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Autore: Malvagiuo    17/08/2012    3 recensioni
Chesterton, nel cuore della Cornovaglia, è da centinaia di anni il feudo dell'antica famiglia dei Lonefield. Il villaggio e i suoi campi hanno goduto per decenni di quiete e prosperità, finché qualcosa di terribile ha sconvolto l'esistenza dei suoi abitanti. Diversi suoi cittadini hanno iniziato a scomparire nel nulla. Vani sono stati i tentativi di trovare una spiegazione, inutile ogni ricerca. Finché, una notte, l'orrore si abbatte su Chesterton: coloro che erano scomparsi riappaiono in forma di corpi senza vita, mossi da una misteriosa e malefica volontà, sconvolgendo l'esistenza di quello che era il pacifico villaggio. Spetterà al giovane e poco ortodosso professor Leyton svelare il mistero di Chesterton, che egli considera frutto di mere superstizioni contadine. Ma ciò che si troverà ad affrontare va ben oltre l'immaginazione di qualsiasi sostenitore della logica.
Genere: Horror, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A causa di uno scossone imprevisto alla carrozza, Harvey Leyton si morse la lingua. Contenere la sequenza di fantasiosi improperi che gli suggeriva la mente, sempre arguta in questi casi, si rivelò un’impresa difficile. Ma il dottore seppe contenersi, anche se non c’era nessun altro passeggero che avrebbe potuto scandalizzarsi per la sua mancanza di contegno.
Non c’era molto da osservare fuori dal finestrino. Il grigio spettacolo della campagna inglese lo aveva stancato da diverse ore. Quel piattume generale lo annoiava quasi quanto le dissertazioni del professor Holville sui riti di accoppiamento delle tribù indigene nell’arcipelago di Palau. Un argomento che di per sé non aveva nulla di noioso, ma che l’incartapecorito luminare di antropologia di Cambridge sapeva rendere tedioso fino al taglio delle vene.
“Ancora mi chiedo perché ho accettato quel maledetto invito.”
In realtà, Leyton sapeva bene perché lo aveva fatto. Era qualcosa che non ammetteva nemmeno con se stesso. In cuor proprio si rendeva conto di temere le minacce velate assai più di quelle dirette. Un nemico allo scoperto è un nemico che puoi osservare e valutare, che puoi trovare il modo di combattere e sconfiggere. Un nemico che si atteggia ad amico e cela le sue vere intenzioni, è di solito quello che riesce a stiparti nella tomba.
“Quincey Lonefield... se c’è un uomo al mondo che vorrebbe avere questo piacere, è senz’altro lui.”
Il conte di Chesterton, tre anni prima, aveva inviato a Sua Maestà in persona una richiesta ufficiale, firmata da altri sette prestigiosi membri dell’aristocrazia britannica, affinché il dottor Leyton venisse sollevato dal suo incarico di professore a Cambridge e radiato dall’ordine dei medici. Erano stati dei brutti giorni, quelli. Leyton si era già preparato psicologicamente alla sconfitta. Sapeva che le sue ricerche avrebbero causato sgomento e malumori nella comunità scientifica – e non solo –, ma era altrettanto certo della fondatezza delle sue opinioni. Il rettore dell’università e diversi accademici reali, fortunatamente, avevano riconosciuto il valore degli studi che aveva intrapreso, e alla fine la questione si era risolta con un compromesso. Lonefield aveva rinunciato alla sua pretesa di annichilire Leyton e Leyton aveva rinunciato a proseguire le ricerche e a pubblicare qualunque novità inerente a esse. Sette anni di fatica ripagati con l’obbligo al silenzio. Un sacrificio accettabile, in cambio di una reputazione e di una poltrona intatte.
Che cos’altro poteva volere Lonefield, ora? Aveva rispettato la sua parte dell’accordo. Il conte intendeva forse attirarlo nella sua tana per distruggere la sua reputazione con qualche elaborata macchinazione? Improbabile. Un uomo di tale rango disponeva di ben altre risorse per annientarlo.
Leyton trascorse quasi tutto il viaggio ad arrovellarsi sui perché e sui per come di quella gita imprevista. Tanto che quando arrivò a destinazione, si sorprese che il tragitto fosse stato così breve. Lonefield Hall era magnifica. Fuori porta, ma magnifica. Questo, Harvey Leyton doveva concederlo al suo enigmatico anfitrione. Una sontuosa villa restaurata in perfetto stile vittoriano, dalla facciata bianca che appariva grigiastra per via del cielo plumbeo. Cipressi e platani adornavano il vialetto che conduceva all’entrata. Ettari di prati circondavano la magione, e Leyton non si sarebbe stupito se le centinaia di acri di brughiera incolta tutt’intorno fossero parte integrante dei domini di Lonefield. Una leggera brezza da sud trasportava un lieve aroma salmastro, sospinto fin lì dal mare che distava poche leghe.
Quando la carrozza entrò nel vialetto ricoperto di ghiaia, scricchiolando rumorosamente, Leyton si rese conto di non aver bisogno di essere annunciato al padrone di casa. Non appena sceso dal mezzo, un servo in livrea lo invitò a entrare, mentre altri due sopraggiungevano dalla casa per prendere i suoi bagagli.
«Sua signoria sarà lieto di ospitarvi sotto il suo tetto. Non vedeva l’ora che arrivaste.»
“Un po’ come il lupo che non vede l’ora che l’agnello si infili nella sua tana. Ma io non sono un agnello, Lonefield, e lo imparerai presto.”
Attraversando il maestoso ingresso, Leyton ancora non aveva deciso che atteggiamento tenere con il padrone di casa. Riservato? Cordiale? Apertamente sospettoso? Nessuna opzione lo convinceva pienamente. Si risolse ad affidarsi all’estro del momento.
L’illuminazione elettrica dava al corridoio un aspetto dorato, e il prezioso tappeto rosso srotolato sul pavimento di parquet elevava Lonefield Hall al rango di dimora da re più che da conti. I ritratti a olio degli avi e le costosissime modanature in ebano verniciato rafforzavano tale impressione. La ricchezza dei Lonefield trasudava da ogni angolo del passaggio. Il primo impatto con il regno della famiglia era stato accuratamente studiato per fornire a ogni visitatore un’impressione di potenza, maestosità, opulenza e superiorità. Perfino Harvey Leyton si sentì, per alcuni istanti, piccolo e insignificante di fronte a tanta grandezza.
Il salone era venti volte più ampio del corridoio, il che significava che il lusso era amplificato di venti volte. Candelabri d’argento, tavolini lucidati in legno di cedro, tappeti ricamati, arazzi, quadri con cornici d’oro, pavimento in marmo e due caminetti in pietra ai lati opposti della stanza arricchivano quello che, senza dubbio, era il più meraviglioso luogo della Cornovaglia. Dodici strette finestre a sesto acuto si aprivano sull’immensa parete di fronte al corridoio d’ingresso, offrendo un’ampia vista del paesaggio collinare vasto e privo di insediamenti umani, al momento ottenebrato dal crepuscolo. Una visione davvero stordente, persino per gli occhi di Harvey Leyton.
Il salone era vuoto.
Leyton ne fu convinto finché una voce non lo chiamò per nome. L’eco rimbombò per l’enorme salone, così che fu impossibile per il professore discernere il punto esatto dove il suono si era originato.
Fu il servo in livrea a districare l’enigma, conducendo Leyton dinanzi a uno dei focolari accesi. Una grande poltrona in pelle, dallo schienale altissimo, era rivolta verso le fiamme. Solo avvicinandosi Leyton comprese che qualcuno vi era seduto, la stessa persona che lo aveva chiamato. E ormai non aveva più dubbi su a chi appartenesse quella voce.
«Vostra grazia.»
«Dottor Leyton. Benvenuto a Chesterton.»
Quincey T. Lonefield si alzò con sussiego. In mano reggeva un calice dove ondeggiava un ultimo sorso di brandy. Il conte di Chesterton indossava una vestaglia di flanella squisitamente ricamata con filo dorato e intessuta di stoffa pregiata. Il volto era proprio come lo ricordava: duro e squadrato come una scultura nel legno, labbra talmente rigide che parevano non essersi mai increspate in un sorriso, occhi glaciali perennemente socchiusi.
«Non mi sembrate in tenuta da ricevimento, vostra grazia» fece notare Leyton.
«Già, è così. Forse dipende dal fatto che non ci sarà nessun ricevimento.»
Harvey Leyton lo fissò negli occhi. Colse un’ombra di divertimento nello sguardo glaciale del conte.
«Che significa questo?»
«Suvvia, non vi allarmate. Lasciate che vi spieghi con calma e comodamente. John, una sedia e un calice di brandy per il nostro ospite.»
John obbedì, e in men che non si dica Leyton si sedette su una comoda sedia imbottita e ricevette un bicchiere di liquore nella mano. Anche il conte tornò a sedersi.
«Spero che non stiate pensando che vi abbia giocato un brutto scherzo, facendovi venire fin qui da Cambridge per nulla. Sapete bene che gli scherzi non sono nella natura dei Lonefield» disse il conte, sorseggiando l’ultima goccia di brandy.
Leyton giocherellò con il proprio calice tra le mani. Non aveva sete. Attendeva il resto.
«Mi perdonerete, spero, la messinscena del ricevimento. Sono stato costretto a usare questa scusa perché dovevo esser certo di contare sulla vostra riservatezza. Se vi avessi semplicemente chiesto di venire, considerando i nostri precedenti rapporti, vi sareste insospettito e avreste potuto farne parola con qualcuno» disse, appoggiando il calice vuoto sul tavolino affianco. «Con la storia del ricevimento, la richiesta di riservatezza era giustificata e le probabilità che voi manteneste il silenzio erano ragionevolmente alte. Inoltre, se qualcuno avesse malauguratamente letto la lettera, non si sarebbe insospettito più di tanto. Siete pur sempre una personalità famosa, in Inghilterra, e ovunque vale la pena di invitarvi.»
«Come sapevate che avrei accettato di venire?»
Per un incredibile istante, le labbra di Lonefield quasi assunsero la forma di un mezzo sorriso.
«So che mi temete, Leyton. E a ragione. Non avreste osato offendermi rifiutando il mio invito.»
Con sommo malincuore, Leyton riconobbe che aveva ragione.
«Posso chiedervi perché sono qui, allora?»
Leyton cominciava a spazientirsi. Quel giochetto di superiorità lo irritava. L’inferiorità è una sensazione piuttosto sgradevole in generale, ma suscitarla in Harvey Leyton era il massimo affronto che il dottore potesse concepire.
L’ombra di mezzo sorriso si dissolse dal volto di Lonefield, più rapida di quando era apparsa.
«Mi rincresce ammetterlo, ma ho bisogno di voi. Necessito della vostra... esperienza.»
«La mia esperienza?» Leyton era francamente sorpreso. Stentava a credere che un uomo potente come Quincey T. Lonefield, tra tutti i luminari dell’impero di Sua Maestà, intendesse avvalersi proprio del suo aiuto.
«Non c’è altro uomo che io conosca che possa fornirmi un’assistenza valida quanto la vostra. E sapete bene quanto mi costi dir questo.»
In un istante, Leyton comprese. Ma la comprensione di ciò che Lonefield gli stava chiedendo non diminuiva il grado di assurdità di quella conversazione.
«Nella mia terra è in corso il focolaio di una strana epidemia. Un morbo orrendo che nessuno conosce meglio di voi.»
Leyton sgranò gli occhi. Non poteva dire sul serio.
«Quello che state suggerendo è impossibile» sussurrò il dottore.
«Vorrei che lo fosse, Leyton» ribatté Lonefield. «Ma non è così. Ho visto con i miei occhi ciò di cui voi parlavate tre anni fa. L’ho visto proprio qui, a pochi passi dalla mia casa».
Quincey T. Lonefield prese un lungo respiro, come se chiamasse a raccolta tutto il proprio coraggio per pronunciare una verità inconfessabile.
«Ho visto i morti che camminano.»
 
   
 
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