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Autore: Narcis    20/08/2012    1 recensioni
- Smettila di seguirmi! Vattene! -
- Fjandinn! -
Il bambino aprì bocca, avvicinandosi di un altro misero passetto al norvegese, puntandogli un dito piccolo e paffuto contro.
Kristian non seppe se sbottargli a ridere in faccia o girarsi e riprendere il proprio cammino, cercando di far finta di nulla.
Ma, purtroppo per il piccolo sconosciuto, era arrabbiato. Molto, molto arrabbiato. Anzi, direi più irritato.
Quando una zanzara ti gira intorno, ronzandoti alle orecchie, cerchi di mandarla via; ma se questa è stupida e non ti dà retta, di certo non fai finta di niente. E allora cosa fai?
La schiacci.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Islanda, Norvegia
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Erano ormai passati sì e no tre giorni da quando le navi vichinghe erano approdate sulle coste di quella terra sconosciuta ed inospitale, che a quanto dicevano i racconti e le promesse di abbondanti territori da poter colonizzare sembrava essere una vera e propria isola, dalle medie dimensioni.

A Kristian1, quel posto, già non piaceva.




"Terra dei ghiacci", l'avevano rinominata, proprio a causa delle intemperie fredde e dure che s'abbattevano sul luogo, oltre al fatto che, già grazie ad una prima perlustrazione, si poteva subito notare essere coperta in gran parte da enormi strati di neve solidificata e acqua dalla temperatura talmente bassa da far rabbrividire perfino uno di quei grandi cetacei che non s'avvedono dal nuotare in qualsiasi tipo di mare e oceano, anche il più terribile.
Roba che, a confronto, la Norvegia era un posto caldo ed accogliente come la penisola iberica.
Senza contare che, proprio in quel periodo, era il mese di Thorri2, ergo era già un miracolo divino se i norvegesi erano arrivati fin lì; e dovevano ringraziare abbondantemente il grande Odino con sacrifici animali e ballate rallegranti per chissà quante notti prima di sentirsi in pace con sé stessi ed avere la consapevolezza d'aver ripagato il grande dio di tutte le buone mandate in terra.


La brughiera di quell'isola sperduta si estendeva per chissà ancora quante miglia. La neve che cadeva incessantemente copriva con un bianco velo ogni cosa, divorava quei rarissimi alberi con tutte le loro radici, rivestiva le colline e le montagne di eleganti vesti pregiate fatte solo del candore più puro, imbiancava l'atmosfera ed opacizzava la vista, già abbastanza difficoltosa in quelle lande dall'orizzonte infinito e la meta imprevedibile.
La poca erba che puntellava il terreno era ormai diventata un ricordo estivo, e la sua presenza era percepibile solo se si affondavano i piedi sotto le chiome spoglie degli alberi o tra quei piccoli rovi imbiancati, laddove la neve era arrivata con un bel po' di difficoltà, ricoprendo il tutto solo con qualche centimetro di manto niveo. L'impronta rimaneva impressa nella neve, e da sotto di essa sbucava trionfante e ingorda di luce la terra, aspra e scura, nera, che mostrava i residui dei fili erbacei ormai ingialliti e bagnati, morti, che non attendevano nient'altro se non le calendigiugno3 per decomporsi del tutto e lasciar posto alle successive generazioni erbose, sicuramente più lussureggianti e verdeggianti.
Il cielo plumbeo oscurava il sole fin da quando i norvegesi erano arrivati in quel luogo; o forse erano stati proprio loro a portare le nubi, chi lo sa. Enormi fazzoletti grigi carichi di fiocchi di neve bianchi rattoppavano il firmamento, eclissavano il sole, scrollavano vento e ghiaccio sulla terra, prepotenti e beffardi come bambini che fanno dispetti ad altri coetanei indifesi e incapaci di muoversi.



Era tutto bianco.
La terra era bianca.
Le colline erano bianche.
Il cielo era bianco.
L'aria era bianca.



Roba da far impazzire chiunque, facendo venire l'esaurimento nervoso, ritrovandosi così a gattonare disperatamente nella difficoltosa speranza di trovare al più presto terra buona, o almeno un riparo, nonostante la profonda consapevolezza di avventurarsi in un territorio disabitato.
Neve in basso, neve in alto; ovunque.



Gli esaurimenti nervosi erano roba da donnicciole d'occidente.
Non di certo da grandi, feroci, possenti vichinghi capaci di affrontare il più temibile dei draghi, scampare al Ragnarök4 apocalittico, cavalcare onde marine alte cinquemila piedi, solcare gli oceani più profondi e popolati dalle creature più mostruose e misteriose, assediare impropriamente terre per farne un proprio basamento.

Kristian era un tipo forte.
Un ragazzo solitario, silenzioso, calmo di norma; o almeno fino a quando non gli si dava in mano un'ascia o gli s'annunciava una guerra o una battaglia da affrontare, e allora sì che erano cavoli amari per tutti. Perfino alle gare di bevuta non voleva farsi sconfiggere, tanto che arrivava ad avere i conati di vomito per tutto il vino e la birra che ingeriva nel proprio corpo, che sebbene forzuto era talmente esile in apparenza da dare l'impressione che con un colpo troppo forte si sarebbe potuto spezzare come lo stelo d'un fiore piegato da una folata d'aria.


Il vento che tirava quel giorno, però, non riusciva nemmeno un po' a fermarlo.

Avanzava lentamente, affondando uno per volta i piedi coperti dalle calzature in pelle di alce e pelliccia di orso, legati da spaghi fatti di code di cavallo. Il suo passo era tremante a causa del gelo che lo avvolgeva completamente, ma comunque deciso a non fermarsi mai, nemmeno davanti ad un bivio.
Era leggermente chino in avanti, teneva un braccio piegato a sfiorar la propria fronte, nel tentativo di proteggersi almeno un po' il viso, in particolare gli occhi, simili a due tanzaniti splendenti, che teneva talmente socchiusi da sembrare due semplici striscioline color indaco, che nella purezza di quel luogo niveo si confondevano col restante biancore.
Di puro, però, quel luogo aveva ben poco, se non il suolo stesso, intoccato da stranieri dell'est almeno fino a pochi giorni prima.

Il vento ululava tra le montagne, cozzava contro il corpo del vichingo, smuovendogli le vesti, rendendogli ancora più difficoltosa la camminata.
Imprecava a bassa voce, lui, riguardandosi però dal pronunciare il nome di Odino in qualsiasi situazione, anche quando, per colpa d'una buca imprevista nascosta dall'enorme strato di neve, affondava un piede nel terreno, bagnandosi le calzature perfino nell'interno, da dove partivano copiose manciate di brividi di freddo che lo scuotevano tutto, arrossandogli la pelle già abbastanza colorita, soprattutto lì nel viso, sulle gote.

Doveva raggiungere gli altri, ovunque essi fossero.
Si malediceva da solo per essersi proposto come "avventuriero solitario" del posto, sperando in un viaggio per così dire semplice e silenzioso, ottenendo come risultato una batosta da parte delle intemperie e una baraonda inverosimile causata dal vento che soffiava e soffiava e soffiava.
Così l'unica cosa che poteva fare era camminare in avanti, pazientemente, nonostante i continui impeti di rabbia improvvisi che l'avrebbero portato a scattare faticosamente in avanti per cercare d'arrivare prima, appesantendosi troppo le gambe, fino a quando non sarebbe caduto e affondato sulla neve, morendo probabilmente di stanchezza e soprattutto gelo.
Avanzava incessantemente, passo dopo passo, con una lentezza premiabile in quella situazione davvero disperata.



Chiunque avrebbe avuto la visione d'un vichingo biondo e solitario in mezzo ad una bufera di neve che sembrava non voler finire mai.

Ma, a dispetto di qualunque convinzione già fatta e rifatta, così non era.



Di tanto in tanto, quel norvegese già snervato di suo ma senza alcuna intenzione di perdere le traveggole del tutto si girava all'indietro, assottigliando al massimo lo sguardo, cercando con gli occhi qualcosa in quella nube bianca causata dai grandi fiocchi di neve che cadevano incessantemente, veloci come vespe all'attacco in branco.
Cominciava a ringhiare, a sbraitare, ad emettere quelli che potevano essere visti come versi intimidatori, come se volesse allontanare qualcosa o qualcuno. Intorno a lui, però, c'era apparentemente solo del bianco, ergo agli occhi esterni di Odino poteva sembrare un perfetto pazzoide che ormai aveva abbandonato tutto, perfino la ragione, pur di tornarsene a casa, sebbene le prospettive per lui non fossero granché.
Poi, però, il biondo si rigirava, riprendendo il suo cammino normalmente.



Dopo non si sa quanto tempo che continuava in quel modo, il vichingo si arrestò definitivamente. I suoi capelli svolazzarono ovunque, bagnandosi sempre di più per colpa della neve, e le sue mani si strinsero in pungi, potenti e tirati, pronti a demolire una montagna intera con un colpo solo.

Si girò di scatto, rivolgendo ancora una volta gli occhi alla nube bianca che l'avvolgeva infinitamente in ogni dove, da sotto i piedi a sopra la testa, da destra a sinistra.
Digrignò i denti, il suo sguardo era aggressivo, talmente infuocato che, ironicamente parlando, avrebbe potuto sciogliere tutta quella neve intorno a lui.
Agitò le braccia, indicando varie direzioni opposte a quella che aveva intrapreso ormai da ore, facendo qualche passetto in avanti.
Gridava, gridava ad alta voce, si sgolava. Probabilmente il giorno dopo non sarebbe più stato in grado di parlare per un po' tanto poteva essere forte il mal di gola che l'avrebbe colpito.
Aveva perso la pazienza, o meglio qualcosa gliel'aveva fatta perdere; e non erano tutto quel biancore, il vento ululante, la neve incessante e le buche nascoste sotto il manto bianco.



- Smettila di seguirmi!
Vattene! -



Urla, le sue, che squarciarono l'atmosfera, ammortizzate dal vento, che sembrò fare a gara col vichingo a chi dei due fosse in grado di sgolarsi il più di tutti; e si sbracciò in avanti, innervosito, assolutamente irritato ed intransigente.
Cercò con lo sguardo a destra e a sinistra, rimanendo col capo immobile. Le sue pupille sbalzarono da un lato all'altro delle sue iridi, non sapendo da che parte farsi nella cortina bianca intorno, non riuscendo bene a trovare la direzione in cui rivolgere le attenzioni.


Sperava, in cuor suo, di non doversi più porre il problema, e che magari quel "qualcosa" se ne fosse andato di sua spontanea volontà, intimorito oppure dopo aver compreso che il suo pedinamento era una partita persa.

Ma si sbagliava.


I suoi occhi trovarono presto su che posarsi, puntando incessantemente in quella direzione, e se avessero avuto la possibilità avrebbero allontanato quel soggetto il più possibile.

Una figura piccola; un'ombra grigiastra, opacizzata dalla neve che continuava a cadere, si faceva sempre più vicina, molto più lentamente rispetto a come camminava prima il norvegese.
Non era facile distinguerla in mezzo a quella tempesta, si poteva appena percepire la sua presenza; e solo quando fu abbastanza vicina, facendosi spazio tra il muro bianco di nebbia e neve, si arrestò, e i suoi lineamenti e le sue fattezze furono riconoscibili.

Era un bambino.
Era piccolo, dagli splendidi occhietti violacei come ametiste, dai capelli argentei come il tronco di betulla coperto dalla rugiada al mattino, e dalla pelle pallida, chiara come il suolo sotto ai suoi piedini, coperti da misere calzature improvvisate. Anche le sue vesti erano veri e propri stracci: un vestitino fatto di panni bianchi ma sporchi, mezzi bagnati, ed era lungo quasi fino ai piedi. Le maniche gli coprivano metà mani. Era normale chiedersi come diavolo facesse a resistere in quel luogo così gelato con solo quei panni addosso. Forse era uno spirito, o magari un fantasma, chi lo sa.
Tanto sta che circa tre orette prima il vichingo se l'era ritrovato davanti, messo in piedi in mezzo alla strada che stava percorrendo, lì nella brughiera, e da allora non aveva smesso di seguirlo un istante.
Piccolo ma tenace, e soprattutto sconosciuto.
Che il popolo nascosto5 avesse mandato un messaggero? O semplicemente era una creatura di quella terra sconosciuta ai grandi norvegesi, abili esploratori e conoscitori di ogni essere speciale vivente sulle terre a loro familiari?
Oppure poteva anche essere un abitante del posto; però era un bambino, per di più solo, senza genitori: assolutamente strano.



Kristian, su tutte le furie, gli urlò addosso, sempre mantenendosi a debita distanza, cercando di spaventarlo in tutti i modi.
Gli infierì contro, gridò, ringhiò come un cane rabbioso ed aggressivo, ma quell'esserino non si mosse.
Rimase lì, immobile, a fissarlo coi suoi occhi violacei; la bocca semiaperta, il labbro inferiore tremante, di sicuro per il freddo, che faceva fare giacomo-giacomo alle sue gambine esili da bambino.

Il vichingo continuò a sbraitare come un forsennato, e solo quando si rese conto che le sue intimidazioni non funzionavano si zittì, rimanendo però a guardarlo lo stesso, pregando che se ne andasse da solo. Ma nulla.

Si passò una mano sul viso, chiudendo gli occhi, scrollandosi la faccia da quelle goccioline d'acqua che si erano formate per colpa dei fiocchi di neve, che a contatto con la sua pelle tiepida si erano sciolti, e inspirò profondamente.
Possibile che dovesse perdere tempo con un marmocchio come quello? Che poi, chissà se era davvero un bambino "vero" ed umano? O magari sì ma non conosceva la sua lingua; ecco perché non si decideva ad andarsene.



- Fjandinn! -



Una vocina, tremolante, acuta, come quella d'un gattino appena nato a cui è morta la madre, che miagola disperatamente al mondo e alla mano dell'uomo che tenta d'afferrarlo.
Il bambino aprì bocca, avvicinandosi di un altro misero passetto al norvegese, puntandogli un dito piccolo e paffuto contro; e continuò a ripetere quella parola, ritmicamente, alternando la sua voce insicura e stridula a piccole pause per riprendere fiato, affannoso a causa della fatica di tutta quella strada fatta in silenzio per seguire il biondo sconosciuto vestito con abiti di pelle e pellicce.



- Fjandinn! Fjandinn! Fjandinn! -



L'ululato del vento rese ancora più sconsolata la sua voce, distorcendola maggiormente, tanto che arrivò alle orecchie del vichingo come un sussurro; ma quello bastò per fargliele capire bene.
Per così dire, però, perché quella era una parola sconosciuta. La lingua di quel cosetto impertinente non l'aveva mai sentita, ma era più che sicuro che "fjandinn" non fosse un complimento, visto il modo in cui il piccolo si agitava e lo additava prepotentemente, corrugando la fronte e aggrottando le sopracciglia, a metà tra l'arrabbiato e lo spaventato.

Era piccolo, lui, e nonostante tutto indicava con fare accusatorio il vichingo dal basso, gridandogli con tutte le sue forze quella unica parola, cercando di darsi più tono possibile, provando a non mostrarsi in preda al panico e alla paura, che però lo facevano tremare insieme al freddo come una foglia.

Kristian non seppe se sbottargli a ridere in faccia o girarsi e riprendere il proprio cammino, cercando di far finta di nulla.
Ma, purtroppo per il piccolo sconosciuto, era arrabbiato. Molto, molto arrabbiato. Anzi, direi più irritato.

Quando una zanzara ti gira intorno, ronzandoti alle orecchie, cerchi di mandarla via; ma se questa è stupida e non ti dà retta, di certo non fai finta di niente. E allora cosa fai?
La schiacci.


Il vichingo, quindi, ringhiò di nuovo.
La sua espressione era simile a quella con la quale si coronava il volto quando combatteva, a differenza che quella volta non aveva un ghigno beffardo stampato in volto, e soprattutto non era affatto divertito.

Avanzò ancora nella neve, con passo stavolta veloce e pesante, facendo scricchiolare la neve rigida sotto i propri piedi.
Si avvicinò pericolosamente al bambino, che non appena vide il norvegese muoversi smise di vociare, in preda alla paura, e tentò di abbassare il braccio che ancora teneva puntato contro il biondo; ma quest'ultimo fu ovviamente più veloce, e con uno scatto fulmineo gli afferrò il piccolo e gracile polso, stringendoglielo prepotentemente, troppo forte per un esserino come quello.
Il bimbo allora gridò, ed il terrore lo avvolse tra le sue malfidate braccia, pietrificandolo da capo a piedi. Non fece in tempo ad alzare gli occhi, improvvisamente lucidi, sul viso del norvegese che questo gli tirò il braccio in avanti, tenendolo ancora ben saldo, e con la mano libera gli afferrò velocemente la testa, in parte, all'altezza della tempia; e, sempre talmente di scatto da rendere i propri movimenti imprevedibili, mollò la presa sul polso del più piccolo, premendogli fortemente il palmo sul capo, fino a scaraventarlo violentemente a terra.
Il piccolo, incapace di ribellarsi e troppo spaventato anche solo per protestare od implorare, cadde rovinosamente al suolo, a pancia in giù, affondando malamente viso, gambe e busto sulla neve gelida, come un peso morto affonda nell'abisso dell'oceano scuro e profondo.


Una smorfia disgustata, quella del norvegese, già più rilassato rispetto a poco prima; poi, con tutta la calma del mondo, proprio come non fosse successo nulla, si girò, voltando disprezzante le spalle al corpicino immobile del piccolo, che nemmeno il vento sembrava smuovere più minimamente.









  
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