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Autore: Ms_MartyReid    20/08/2012    14 recensioni
- Linsday ancora mi guarda incredula, mentre sono seduto al tavolino con la camicia a maniche corte che mi evidenzia i muscoli delle braccia, gli occhiali con la montatura alla moda che mi ingrandiscono ancora di più gli occhi azzurri e una fila di denti bianchi e perfetti che mi illumina il sorriso. E, nonostante io non sia mai stato vanitoso, vorrei alzarmi e bisbigliarle all’orecchio: “Ecco, sono quello che ti sei persa”.
Però, semplicemente, continuo a sorridere. Linsdey si irrigidisce. E io spero che il mio sorriso la faccia ribollire all’Inferno.
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Niall Horan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note autrice pre-lettura (?).

Ciao bella gente :')
Questa One-Shot (tra l'altro EFP non mi permette di mettere 'One-Shot' come avvertimento o.ò) è una song-fic.
Cioè, è ispirata al testo di una canzone.
E sto parlando di 'Gives you Hell' degli All-American Rejects che, diciamocelo, è una gran figata di canzone.
E, poichè sono una brava ragazza, se cliccate sul nome della canzone quassù dovrebbe aprirsi il video youtube :')
Cioè, il cantante fa delle facce di ciulo troppo bell...
Perchè sto parlando della canzone?! D:
Per quanto riguarda la OS...
E'... una specie di invito a sognare, forse.
Ed è pregnante di rabbia e soddisfazione, sarà che sto incazzata col mondo e che non vedo l'ora di togliermela pur'io, qualche soddisfazione.

Ma questo, ehm... non ci interessa ^^"
Ma mi interessa una vostra opinione, come al solito, quindi...
Se leggete... recensitemi *u*
Anche se fa cagare e.è

Ciao bella gente! =D


 

And truth be told: I miss you.
And truth be old: I'm lyin'.



























































‘Gives You Hell’

 
Sorrido.
«Vuoi entrare davvero in questo bar?» chiedo incredulo.
Sonny aggrotta le sopracciglia. «Perché?! Che ha di strano?!».
Rido e scuoto la testa. «Niente, figurati» replico.
Lei mi prende la mano e mi trascina dentro, continuando a parlottare allegramente di come vuole disporre gli invitati alla cerimonia del nostro matrimonio.
«Non ci credo!» sbotto quando lei occupa l’ultimo tavolino, nell’angolo a destra del locale.
«Che?! Non vuoi far sedere vicini Louis e Justin?! Dici che...».
«No, no, niente» liquido la questione, e poi mi siedo di fronte a lei.
Sonny non può saperlo.
Lei non può sapere perché non entro mai in questo bar.
E, soprattutto, non può sapere perché mi sconvolge che lei si sia seduta proprio a quel tavolino.
Mi guardo intorno e mi rendo conto che è ancora tutto uguale, che in sei anni non è cambiato nulla. Quando arriva una ragazza a prendere le nostre ordinazioni, vedo che non è cambiata molto neanche lei. Sembra solo più stanca, disillusa e scocciata.
«Ciao, che vi porto?» mormora fissando il blocchetto che stringe in una mano.
Penso che è ancora bella, con quegli occhi blu e quei capelli di un biondo spento. Poi sbuffa spazientita, e penso che deve essere ancora stronza, ancora perfida. Mi chiedo se la sua maschera da brava ragazza sia ormai crollata con tutti o abbia riservato lo spettacolo solo a me.
«A me una pizzetta! E un aperitivo!» dice allegra Sonny, tirando fuori dalla grande borsa azzurrina la lista degli invitati.
«E a te?».
Non rispondo, e alla fine Linsday Kennedy è costretta ad alzare gli occhi su di me.
Mi ha riconosciuto.
Lo capisco da come boccheggia impercettibilmente, da come batte le palpebre nervosamente, da come smette di fiatare. Dice il mio nome in un soffio, mormora un «Niall...» che sento solo io. Le sorrido con dolcezza.
«Per me solo un aperitivo, grazie» dico divertito.
In effetti, è davvero divertente la situazione.
Linsday ancora mi guarda incredula, mentre sono seduto al tavolino con la camicia a maniche corte che mi evidenzia i muscoli delle braccia, gli occhiali con la montatura alla moda che mi ingrandiscono ancora di più gli occhi azzurri e una fila di denti bianchi e perfetti che mi illumina il sorriso. E, nonostante io non sia mai stato vanitoso, vorrei alzarmi e bisbigliarle all’orecchio: “Ecco, sono quello che ti sei persa”.
Però, semplicemente, continuo a sorridere. E allungo le dita sul tavolino per stringere quelle di Sonny, che sta studiando la piantina del ristorante. Linsdey si irrigidisce. E io spero che il mio sorriso la faccia ribollire all’Inferno.
 
Linsday Kennedy, a diciotto anni, era tutto ciò che avevo sempre desiderato. Era la tipica ragazza che tutti vogliono perché è bella, simpatica e dolce, quella che c’è in ogni scuola e a cui tutti i ragazzi ambiscono. E io l’avevo conquistata. Nonostante i brufoli, i capelli così biondi da tendere al bianco, i muscoli del tutto assenti, il sorriso rovinato da denti non proprio in linea, il metro e una vigorsol d’altezza... Nonostante tutto, l’avevo conquistata. Ero stato così bravo da riuscire a prendere il suo cuore tutto per me, l’avevo convinta a coltivare dei sogni che fossero nostri, l’avevo fatta mia, mia e basta.
O almeno credevo.
 
Avevo chiesto alla capo cheerleader di uscire così, per scommessa con il mio amico Liam, non perché credessi davvero che avrebbe accettato. Effettivamente, se non fosse stato per la pizza in palio, non ci sarei andato mai e poi mai, rischiando di essere ricoperto di insulti. Durante il cambio dell’ora, in un martedì piovoso di settembre, mi ero avvicinato all’armadietto di Linsday e l’avevo aspettata. Quando era arrivata a prendere i libri, mi aveva squadrato dall’alto in basso.
«Hey!» mi ero fatto forza.
«Hey» aveva replicato con scarso entusiasmo.
«Ascolta Linsday, non voglio girarci intorno. Volevo chiederti di uscire insieme».
Avevo serrato i pugni, in attesa di una risata o di uno sguardo sprezzante.
«Tu sei Horan? Il primo della classe di matematica?» aveva chiesto invece, curiosa.
«Niall, sì».
«Ascolta Niall, mi stai simpatico. Ma stasera devo studiare, quindi, a meno che tu non voglia darmi una mano con i limiti matematici...».
«Oh, a me va bene lo stesso, se a te non disp...».
«Perfetto!» aveva esclamato, interrompendomi. «O’Connel Street, 12. Alle sette».
Avrei dovuto capirlo subito. Che cretino. Si vedeva lontano un miglio qual era il suo vero interesse.
Ma invece mi convinsi che forse, forse, potevo apparire davvero interessante per una ragazza come Linsday. Quella sera, mentre praticamente le svolgevo tutti gli esercizi, lei mi accarezzava i capelli e parlottava a voce bassa, sensuale, e io mi lasciai abbindolare. Quando si piegò verso di me e chiuse gli occhi, come a chiedere un bacio, non ci pensai due volte. La baciai, e così facendo firmai una specie di patto.
Ma ero troppo cretino, troppo accecato per capirlo. Il sorriso smagliante di Linsday quando mi vedeva occupava tutto il mio cervello, era un pensiero fisso che si dilatava ancora di più quando era nei paraggi.
Certo, forse il fatto che non uscissimo mai e che finissimo sempre sui libri, in un modo o nell’altro, avrebbe dovuto insospettirmi.
 
Ma ero un idiota, fondamentalmente, per cui mi lasciai prendere per il culo anche durante il primo anno di college. Lei lavorava in un bar vicino al suo appartamento, e io ci mettevo solo un’ora per arrivarci col mio motorino. Il nostro rapporto era basato sui baci e sullo studio. Lei mi baciava e io le spiegavo tutto ciò che non capiva, che poi era l’intero libro, ogni volta. Sembrava non arrivasse neanche alle cose più elementari, e col senno di poi la cosa mi stupisce non poco. Non poteva essere davvero così stupida una che sapeva recitare così bene la parte della ragazzina innamorata, innocente e casta.
Sì, perché ovviamente anche a vent’anni il massimo che mi concedeva era una mano sotto la maglietta. Ma le dava comunque fastidio, per cui io non mi azzardavo mai.
 
Ero così stupido che non mi insospettii neanche un po’ quando la complicità fra Liam, con cui continuavo a tenere qualche contatto, e Linsday sembrava aumentare. Col passare dei mesi, lui era sempre più presente negli appuntamenti che avevo con la mia ragazza. Ma ero incapace di pensare a male, mi creavo giustificazioni sempre più assurde che però a me stavano bene. Non poteva essere che la dolce Linsday mi tradisse, neanche col pensiero. Non poteva essere, mi dicevo.
 
Ma la sua maschera di cera si stava già sgretolando.
 Io sognavo di diventare un imprenditore, di laurearmi il prima possibile, di avere una famiglia. Lei mi diceva che ci voleva del tempo per passare gli esami, per destreggiarsi nel mondo dell’imprenditoria. Che nessuna ragazza avrebbe voluto mettere su famiglia con un fallito sognatore come me.
«Sei troppo poco sveglio per realizzarti così in fretta» diceva sprezzante, e io mi sentivo morire. Ma poi stavo zitto e non ci pensavo più, perché lei mi aveva già baciato e piazzato sotto al naso uno dei suoi testi universitari.
Lei anche ce l’aveva un sogno. Lei voleva ballare. Ed era anche brava. Ma non ci credeva abbastanza, non andava agli stage perché erano troppo lontani, o partecipavano troppe persone per i suoi gusti.
«Và e prenditelo, il tuo sogno!» le dicevo stringendola.
E lei rispondeva: «se è così difficile seguirlo, evidentemente non è il mio sogno». E poi si liberava infastidita del mio abbraccio.
Per la stessa filosofia, Linsday aggiungeva che non dovevo neanche credere troppo nei mieisogni. Che ad andare avanti così, a quarant’anni, mi sarei trovato in mano sogni infanti e polvere e niente più. Che avrei potuto andare in palestra, invece che studiare, tanto neanche avrei realizzato mai niente, poco sveglio com’ero. Io stringevo i denti e mi dicevo che parlava così perché era una giornata storta, che non mi disprezzava davvero così tanto. Ma ci stavo malissimo, e a volte le sue parole mi rimbombavano così forte nel cervello che non potevo studiare, mi faceva troppo male la testa.
 
Poi, un giorno di dicembre, decisi di farle una sorpresa. Decisi di andare a prenderla al bar senza avvertirla perché non ci vedevamo da una settimana e mi mancava il suo sorriso.
Avevano già abbassato le serrande per metà, ma io sapevo che lei restava dentro un altro po’ anche dopo l’orario di chiusura per mettere in ordine. Mi piegai e riuscii ad entrare.
La scena che si presentò alla mia destra mi gelò il sangue. Linsday era seduta sull’ultimo tavolino, poggiata con le spalle al muro, mentre il suo vestitino a fiori, quello che le avevo regalato per il compleanno, era gettato con poca grazia su una delle sedie. E poi, sistemato fra le gambe della mia ragazza, con i pantaloni alle caviglie e in atteggiamenti poco equivocabili pure per me, c’era Liam.
Non mi videro subito.
Ebbi qualche secondo per morire mentre lei gemeva senza alcun pudore, mentre lui ansimava e diceva: «Dio, questo tavolino mi piace ogni giorno di più».
Ogni giorno di più.
Chissà da quanto tempo andava avanti.
Forse qualche settimana, mi dissi.
Ma sapevo, in fondo, che erano mesi che la situazione mi era sfuggita di mano.
Quando lei si accorse finalmente di me, io avevo smesso anche di respirare. Avevo le orecchie ovattate, vedevo solo due figure sfocate che si rivestivano in fretta e furia, blaterando qualcosa.
Avevo lasciato che mi prendesse in giro per anni.
All’improvviso era così chiaro, così evidente, che mi aveva sfruttato solo per i suoi scopi che mi sarei preso a pugni.
Mi voltai e me ne andai, mentre Linsday cercava di fermarmi e Liam si fissava le scarpe.
 
Due giorni dopo, me la ritrovai nel mio appartamento al college. Piangeva già quando aprii la porta. Aveva il cappello rosso che le avevo regalato a Capodanno e si mordicchiava le labbra che avevo baciato per così tanto tempo...
Mi fece male pensare che la persona che avevo amato tanto non era mai esistita, che la dolcezza e i sorrisi che pensavo miei erano falsi, d’apparenza.
«Niall...» aveva esordito mentre io fulminavo con lo sguardo il mio coinquilino, che le aveva aperto. «Niall, mi dispiace».
«Pure a me» avevo risposto posando i libri sulla scrivania.
«E’ che... Liam ha quel fascino, quel fisico che tu...».
«Che io non ho perché sono troppo impegnato a studiare per crearmi un futuro che mi piaccia, sì».
Sul serio aveva intenzione di scusarsi continuando a disprezzarmi così?!
«Ma tu mi piaci proprio perché sei intelligente!» aveva balbettato.
«Sì! E’ per questo che mi sfrutti da anni, no?!» avevo gridato.
«Credevo che ti facesse piacere!» aveva strillato alzandosi all’improvviso dal mio letto.
«Cosa, essere preso per culo?!».
«Essere calcolato da qualche ragazza!».
Aveva oltrepassato il limite.
«Lo sai cosa sei, tu?!» avevo bisbigliato, ribollente di rabbia. «Sei una stronza. Sei una puttana. Sei una patetica rincoglionita».
Tre parolacce su sette parole. Quasi non mi riconoscevo.
«Non ti permettere di...».
«Sei una stupida! Sei vuota! Non credi neanche nei tuoi sogni, che vita ti aspetti di avere, eh?! Un giorno ti guarderai indietro, quando sarà troppo tardi per credere in un sogno, e ti chiederai cos’hai sbagliato per avere una vita così di merda! Ma non lo capirai, perché la lista è troppo lunga e continua ad andare avanti e avanti e tu non lo capisci!».
Un fiume di parole vere, troppo vere per lasciarla indifferente. Perciò, aveva pestato un piede a terra e aveva alzato ancora di più il volume della voce, stizzita.
«Sai che c’è?! Liam può darmi quello che tu non puoi! Lui è bello, è sveglio, ha una macchina e vuole fare il commercialista, che è una cosa realizzabile! Lui mi ama come tu non sai fare! Tu non sei niente, rispetto a lui! Sei tula merda, non la mia vita! La mia vita è perfetta!».
Non lo capiva. Non capiva quello che stava diventando, quello che stava facendo a me, quello che stava facendo a sé stessa.
«Ma se sei costretta a farti sfruttare in un bar per tirare avanti perché non parli più con i tuoi da quando ti sei fatta espellere da scuola! Cosa mi dicesti di aver combinato?! Ah, sì, dicesti di aver scritto una frase sul muro del bagno e di essere stata beccata! Sai cosa ho scoperto, ieri?! Che ti avevano trovata a scopare con uno della squadra di football negli spogliatoi! Sei una puttana!».
Mi stavo facendo schifo, stavo diventando volgare quando lei. Ma la rabbia mi sfuggiva dalle labbra a fiotti, mi sentivo cosìumiliato...
«Tu...» aveva boccheggiato. «Come...».
«Ho chiamato Blair, quella tua amica. A proposito, mi fa piacere anche sapere che il tipo con cui ti trovarono era il suo ragazzo. Sei proprio la migliore amica perfetta».
«E tu, invece...» aveva risposto Linsday, avvicinandosi alla porta. «Tu finirai per essere solo, rincoglionito come sei! La tua vita farà così schifo che verrai ad implorarmi in ginocchio di tornare con te!».
E poi era uscita. Come minimo si aspettava che l’avrei seguita, cedendo a quello sguardo triste che le stava tanto bene addosso, implorandole di non andare via...
Non lo feci.
 
Per caso, venni a sapere che Liam l’aveva lasciata una settimana dopo per una spogliarellista che aveva conosciuto da un paio di giorni. Aveva anche dovuto mollare il college, perché non riusciva a sostenere gli esami. E aveva continuato ad ignorare il proprio sogno di ballare.
A ventuno anni, a Linsday Kennedy era rimasto solo uno squallido lavoro da cameriera. Avrei voluto quasi dire che mi mancava, ma mi ero reso conto che non era così. Se avessi potuto impacchettare i ricordi e gettarglieli dietro, avrei fatto anche quello. Mi davano fastidio e basta, erano solo ingombranti.
Intanto, mi ero messo sotto e avevo finito presto gli esami. Poi avevo cominciato a conoscere i migliori imprenditori del paese. Il mattino avevo colloqui di lavoro e la sera andavo in palestra. Dopo un anno da stagista in un’impresa alimentare abbastanza importante e due anni di assidua attività fisica, avevo conosciuto Sonny.
In un pomeriggio di agosto, sul bordo della piscina del villaggio turistico dove ero andato in vacanza, l’avevo vista guardare con diffidenza l’acqua.
«Qualcosa che non va, signorina?» avevo chiesto.
Lei mi aveva guardato spaurita, con due enormi occhi marroni incorniciati da ciglia folte. «Non so nuotare» aveva bisbigliato come una bambina, nonostante dimostrasse ventidue o ventitré anni.
Ero scoppiato a ridere. «Posso insegnarle, se vuole».
 
A ventisette anni appena compiuti, sto per sposare la ragazza più bella e dolce del pianeta. Quella che ancora non ha imparato a nuotare, che sogna per vivere, che non è mai giù di morale.
E adesso sorrido al mio passato sperando che mi si legga in faccia la soddisfazione che provo per ciò che sono diventato, nonostante tutto.
«Noi ci conosciamo!» esclamo verso Linsday, mentre lei assottiglia lo sguardo.
«Davvero?» sorride Sonny.
«Sì, io sono la sua ex» replica allora Linsday. Fra le parole serpeggia una perfidia inquietante. «Sai, siamo stati insieme quasi tre anni».
Ma Sonny non si lascia scalfire.
«Wow!» dice invece. Tende la mano a Linsday e aggiunge: «Io sono Sonny».
«E ci sposiamo questo sabato» completo io.
Non riesco a smettere di sorridere. Mi piace troppo.
«E così ne hai trovata un’altra...» dice Linsday, senza riuscire a nascondere l’irritazione.
«... come te? No, non ne ho trovate più di ragazze come te. Per fortuna» replico.
Dio mio, spero che stia morendo dentro mentre continuo a sorridere.
«Vedo che ti sei messo in forma» continua lei, distogliendo lo sguardo.
«Dopo aver finito tutti gli esami in appena tre anni, sì».
Ci sono riuscita, stronza!
«E adesso cosa fai? L’impiegato?». Sorride. Continua a deridere i miei sogni.
«No, sono a capo della MHJ» rispondo. Basta questo a spegnere il suo sorriso e ad accendere ulteriormente il mio.
L’ha capito.
Ha capito che ho vinto.
Ho al mio fianco una ragazza che amo e che mi ama.
Mi sono realizzato sul piano lavorativo. Anzi, alla fine è andata meglio di quanto sperassi.
E, modestamente parlando, ho un fisico che sei anni fa Liam se lo sognava.
E’ lei ad aver perso.
Perché non ha mai sognato per davvero, e adesso la sua vita è spenta, una lampadina fulminata e mai cambiata.
E ha deriso chi c’aveva capito qualcosa, di come girava il mondo, anche se la sua ragazza lo tradiva, lo disprezzava.
«E tu?» infierisco. «Come va avanti il tuo splendente amore con Liam? E la tua vita perfetta?».
A Lidsey si inumidiscono gli occhi dal fastidio. Mostro praticamente anche i molari, mentre sorrido.
«E’ tardi, devo tornare a lavoro. Questi aperitivi non si sono sbrigati ad arrivare, ce ne andiamo» dico divertito, e poi mi alzo.
Sonny mi studia in silenzio e io capisco che alla fine l’ha riconosciuta. Le ho parlato di Linsday una volta e non c’era voluto molto per capire che quella storia mi faceva male, mi faceva sentire stupido, umiliato. Ma sono andato avanti, e Sonny sa pure questo.
Perciò, mi sento terribilmente fiero di lei quando sorride con innocenza a Linsday e le dice: «Comunque ci sposiamo in piazza! Mi farebbe piacere vederti alla funzione, mi stai simpatica».
Sbatte gli occhi quando dice ‘simpatica’. Sta mentendo. Scoppio a ridere e lei mi sorride complice. Linsday indurisce la mascella.
«Ciao!» saluta Sonny, e poi esce dal bar.
C’è un istante di silenzio e poi, prima di riuscire a frenarmi, io mi avvicino alle labbra di Linsday. Lei sorride di nuovo.
Lo so che sta pensando. Crede che voglia baciarla, crede di essere ancora irresistibile per me. Si reputa ancora il centro del mondo.
Perciò lascio che rimanga ad un centimetro dalle mie labbra, e poi le soffio: «La mia vita mi piace da morire. Soprattutto perché tu non ci sei».
Lei si immobilizza, gli occhi le si riempiono di panico.
Ha paura?! Di che?!
Oh, io lo so di che ha paura. Ci rifletto solo un attimo e capisco che ha paura che anche io me ne vada, ancora. Senza essere di nuovo crollato ai suoi piedi, lasciandola sola con la sua meschinità.
Sorrido, ancora. E spero che questo la faccia sentire uno schifo.
E ci riesco, perché si mordicchia innervosita un labbro e dice: «Io lo so che mi vuoi ancora, Horan. Mi ami ancora». Ma lo dice con scarsa convinzione, con un’ostinata dignità bruciante.
Mi avvicino a lei ancora di più e stiro il mio sorriso divertito e sprezzante fino a che non mi bruciano le guance.
Le da così fastidio che smette anche di respirare.
E allora finisco con la bocca praticamente sulla sua e le dico, allegro: «Và all’Inferno, Linsday Kennedy».
E poi mi volto e vado via.
Ancora.
Per sempre.



 

  
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