvatore? – pronunciò il suo nome sorridendo lievemente.

Sì?

È bello essere innamorato di te, non importa quello che pensano gli altri!

Neanche dopo cinque minuti che era tornato a casa, lo raggiunse anche zio Totò, con l'aria di chi aveva grosse novità da annunciare.

Filippo, dimmi una cosa... – disse con fare misterioso – Tu ci vuoi davvero bene a Salvatore?

Certo che sì, zio. Io sono innamorato di lui.

Bene, mi fa piacere. Quando torno a Roma, se volete, potete venire con me. Sono riuscito a convincere suo padre che è la cosa migliore per tutti e due!

 

***

 

La passeggiata di zio Totò non era senza meta: già mentre Filippo gli raccontava della reazione di Don Alfio quando l'aveva scoperto con Salvatore, in mente gli erano tornati vecchi ricordi che credeva di aver cancellato, ma che invece erano solo nascosti in fondo al cuore.

Un tempo lui e Don Alfio erano stati amici almeno quanto lo erano adesso Filippo e Salvatore, ma poi l'omosessualità di zio Totò aveva cambiato drasticamente le cose fra di loro, al punto che quando era partito per Roma, l'amico non era nemmeno andato a salutarlo.

Zio Totò sapeva che, anche a distanza di vent'anni, Don Alfio non aveva certo dimenticato il ribrezzo provato nell'apprendere le sue inclinazioni, ma era andato lo stesso a parlargli nella speranza che, almeno per amore del figlio, lo avrebbe ascoltato.

Lo aveva trovato al bar del paese, a giocare a carte con degli amici e, molto gentilmente, gli aveva chiesto se potevano andare a parlare da soli da qualche parte.

Io non ci parlo con quelli come te. – era stata la risposta burbera.

L'uomo si era convinto solo quando zio Totò gli aveva detto che si trattava di una cosa che riguardava suo figlio, e solo allora lo aveva seguito fino al porticciolo dove avevano potuto parlare con tranquillità.

So di tuo figlio e mio nipote. – aveva esordito zio Totò.

Cosa gli hai fatto per farlo diventare come te? – lo aveva aggredito Don Alfio – E perché doveva ittariccilla4 a mio figlio?

Tentare di spiegargli che Filippo e Salvatore erano semplicemente innamorati sarebbe stato inutile, e non rientrava nemmeno nel piano di zio Totò che negli anni aveva imparato a sue spese che non esisteva peggior sordo di quello che non voleva sentire.

Mio nipote non ha nessuna colpa di quello che ha. Succede, ecco tutto. Ed è successo anche a tuo figlio. – aveva replicato pacatamente.

Mio figlio non è come quel... come quell'animale. – era stato il commento sprezzante di Don Alfio – Spero che la lezione che gli ho dato gli sia bastata per raddrizzarsi. E tua sorella dovrebbe fare lo stesso con Filippo, vedi come gli passano certi bollenti spiriti!

Non penso basterà, anche mio padre la pensava allo stesso modo. Poi però sono andato a Roma...

Mentire era stata la cosa più difficile: non avrebbe mai voluto rinnegare ciò che ancora era e che mai sarebbe cambiato della sua personalità, ma quella bugia era stata necessaria per sistemare le cose.

A Roma ci sono i dottori, quelli veri, che possono farti guarire.

A quelle parole il padre di Salvatore aveva iniziato davvero ad essere interessato al suo discorso.

Vuoi dire che tu...

Aveva la faccia di chi è felice di sapere che qualcuno, dopo aver passato un brutto periodo legato ad una malattia, era riuscito a sconfiggerla, e quell'espressione ferì profondamente zio Totò, il cui pensiero era andato subito a Gianni, l'uomo con cui viveva a Roma.

Era profondamente ingiusto dover nascondere come stavano le cose, ma tanto, ad Acitrezza nessuno sarebbe mai venuto a conoscenza della verità, ed era piuttosto probabile che, saputo della sua guarigione, tutti sarebbero tornati a rivolgersi a lui come ad una persona normale.

Sì, ci sono diversi medici che si occupano di queste cose. Basta parlare un po' con loro. Se vuoi posso occuparmi io di tuo figlio.

Aveva trattenuto il fiato, credendo che quella proposta fosse fin troppo esagerata. Ma, evidentemente, per Don Alfio ciò che contava di più era liberare suo figlio dalla contaminazione della malattia, al punto da accettare su due piedi di affidarlo ad un uomo con il quale non parlava da vent'anni.

Davvero lo faresti?

Aveva annuito con aria seria.

Certo. Al giorno d'oggi la medicina fa davvero miracoli. Lo farò per mio nipote e, se me lo permetterai, anche per tuo figlio. Inizialmente non capirà, ma poi saprà che lo stai facendo solo per il suo bene.

Probabilmente chiunque si sarebbe reso conto che quel discorso non aveva molto senso, ma a Don Alfio, con la tipica mentalità di chi crede di sapere tutto del mondo anche se non è mai andato fuori dal suo paesino di mare, pareva che tutto quadrasse perfettamente.

Salvatore era malato, e quindi aveva bisogno di essere curato.

Pareva quasi felice di sapere che l'onore di suo figlio poteva essere salvato, in qualche modo, e aveva persino ringraziato zio Totò per essersi offerto di pagare le eventuali spese da sostenere.

Nemmeno Filippo riusciva a credere che Don Alfio avesse ceduto così facilmente all'invito di zio Totò. Anzi, pure a lui venne il dubbio che l'uomo avesse davvero in mente di portare lui e Salvatore da qualche medico.

Zio, ma veramente vuoi che ci curiamo? – chiese, quando questi terminò il suo racconto. La sua voce era un po' delusa, come se si sentisse tradito dall'unica persona che poteva comprenderlo.

L'uomo scoppiò a ridere e gli diede un buffetto sulla guancia.

Ma certo che no, scimunito! – commentò prendendolo bonariamente in giro – Era tutta una barzelletta che ho raccontato a Don Alfio per convincerlo a far venire Salvatore con noi! Sempre se tu vuoi venire!

Filippo si sentì arrossire per la sua ingenuità, dettata dal fatto che ancora non avesse ben chiaro di chi potesse fidarsi e di chi no.

Sarebbe... sarebbe bello. – ammise – così io e Salvatore...

In una grande città come Roma sarebbe stato tutto molto diverso e, nonostante l'idea di lasciare il suo paese e di non rivedere più sua madre e i suoi amici gli straziasse il cuore, la cosa lo affascinava moltissimo.

Dobbiamo dirlo alla mamma, vero? Di me e Salvatore, intendo.

In tutti quei mesi Filippo non aveva fatto altro che pensare a come sua madre avrebbe preso la confessione della sua omosessualità. Dentro di sé sperava che non avrebbe avuto la stessa reazione del padre di Salvatore, perché aveva visto che con zio Totò si comportava in maniera normale, come se per lei non fosse un problema la sua diversità.

Eppure aveva lo stesso un po' di timore e avrebbe voluto rimandare il più possibile il momento della verità.

Sì, glielo dobbiamo dire prima di andarcene, altrimenti con che scusa ti porto via con me?

A cena Filippo non riuscì a mangiare nulla per l'eccitazione e la tensione che gli annodavano lo stomaco e la notte non riuscì nemmeno a dormire, aspettando con impazienza che si facesse giorno.

Non appena vide il cielo schiarirsi, si affacciò alla finestra per aspettare di vedere il padre di Salvatore andare a lavorare e sua madre uscire per fare la spesa al mercato e poi si precipitò in strada andando a tempestare la sua porta di pugni impazienti.

Il cuore gli batteva forte, ma stavolta per la felicità.

Ehi, Filippo, che succede? – gli chiese Salvatore vedendolo così contento.

Filippo lo abbracciò stringendolo forte e poi lo baciò sulle labbra, incurante del fatto che fossero in mezzo alla strada.

Vieni dentro, se ci vede qualcuno siamo nei guai! – disse Salvatore con voce severa, afferrandolo per un braccio e facendolo entrare in casa.

Non ci fa nulla se ci vedono, Salvatore. Zio Totò ci porta via, non abbiamo bisogno di andarcene su Santuzza.

In quel momento a Filippo sembrò che zio Totò fosse quel mare di cui Salvatore aveva parlato il giorno prima, e ogni paura venne spazzata via man mano che raccontava al ragazzo tutto quello che l'uomo aveva intenzione di fare per loro.

Zio Totò era il mare che li avrebbe condotti dove finalmente sarebbero stati al sicuro.

 

***

 

A Roma non c'era il mare, e vedere le stelle era più difficile, perché si confondevano con le luci artificiali dei lampioni, ma andava bene così. Salvatore e Filippo passavano ore rannicchiati contro la ringhiera del minuscolo balcone della casa di zio Totò col naso insù a cercare le stesse stelle che avevano visto quando stavano accoccolati dentro Santuzza, giù in Sicilia.

Andarsene non era stato così facile come avevano creduto inizialmente.

Filippo aveva pianto per ore fra le braccia della madre dopo averle confessato la sua storia con Salvatore, e non avrebbe mai voluto sciogliersi dal suo abbraccio che lo faceva sentire protetto.

Salvatore invece aveva ricevuto dal padre l'ordine di non raccontare a sua madre il motivo della sua partenza, perché Don Alfio voleva spiegare personalmente alla moglie che il figlio era malato e rassicurarla sulla sua sicura guarigione.

Avevano viaggiato quindici ore in treno prima di arrivare a Roma.

Era stato un viaggio strano, malinconico, entrambi non avevano aperto bocca mentre zio Totò raccontava loro quanto fosse differente Roma da qualsiasi posto avessero visto prima di allora nella loro vita.

Avevano cercato di farsi forza tenendosi timidamente per mano quando nessuno poteva vederli e dormendo schiacciati nella stessa cuccetta, respirando ognuno l'odore dell'altro per non sentirsi troppo sperduti.

Una volta arrivati a Roma, le loro vite erano cambiate totalmente: zio Totò e il suo compagno li avevano iscritti alla scuola superiore, insistendo perché prendessero il diploma anche se con qualche anno di ritardo.

E così, mentre il padre di Salvatore, giù in Sicilia, credeva che il figlio si stesse curando, Salvatore studiava con profitto e finalmente iniziava ad avere la possibilità di trascrivere tutte le storie che aveva raccontato a Filippo nel corso degli anni.

Riempiva quaderni su quaderni che Filippo divorava avidamente, dimostrandosi un lettore appassionato e spingendolo a scrivere sempre di più. Solo a vent'anni ebbe il coraggio di scrivere un vero romanzo, che venne pubblicato da un piccolo editore a tiratura limitata, ma che per lui fu comunque un grande successo personale.

A volte entrambi avevano nostalgia di casa, specialmente Filippo, mentre per Salvatore era stato inizialmente un po' difficile riprendersi dallo shock di aver dovuto affrontare le ire di un padre che lo considerava un malato della peggior specie.

Sapevano che con molta probabilità tutti in paese erano a conoscenza della loro storia, perché la loro improvvisa fuga aveva di certo confermato le voci che circolavano sul loro conto, ma cercavano di non curarsene più di tanto.

C'era voluto tanto tempo, ma le ferite si erano rimarginate, anche grazie all'amore di Filippo e all'affetto di zio Totò e di zio Gianni, che trattavano entrambi come se fossero stati loro figli.

Dopo il diploma Salvatore, che aveva sempre amato studiare, decise di iscriversi all'università, lavorando in un bar tutte le sere per potersi permettere di pagare le tasse e i libri, mentre Filippo entrò a far parte di una squadra di calcio professionista che prima gli garantì un posto di lavoro come giocatore, e poi gli propose di allenare la squadra di bambini gestita dalla stessa società.

Passarono anni, precisamente dodici, prima che rimettessero piede in Sicilia.

In quell'occasione – il padre di Salvatore era morto anche lui durante una tempesta in mare, come il padre di Filippo – Salvatore confessò alla madre il vero motivo per cui era andato a vivere a Roma e le presentò Filippo come suo compagno e non più soltanto come l'amico e compagno di giochi di una vita.

Salvatore ebbe finalmente l'opportunità di spiegarle che non poteva esserci guarigione per malattie che non esistevano e le chiese perdono per averle mentito per tutti quegli anni, ritrovando così il calore di un abbraccio materno che tanto a lungo gli era mancato.

Passarono anni, ma le stelle erano sempre lì, anche se a Roma non brillavano come ad Acitrezza.

Ogni anno, in estate, gli angeli continuavano a giocare fra di loro scivolando giù per il cielo sulle loro stelle, ma Filippo e Salvatore avevano ormai la certezza che, anche se ne avessero scorta una per caso, non avrebbero avuto più alcun desiderio da esprimere perché avevano tutto ciò che potevano desiderare.

 

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1I fatti in siciliano sono racconti, spesso di natura popolare, quasi mitica.

2Uomo eretico

3Il pescatore.

4In siciliano ittariccilla è un'espressione usata per intendere il gettare il malocchio su qualcuno.

 

 

 

 

Questa storia partecipa al contest "A Night in Wonderland" organizzato da Faire Aire, The Corpse Bridge ed Emma Bennet.

Considerato il contesto sociale in cui si svolge l'azione, molti dialoghi sono stati resi volutamente in italiano sgrammaticato (in realtà sarebbe più corretto parlare di italiano regionale, con traduzione letterale dal siciliano di alcune espressioni tipiche del parlato).

Credo di aver già sproloquiato abbastanza nella storia (che è lunghissima per i miei standard O__ò) quindi vi lascio solo il video da cui è nata l'ispirazione per Filippo e Salvatore, un video che trovate qui e che col clima della storia non ha nulla a che fare XD (ispirazione ballerina *rolls*). Un po' il merito va anche ad un vecchio prompt della challenge "Let's ship again" organizzata ad aprile, "sulla stessa barca". Insomma, è una storia che dovevo scrivere da tantissimo tempo *rolls*

Per sproloqui e aggiornamenti vari vi invito a mipiacciare la pagina Il rifugio delle Stelle e spero di rivedervi presto in qualche altra mia storia, se questa vi è piaciuta ^^

Aika.

 

EDIT: questa storia si è classificata prima al contest di cui sopra, ecco il bannerino <3

 

 

 

   
 
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