Sani e salvi
Dicono che i
sogni abbiano sempre un fondo di verità, che dietro le immagini sfilacciate e
nebulose dei nostri sonni più agitati si nascondano le parole segrete dei
desideri inconfessati. In somnis veritas.
La fragilità mera e scomposta di un cuore fragile perché giovane, inesperto,
pieno di speranze da diluire col tempo nella realtà stinta e fin troppo scialba
a volte.
Layla non
credeva in quelle sciocchezze o se lo faceva fingeva bene il contrario. Se
fosse stato vero quel che si diceva, avrebbe forse avuto di ché preoccuparsi.
C’era, infatti, qualcosa di biasimevole probabilmente nel sogno che la vedeva
portavoce di tutti i Popoli e le Nazioni, in qualità di novella Madre Natura.
In quello e nel fatto che fosse adorata e venerata come una sorta di dea, ma
soprattutto in quanto solitamente seguiva quel primo: occhi neri e mani di
fuoco a scorrerle la pelle come se volessero togliergliela, privarla di un
orpello inutile e troppo sensibile alle lusinghe di una minaccia che era anche
attrazione assieme. Bruciare viva. Ardere e splendere. Sarebbe davvero stato
così orribile?
Si poteva avere paura del fuoco e al contempo
desiderarlo come l’aria?
Si poteva amare ciò che sarebbe stato meglio,
naturale temere invece? Quello che solo volendo avrebbe potuto distruggerla,
riducendola in cenere e brandelli vaporosi di nulla? Che compariva ogni notte
con un vibrare sommesso in petto e poi scoloriva al risveglio, nell’ultimo
bagliore dell’illusione? Lacrime incredule e uno stropicciarsi d’occhi
assonnato e smarrito, un torpore che riusciva a blandire a malapena il vuoto e
la solitudine, la verità schiacciante di una bugia indisciplinata.
Si poteva amare il proprio nemico giurato? Forze
contrarie e avverse, ma bilanciate. Cadere nell’errore più comune e peggio, perfino
banale, ma col sorriso sulle labbra e gli occhi ridenti di chi pecca con
piacere?
Sì, diceva ogni
mattina al suo riflesso nello specchio. Mille e uno volte sì. Sempre e per
sempre, sì.
***
Era successo tutto perché erano vivi.
Detto così
suonava ingenuo, da sciocchi, ma era la verità. E la verità spesso è fatta di
banalità, particolari che presi singolarmente appaiono come delle sciocchezze,
ma riuniti finiscono inevitabilmente col sembrare tanto più complessi invece. È
ciò che rende la vita meravigliosa: il fatto che oltre ad essere imprevedibile
sia impossibile contenerla in una parola. Complicata, estemporanea, da scoprire
poco alla volta.
Era successo tutto perché erano vivi.
Appena una
settimana prima c’era stato un attacco in periferia e quel giorno ce n’era
stato uno nuovo: un altro supercattivo spuntato fuori dal nulla. Erano come
funghi quelli, velenosi e nocivi. Non importava quante volte si vincesse contro
di loro; tornavano, tornavano sempre. Nella norma, aveva perciò pensato Layla con
esagerata leggerezza. Si era autoimposta alla calma, aveva finito in fretta di
farsi la treccia, posato il telefonino sulla mensola dei libri ed era uscita,
salutando sua madre con un bacio veloce. Vado e torno, aveva detto. L’abbraccio
frettoloso di sua madre era stato appena più vigoroso del solito, ma al momento
non ci aveva fatto caso. Aveva letto la preoccupazione nel suo sguardo forse? O
era stato solo istinto il suo? Eppure era sembrato davvero tutto come al
solito. Arrivata al punto sotto attacco, però, nell’epicentro dello scontro,
con gli alberi sradicati e con crepe nelle strade asfaltate profonde quanto
faglie in scala, la vista di Will nella sua tuta in pelle più simile a
poliestere, il solito sorriso spavaldo che le vittorie gli avevano lasciato in
regalo nel tempo e il pugno già pronto a
calare, non era riuscita a placare quella strana sensazione d’inquietudine che
le si era annidata dentro. Nello schieramento a falange, spalle dietro e
supereroi davanti, in prima linea lei, Will e Warren erano un triangolo di
forze bilanciate, pur se diseguali. Alla base c’era la fiducia reciproca, la
comprensione, la sicurezza che a guardarsi la schiena ci fossero due paia
d’occhi in più, di potersi appoggiare completamente l’uno agli altri e
viceversa. Un treppiedi, ecco cos’erano.
Ad ogni modo,
comunque, qualcosa era andato storto quella volta. Disattenzione, un attimo di
momentanea distrazione. Era bastato questo. Il braccio del congegno del
supercattivo, un gigante di ferro alto quattro metri per tre, era apparso
all’improvviso e le era piombato addosso di botto mentre lei cercava di
raggiungere Will per metterlo in guardia da un altro che era ad appena pochi
metri di distanza. A pensarci ora le veniva da ridere. Perché se fosse stato
Will ad essere colpito, non sarebbe successo niente, proprio un bel niente.
Will era come fatto di metallo. E al metallo, si sa, il metallo non fa un
baffo. Ma un fiore, un misero filo d’erba, anche un chicco di grandine un po’
più grande riuscirebbe a piegarlo.
L’impatto le
aveva tolto il respiro. Aveva sentito le costole incrinarsi sotto il colpo
mostruosamente forte e inatteso, il sapore del sangue riempirle la bocca.
Bianco e rosso e poi sprazzi di nero ad accecarla.
Non aveva
osservato la colonna di fuoco che subito era comparsa dal nulla e l’aveva
divisa dal robot, che l’aveva protetta come una barriera. Non aveva visto
l’espressione colpevole di Will aldilà della cascata di fiamme, il suo
smarrimento, la sua paura. C’era stata solo rabbia e un urlo che, se possibile,
le era sembrato quasi più arrabbiato del suo, tacitato dal dolore, e che le
aveva riempito la testa snebbiandogliela un poco. Solo che lei era arrabbiata
con se stessa, della propria stupidità. Lui
per cosa poteva esserlo?
Sani e salvi. Lo
erano sempre stati fino a quel momento.
Finché non si è a un passo dal perdere qualcosa, non
si riesce ad apprezzarne il valore.
Ora ci credeva.
Proteggere la città era stato una specie di gioco fino a quel momento, un gioco
pericoloso, certo, visto come un lavoro part-time che toglieva loro ore buche
da riempire altrimenti con lunghe passeggiate al parco, film al cinema o uscite
da persone normali, da ragazzi quali erano in effetti. Non era un gioco, non
nell’accezione più comune del termine perlomeno, ma era come se lo fosse. Non
si era mai preoccupata prima di non tornare. Uscendo di casa, chiudendo la
porta verde dietro di sé, non aveva mai pensato che quella avrebbe potuto
essere l’ultima volta che vedeva le aiuole davanti al portico, o l’orto sul
retro, o che passava di fianco al cedro che aveva piantato nel vialetto a
quattro anni.
Non si era mai
preoccupata di non tornare. C’era stata la paura in passato, ma era stato
qualcosa di così comune e banale. Si aveva paura di tante cose per turbarsene
ogni volta: di un compito in classe ad esempio, di un’interrogazione, paura
dell’altezza prima che Will le mostrasse quanto bello potesse essere il cielo
visto nel cielo, della fame nel Mondo o per una specie in via d’estinzione. Non
aveva mai avuto paura di morire.
Era una novità.
Ed era orribile. Peggio. Era come
morire prima di morire.
Qualcuno la
sollevò da terra e quando la prese in braccio, fece così male che un grido le
rimbombò nelle orecchie. Non capì se fosse stata lei a produrlo. Sapeva solo
che faceva male, malissimo. Non respirava. Sputò del sangue e sentì imprecare
attorno a lei. – Calma, - soffiò una voce, così vicina da sovrastare qualsiasi
altro rumore, anche il pulsare impazzito del sangue nelle orecchie, mettere a
tacere di poco il dolore. – Sta’ calma, hippie. Ora ti portiamo al sicuro.
L’ospedale è dietro l’angolo. –
***
Si risvegliò e
fu proprio come riemergere da uno dei sogni pesanti che le capitava di fare a
volte, che la lasciavano completamente spossata e con un vago senso di nausea.
Attorno a lei tutto era bianco: le lenzuola di cotone ruvide, le pareti, la
luce filtrata dalle veneziane, i pochi mobili e la camicia d’ospedale che indossava
sopra le bende. Perfino il cielo oltre il vetro della finestra squadrata era
bianco, coperto di nuvole a pecorelle simili a grappoli d’uva. Non era sola e
nell’accorgersene, trovarsi la mano stretta in quella di sua madre, sorrise
debolmente. Lei dormiva, il volto pallido e segnato in mezzo a tutto quel
chiarore asettico, i capelli più arancioni che mai. Indossava una salopette
sporca di terra. Probabilmente si trovava nella serra a lavorare quando
l’avevano avvertita. Era corsa lì, senza cambiarsi, magari pensando di trovarla
morta o in fin di vita e… Layla ansimò e si ritrovò a fare i conti con ciò che
era successo. Nonostante la fasciatura e le garze, la testa ronzante e leggera,
vaporosa per via dei medicinali, sentiva un dolore sordo che non aveva nulla a
ché vedere con le ferite fisiche. Gli occhi e la gola bruciavano, ma non
abbastanza. Non era abbastanza.
Faceva male, ma
non abbastanza da tramortirla o renderla poco lucida.
Pianse e quando
sua madre si svegliò, piansero entrambe, l’una abbracciata all’altra, incuranti
del fatto che le ferite avrebbero potuto riaprirsi: rabbia e sollievo allora,
qualcosa di simile alla mancanza di non sapeva neppure lei bene cosa,
spazzarono via il resto.
***
Will comparve
sulla soglia della sua camera tre giorni dopo. Strascicava i piedi ed aveva lo
sguardo basso, le occhiaie e un brutto colorito. Sul momento Layla pensò di
scherzare sul fatto che tra loro due fosse difficile stabilire chi fosse messo
peggio, ma poi Will alzò gli occhi dal pavimento e le parole le morirono sulle
labbra.
- Non è nulla, -
si ritrovò a dire, ma contro di lei la voce le uscì velata e seppur ferma
ancora troppo debole per risultare convincente. Will fece un passo in avanti. –
Non è vero che non è nulla, - replicò con severità, - e tu lo sai. – Evitava di
guardarla apertamente, preferendo fissarsi le scarpe da ginnastica.
- Sì, okay. –
Layla sollevò le mani in segno di resa. – Forse non è proprio nulla, ma
comunque non è grave come sembra. Vedi? – Mosse le braccia come per persuaderlo
a darle ragione. – Sto davvero bene. Cioè meglio. Volevo dire meglio, sì. Non
fa neppure più male. –
Lui sospirò e si
lasciò cadere di fianco al letto, sulla sedia vuota. Dopo mille insistenze e la
minaccia vuota di ritorsioni future, alla fine era riuscita a convincere sua
madre a tornare a casa per riposare, dopo giorni di veglie trascorsi al suo
capezzale. Ora tutta la fatica immane fatta le sembrava nulla in confronto ai
grandi occhioni feriti del suo migliore amico. Lì c’era qualcosa di più da
ricucire di un cuore preoccupato a morte. C’era un senso di colpa da spazzare
via. Qualcuno aveva commesso un errore. Un errore che l’aveva quasi uccisa. A
Will, responsabile o meno, non sarebbe bastato dire che non era stata sua la
colpa, che non c’era stato niente di sbagliato in quel che aveva fatto, che se
c’era da biasimare qualcuno, quella persona era solo lei e la sua incapacità di
riuscire a non preoccuparsi per loro. O meglio a non preoccuparsi abbastanza di
se stessa.
- Mi dispiace. –
Fu un sussurro sospirato simultaneamente quello che seguì e dopo un attimo teso
e circospetto si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere. Lo sguardo di
Will si fece meno distante e serio. Le prese la mano con la flebo e gliela
strinse piano, con una delicatezza che rischiò di commuoverla. – Non mi hai
portato nulla, - notò Layla dolcemente, sentendosi d’un tratto meno sola. Non
erano stati giorni esattamente felici quelli precedenti. Il dolore fisico e
quello mentale, gli strascichi di spavento e gli incubi non le avevano dato tregua.
Ora però la stanchezza era qualcosa di greve che pesava sulle spalle e sulle
palpebre, ma senza insistenza. – Beh, - fece lui, si portò l’altra mano dietro
al collo, in imbarazzo. – So che la cioccolata non ti piace e i fiori… sbaglio
o l’ultima volta che ho provato a regalartene uno, mi hai detto che era
disumano strappare una pianta al suo habitat naturale solo per far piacere a
qualcuno? –
- Le mie parole
esatte furono uccidere, - lo riprese bonariamente. – E non è vero che la
cioccolata non mi piace. Sono solo contraria all’uso smodato che se ne fa in
quella bislacca festa commerciale che è San Valentino. –
Quello sembrò
strappare un sorriso a Will. – Se cerchi di convertirmi al movimento
ecologista, allora significa che stai davvero meglio. –
- Non
necessariamente, - intervenne una voce dalla porta e nell’ascoltarla, Layla
dovette sforzarsi per non voltarsi di scatto ad osservare il proprietario. Un
male diverso si affacciava ora, familiare eppure nuovo. La mano le tremò un
poco e Will, che la teneva ancora, le lanciò un’occhiata sbalordita.
– D’altronde
sarebbe capace di delirare di energia rinnovabile e green economy anche col suo
ultimo respiro, non è così, hippie? – Il vecchio nomignolo suonava stranamente
questa volta e anche la domanda retorica dava un segnale, come di allarme, per
metterla in guardia. C’era qualcosa di diverso e vago negli occhi di Warren,
qualcosa che lei, girandosi a guardare, si ritrovò a cercare di scoprire. Il
fatto di sentirsi a propria volta esaminata e messa a nudo non serviva a
diminuire il disagio. Tutt’altro. Non era rabbia, né dispiacere o
preoccupazione, quindi, piuttosto una luce simile all’avversione. Ostili e
risentiti, erano in tutto e per tutto simili agli occhi del ragazzo che anni
prima le aveva quasi bruciacchiato la mano sulle scale del cortile della Sky
High.
Deglutì senza
poterselo evitare. Distolsero lo sguardo insieme e Will, che li aveva
osservarti sgranando la bocca, si affrettò a richiuderla, mantenendo però
un’espressione intontita che in un’altra occasione li avrebbe fatti scoppiare a
ridere tutti e tre.
Warren si
posizionò all’altro lato del letto, sedendosi sul bracciolo della poltrona
bitorzoluta che campeggiava vicino alla finestra. Layla aveva gli occhi
socchiusi e si guardava le mani con una fissità ridicola, rigirandosele come se
non le avesse mai viste prima e non sapesse bene che farci, come impegnarle.
Warren si scompigliò i capelli con una smorfia. – Certo che dai grattacapi pure
da malata tu, eh? Dimmi a quale persona normale non si possono portare né fiori
né dolci perché considerati atti di cannibalismo o peggio. –
Layla alzò di
scatto la testa, sul volto una muta protesta a quell’accusa ingiusta, mentre
quella di Will invece si chinava in tutta fretta, sussultando un poco per le risate
mal trattenute. Lei non ebbe il tempo di lamentarsi però, perché Warren le fece
cadere in grembo un pacchetto di biscotti all’anice.
I suoi preferiti.
Ammutolita,
cincischiò il fiocco verde che legava la confezione e farfugliò un
ringraziamento. Warren sembrò sentirlo a malapena. Sprigionava lingue di fuoco
sui polpastrelli e poi ci soffiava sopra. Sembrava un bambino con
quell’espressione svagata di sorpresa ed ogni fiammella era una candela di
compleanno da spegnere. Esprimi un
desiderio.
Lui sollevò gli
occhi e la trovò in flagrante mentre era intenta a guardarlo. Nessuno dei due
sembrò intenzionato a scostare lo sguardo. Dopo un lasso di tempo che le parve
impossibile da quantificare, il discreto tossicchiare di Will servì a riportarla
alla realtà. Aprì la bocca, probabilmente con una scusa per andarsene già
pronta sulla punta della lingua, ma Layla lo prevenne. – Avete intenzione di
farmi fuori dal gruppo? – chiese a mezza voce.
Quel pensiero
l’aveva assillata per giorni ed esprimerlo in quel momento richiese una dose
massiccia di coraggio. Con la coda dell’occhio li vide scambiarsi un’occhiata,
prima che Will protestasse con un “Certo che no” troppo accorato per risultare
credibile. Lei strinse il lenzuolo fino a far sbiancare le nocche.
- È inutile che
ci giriamo attorno ed è inutile mentire, - intervenne inaspettatamente Warren
dopo una pausa che pesò come piombo nella stanza. - È quello che ti meriteresti
e lo sappiamo tutti qui dentro, perciò smettiamola di fare gli ipocriti. –
- Quello che… mi
meriterei? – fece eco lei. Il volto di Warren era una maschera d’irritazione. –
Sì, hai capito bene, quello che ti meriteresti, - confermò brusco, come se una
volta non fosse stata abbastanza crudele da sola, non fosse stata sufficiente.
- Warren, - lo
richiamò Will in tono d’ammonimento, ma Warren masticò un’imprecazione e gli si
ritorse contro. – Diciamo le cose come stanno, Stronghold! Figlia dei fiori non
è adatta ai combattimenti corpo a corpo più di quanto non lo sia una formica, -
la indicò usando il braccio come una sferzata. - Questa volta ci è andata bene,
ma la prossima? Chi vuole averla sulla coscienza? Di certo non io. –
- Non ci sarà
una prossima volta, - affermò Layla.
- Come? – disse
Warren girandosi a squadrarla e c’era una nota di cattiveria nella sua voce. –
Come, esattamente, non intendi essere un peso? Farai la bua ai cattivi con la
forza del pensiero? Li tramortirai a suon di proteste e paroline gentili? Tè e
pasticcini? Finora non ci è scappato il morto. Vediamo di non giocarci la
sorte. E te lo dico ora, davanti a lei: se resta, io mi tiro fuori. –
- Ora stai
esagerando, - lo avvertì Will con insolita durezza. – Non andare oltre. –
Warren lo
considerò con disprezzo. – Se davvero tieni a lei come dici, dovresti dirle le
cose come stanno, una volta per tutte. Pensi che tenerla sotto una campana di
vetro serva a qualcosa? Ecco dove ci ha portato. La tua campana si è rotta e
lei è quasi morta! –
- Credi che non
lo sappia forse, ma cosa posso fare? Noi abbiamo bisogno di lei! Il gruppo ha
bisogno di lei! –
- Dì piuttosto
che tu hai bisogno di lei. E questo è
il valore che dai alla sua vita? Dipendere da lei, saperla vicina e in costante
pericolo è più importante del saperla al sicuro anche se lontana? –
Layla
taceva, pallida e rigida nel lettino. Warren, accorgendosene, serrò gli occhi e
storse la bocca.
- Parliamone
fuori, – ordinò in tono sbrigativo a Will, ma lui non lo sentì, accecato
com’era dalla piega che aveva preso la conversazione. La preoccupazione si era
trasformata in un rinfacciarsi d’opinioni divergenti. Era come osservare una
partita di ping pong, pensò Layla, senza esclusioni di colpi, fossero anche obliqui
o a tradimento.
- Tu non la
conosci come la conosco io! Non sai di cosa ha bisogno, cosa vuole! – rinfacciò
Will. Aveva i pugni serrati e le braccia stese lungo i fianchi.
- A quanto pare
neppure tu se sei davvero convinto che ciò che vuole sia essere ammazzata, –
replicò Warren. Layla trasalì, non riuscì ad impedirselo, e così pure Will, che
ammutolì. Lui e Warren si contesero con lo sguardo per qualche istante, foschi
in volto e rabbuiati, i corpi allungati e intimidatori a formare un arco
incombente sopra di lei. Infine Warren sospirò e dopo pochi secondi si passò il
dorso della mano sulla faccia, ritraendosi. Appariva stravolto, come se tutta
l’energia gli fosse stata prosciugata di colpo, lasciandolo quindi privo e
disarmato.
– Scusa, -
borbottò di malavoglia a nessuno in particolare, con fare snervato. - Comunque
non è questo il punto, non lo è mai stato. Non stiamo mettendo in discussione
che voglia far parte del gruppo, né che voglia partecipare, ma cosa sia più
giusto per lei. Distingui tra le due cose. Non è ciò che sa fare, ma ciò che può
fare. Capisci la differenza? Riesci a vederla? Questo, - allargò le braccia
come se avesse voluto racchiudervi il mondo intero all’interno, confinare ogni
pericolo o nemico affrontato fino a quel momento, - tutto questo finirà con il distruggerla, te ne rendi conto? –
- Non finché ci
sarò io! Non permetterò che le succeda nulla di male! –
- Molto… eroico
da parte tua, - Warren esitò con evidente scherno e ogni parola suonò simile a
una presa in giro, - ma dov’eri allora quando è stata colpita? Sono cose che
non puoi prevedere queste! –
Will inspirò a
fondo. - Non puoi neppure tu, - ribatté subito con uguale forza. - Ed essere
messa da parte non la farà felice. Non adesso soprattutto, non dopo quello che
è successo. –
- Ma sarà viva,
dannazione! Sarà viva… -
Fu quella
parola. Quell’unica, piccola preziosa parola. Un’unica parola e il minuscolo
lampo che aveva attraversato il volto di Warren nel pronunciarla. Layla ebbe un
tuffo al cuore e le mille cose che aveva provato le crollarono addosso di
schianto, di nuovo.
- È stato così
terribile? –
Gli sguardi di
entrambi si spostarono su di lei e la attraversarono come se fosse fatta di
fumo e aria, mero fantasma tornato a perseguitarli. Poi la misero a fuoco,
prendendo atto di colpo di quanto avevano detto e di averlo fatto proprio
davanti a lei, dimentichi che potesse sentirli. Le loro espressioni
comunicavano un uguale rammarico, ma anche risoluzione. Determinazione a farla
fuori se necessario o peggio: a soffocarla di attenzioni e premure, asfissiarla
con il loro desiderio feroce di proteggerla. Il cipiglio di Layla si
approfondì. – Le mie ferite stanno guarendo e io… - si passò una mano tra i
capelli, improvvisamente smarrita, scoprendoli sfibrati al tatto. – Non ricordo
molto, - concluse e riprese fiato come dopo una lunga apnea. – Mi hanno detto
che sono stata portata a braccio e che ero grave, ma non tanto da rischiare la
vita. Sono svenuta perché il dolore era troppo forte e… voi c’eravate. Io non
ricordo… non… - si zittì e li guardò in cerca di conferme.
Fu Warren a
risponderle. - Non ti hanno mentito, - pronunciò con lentezza, quasi ricordare
gli costasse una certa fatica. - È vero, non stavi morendo, ma… - corrugò le
sopracciglia, - eri ricoperta di sangue ed eri fredda come un pezzo di
ghiaccio. Quando sei svenuta, ho pensato, abbiamo tutti pensato che fossi davvero morta. –
Lei cercò di
riportare alla memoria quei momenti, ma nella sua mente c’era solo buio, anche
se caldo e rassicurante. - Io non avevo freddo, – disse dubbiosa, prima di
riuscire ad evitarselo.
Warren annuì. -
Ho provato a riscaldarti e sembra aver funzionato. È la prima cosa che si
impara. L’ipotermia è una conseguenza della perdita eccessiva di sangue. Ho
solo cercato di far fruttare le lezioni in Accademia. –
- Pensavo che
quelle fossero per le spalle. –
- Mia madre è
un’infermiera, - Warren scrollò la testa con semplicità. - Praticamente sono
cresciuto in un Pronto Soccorso. –
Will, che era rimasto
zitto durante quell’ultimo scambio, scelse quel momento per alzarsi. Lei gli
gettò un’occhiata avvilita. - Will, io… - cominciò, ma lui la bloccò sul
nascere, abbozzando un sorriso debole.
- Lascia stare,
Layla. Non importa. Tu pensa a guarire ché al resto ci pensiamo noi. Ci vediamo
domani, d’accordo? Torno a trovarti in mattinata, promesso. E con dei
cioccolatini di contrabbando stavolta. –
Lei annuì e Will
si sporse per salutarla con un bacio sulla guancia.
- A domani, –
bisbigliò Layla.
- Ciao, -
rispose Will con un’ultima carezza sulla testa. Agitò la mano in saluto, fece
un cenno verso Warren, a cui lui rispose di rimando con un secco movimento del
capo, poi uscì. Warren rimase per un pezzo ad osservare la porta, anche dopo
che era scomparso.
- Gli passerà.
Non è davvero arrabbiato, – disse Layla per consolarlo.
Com’era da
prevedersi visto il soggetto in questione, Warren non si lasciò incantare. - E
fa male, - si girò a misurarla a muso duro. - Io lo sarei, lo sono, – si
corresse.
Layla fece
un’aria stupita. - Sei arrabbiato con me? –
- Sono
arrabbiato per te. – Warren alzò gli
occhi al cielo, spazientito. - Quello che è successo non sarebbe mai dovuto
succedere. Non a te. –
Quell’ammissione
la colse di sorpresa quasi più del resto. Non era arrabbiato con lei perché si
era fatta cogliere di sorpresa, ma per il solo fatto che fosse stata ferita.
Capire quello le tolse un peso dal petto.
- Warren… - lo
richiamò. Nel frattempo lui si era avvicinato alla finestra e aveva spostato le
veneziane per gettare uno sguardo attento attorno, sulla strada in basso e
sugli edifici dei caseggiati limitrofi, per accertarsi della reale sicurezza
del luogo in una pratica che denotava una competenza ormai dovuta
all’abitudine. Su quelle stesse strade devastate in cui appena pochi giorni
prima avevano combattuto, su cui lei era stata colpita. Persa in quei ricordi
cupi, si accorse a stento che Warren avesse preso a fissarla, in attesa.
- Se prometto di
diventare più forte, mi permetterete di rimanere nel gruppo? – domandò
d’impulso.
L’aveva fatto
arrabbiare di nuovo. Se ne accorse, anche se lui cercò di dissimulare, dal modo
in cui irrigidì la schiena e tirò indietro le spalle, dall’impercettibile
fremere delle narici e dalla ruga che gli tagliò in due la fronte. Si ficcò le
mani nelle tasche e lei vide che le stringeva a pugni.
- Vedi come sei?
– l’aggredì con veemenza. - Fai la stupida crocerossina. Le persone come te non
sono fatte per la battaglia, non sono fatte per combattere. Ci sono alcuni che
sembrano nati apposta, altri che semplicemente non lo sono. Tu sei così. Sei
una pacifista, hippie. Fa parte di quel che sei e nessuno qui vuole cambiarti.
Non ti cambieremmo neanche un capello. –
Layla si ritrovò
ad arrossire e si affrettò a nascondere il sorriso che le era spuntato come una
colpa, abbassando il mento.
- Quando uscirò
di qui, sai… quando sarò guarita, - mugugnò, guardando ovunque tranne che lui,
- noi due potremmo uscire. –
- Cosa? – A
giudicare dal tono appariva spiazzato. Non avendo altra scelta se non di
accertarsene di persona, sollevò gli occhi e si accorse che più che perplesso Warren
la stesse esaminando con un’aria sconvolta, quasi le fosse spuntata una seconda
testa sul collo o un paio di corna. Qualcosa nella sua espressione pareva perfino
allarmata. Suo malgrado, questo le diede il coraggio per proseguire: - Una
volta fuori potremmo uscire qualche volta, io e te insieme. Per un appuntamento,
se ti va. –
Ora era il turno
di Warren a deragliare l’attenzione lontana da lei e sembrava d’un tratto
deciso a non rivolgerle lo sguardo. - Non credo che sia una buona idea, – disse
alla fine.
- Perché? – si
sforzò di chiedere lei.
- E Stronghold?
Spezzargli il cuore rientra tra i propositi dell’anno? Dopo l’infarto di due
giorni fa è un obiettivo fattibile in effetti. – Il ghigno e l’ironia suonavano
false, fiacche.
- Will non mi
ama, – dichiarò calma, al ché lui scrollò le spalle, non dando mostra di voler
prendere sul serio quanto avesse appena detto. - Sciocchezze, - replicò. - Tutti ti amano, hippie. –
L’aveva detto
con tale ferma convinzione che lei non seppe cosa rispondergli. - Sei la prima
persona che è venuta a trovarmi, – disse Layla a mo’ di spiegazione, quasi
quello potesse risolvere ogni cosa e raccontare quanto non era capace di
dirgli, a parole come nei fatti.
- La seconda, –
specificò lui con un gesto vago verso la porta.
Sei l’unico che desideravo vedere però.
Non si accorse
di aver espresso a voce alta quel pensiero finché non lo sentì sospirare. Lo
sguardo che le rivolse, inquieto nella fermezza e ugualmente tenebroso, le
spezzò il respiro, facendole schizzare il cuore in gola.
- Devo andare,
Layla. –
Si avvicinò al
letto, ma sembrò esitare sul da farsi. Scrollò la testa e si sporse per posarle
un bacio sulla fronte. Fu un contatto breve e leggero, come quello che era
stato il bacio di Will, ma a differenza dell’altro questo bruciò sulla pelle e
bastò a riempirle gli occhi di
lacrime. Davvero, stava diventando troppo
emotiva, dannazione! Li chiuse, sperando che lui non se ne fosse accorto, e
in silenzio lottò contro se stessa, contro il laccio di emozioni e quel
garbuglio simile a un grumo che non andava giù, non si decideva a scomparire.
Fu dopo che fu uscito che se ne accorse. Per la prima volta Warren l’aveva
chiamata senza appellativi o vezzeggiativi di sorta. Solo con il suo nome.
***
L’interno de La
Lanterna di Carta era caldo e accogliente. Servivano a ricreare un ambiente
piacevole le pareti rivestite da pannelli in legno di noce, i tavoli
rettangolari e le sedie a muro, simili a comodi divanetti di cuoio rosso,
l’odore sottile d’incenso nella sala, mischiato a quello penetrante di fritto,
verdure e brodo delle vivande. Era come una seconda casa per lei, ospitale e
confortevole. Ne conosceva ogni angolo e anfratto, ogni sfumatura e fragranza.
Avrebbe potuto camminare bendata o ad occhi chiusi tra i tavoli, orientarsi a
piedi nudi sulle piastrelle di terracotta, addormentarsi col frastuono del
pentolame e il chiacchiericcio dei clienti, delle secche disposizioni impartite
in mandarino e dei frusci di carta colorata, il rumore dei biscotti della
fortuna spezzati, delle bacchette che tintinnavano contro la porcellana delle
ciotole. E tanto altro e tanto altro ancora.
Layla si sedette
ad un tavolo laterale, incassando la testa tra le spalle. Prese il menu di
plastica rigida con le traslitterazioni in mandarino a margine, senza neppure
darsi la pena di leggerlo. Se lo mise davanti al viso e cercò di sbirciare
oltre, in direzione delle cucine. Al lucido bancone nero c’era la proprietaria,
la signora Wing, che abbaiava le ordinazioni al cuoco e si occupava come di
consueto del registratore di cassa. Lei aveva sempre pensato che assomigliasse
a una tartaruga. Piccola, tenace e rugosa, le sue dita scorrevano spedite sui
pulsanti della cassa, un vecchio tipo sferragliante con bottoncini di rame e
una levetta da abbassare, mentre prendeva e restituiva i soldi del conto. Al
collo portava una catenella d’oro e c’era chi diceva che a quella fossero
appese le chiavi del locale, altri che giuravano fossero zanne di un qualche
animale leggendario trovato sui banchi del mercato nero: scaglie di dragone o
artigli di fenice che donavano l’immortalità. Lei conosceva la storia, quella
vera, non le fantasie di mille avventori dalle menti macchinose. Erano fedi
quelle che si teneva vicine al cuore. La storia della signora Wing era infatti
di quelle tristi che si leggono solo nei libri, specie se ambientate nei
sobborghi malfamati di Londra e se hanno per autore Dickens.
Layla si perse
nelle sue fantasticherie per un po’, ma come da lontano le giunse la voce di
Warren e bastò a farla ritornare in sé.
Stava prendendo
le ordinazioni ad una coppietta ed era di spalle. Improvvisamente impaziente,
Layla rimase immobile a fissarlo di nascosto, sapendo di essere ridicola, ma
non sentendosi in grado di fare diversamente. Come accorgendosi di essere
osservato, a un tratto lui smise di trascrivere gli ordini sul taccuino e si
voltò verso la sua parte. Ci fu un attimo di esitazione, poi assottigliò gli
occhi e le fece un brusco cenno di saluto. Finì di scrivere, portò l’ordine
alla signora Wing, che gli sbraitò qualcosa a cui lui rispose genericamente e
in tutto questo era stato talmente veloce che quando tornò, lei si era a stento
rituffata dietro il menù.
Ebbe appena il
tempo di risollevare la testa che se lo ritrovò ad un palmo dalla faccia. Sussultò
e si morse le labbra, punta sul vivo per essere stata colta di sorpresa. Warren
aveva i capelli legati e un accenno di barba, il grembiule scuro della divisa sui
jeans e le maniche della maglietta rimboccate sugli avambracci. In generale
oltre alle occhiaie sfoggiava l’aspetto un po’ trasandato di chi ha troppo poco
tempo per indulgere in cose del genere “spazzola e rasoio”. – Che ci fai qui? –
l’apostrofò con malagrazia.
Layla deglutì a
vuoto e imbastì un sorriso di circostanza. – Sono venuta a festeggiare! –
annunciò in tono squillante. Alcuni avventori si girarono a guardarli, compresa
la coppietta di poco prima, ma Warren sembrò non farci caso. – Cosa? – chiese,
esitando appena. Lei ne approfittò per provare a tranquillizzarsi.
- Mi hanno
dimessa, – lo informò quasi casualmente. Gli occhi di entrambi corsero
d’impulso al busto, lì dove c’erano le ferite in via di guarigione. Al di sotto
del bordo dell’accollata t-shirt s’intravedeva una striscia di tessuto che solo
un occhio allenato avrebbe intuito essere parte di un bendaggio più
complesso.
Warren la guardò
in silenzio per un po’, indugiando più del dovuto sulla scritta giallo fluorescente
“YOU SAY I’M LAZY. I SAY I’M ON ENERGY-SAVING
MODE”. – Vedo, - mormorò infine. Layla arrossì, proprio mentre lui si
voltava indietro, interpellato. – Devo tornare al lavoro. –
Layla annuì, ma
vedendolo allontanarsi lo richiamò. – A che ora finisci? –
Warren sembrò infastidito
più che indeciso sul risponderle o meno. – Oggi faccio orario completo. -
- Il turno di
dodici ore? – domandò lei per sicurezza, sporgendosi in avanti.
- Sì. –
- Non importa, -
Layla gli rivolse un sorriso abbagliante e per un lungo istante tutti nella
sala ebbero l’impressione che l’aria profumasse e fosse più luminosa, la luce
delle lanterne e delle candele più intensa. Ma fu appunto un attimo. Durò
giusto il tempo di un’illusione, o di un gioco di prestigio. Quello necessario
per dare la speranza che non finisse mai. – Aspetterò qui, - concluse e tornò
ad appoggiarsi contro lo schienale imbottito, rimettendo mano al menù con
un’aria concentrata.
Più tardi l’atmosfera
divenne di nuovo insolitamente calda quando lui ritornò e senza che lo avesse
chiesto, le servì un’insalata di cetrioli, delle arachidi sbucciate e una
ciotola di riso. – Per l’attesa, - grugnì Warren e finse di non sentire la
risata che lei gli riservò in regalo.
Non fu una
serata lunga o spiacevole quella per gli avventori de La Lanterna di Carta, ma
insolitamente brillante e con l’aria che pareva ribollire assieme alle
fiammelle delle candele al gelsomino, nei centritavola di foglie e fiori non
più secchi e di un verde che non era mai parso più vivido.
***
Layla guardava
nervosamente alle sue spalle, nella vetrata della porta d’accesso del locale.
Era un gesto inutile dal momento che il vetro era opaco e non permetteva di
vedere l’interno, ma si sentiva a disagio e sulle spine e farlo le dava
l’impressione di esorcizzare la paura in qualche modo. Per di più non sapeva
come occupare il tempo mentre aspettava Warren. Si rigirava il giubbotto tra le
mani ormai da tanto che lo aveva tutto stropicciato e intanto cercava anche di ricordarsi
di inspirare normalmente. Pochi minuti prima lui le aveva fatto capire di aver
finito e quando era andato a cambiarsi, si era avviata fuori. Aveva sperato che
l’aria fresca della sera ormai inoltrata, tersa e luccicante di stelle sopra i
palazzi e i grattacieli, sarebbe servita a calmarla un poco, ma si sentiva
ancora un fascio di nervi. Pronta a scattare al minimo suono. Qualcosa di
morbido le strusciò contro le gambe e lei trasalì. Guardò in basso, allarmata,
e un grosso gatto nero rispose alla sua occhiata spaventata con una apertamente
annoiata. Layla rise della propria paura irragionevole, dandosi della sciocca
per essersi fatta prendere dal panico per così poco. Si accovacciò e cominciò a
grattargli il collo, assorta. Fu così che Warren la trovò: accucciata sui
gradini del ristorante, con un gatto in grembo e lo sguardo trasognato. Rimase
fermo un istante di troppo a fissare i riflessi d’ambra che le lanterne appese
sopra l’entrata davano ai suoi capelli, come onde d’oro rosso e poi si mosse.
Le batté una
mano sulla spalla e Layla si riscosse con un sorriso ancora più bello del
solito perché destinato solo a lui. – Sei libero ora? – domandò, alzandosi e
rimettendo giù il gatto. Doveva essere un randagio perché non aveva il
collarino. Il gatto lo esaminò con i malevoli occhi gialli ridotti in fessure e
soffiò, rizzando la coda. Warren fece una smorfia stanca. – Libero per le
prossime sei ore, – precisò, massaggiandosi il collo.
Layla aggrottò
le sopracciglia per la disapprovazione e si sistemò meglio la tracolla sulla
spalla. A giudicare da come la piegava doveva pesare un quintale e conoscendola
essere piena di cianfrusaglie del tipo di volantini per partecipare a proteste animaliste e concimi o becchimi vari. – I tuoi orari di
lavoro sono disumani, – disse come al solito, assumendo quindi il cipiglio
bellicoso che avrebbe fatto piangere d’orgoglio e invidia un sindacalista.
Warren si
strinse nelle spalle con disinvoltura. – Non più di tanti altri. –
Saltò i gradini
con un unico scatto e si girò per aspettarla, afferrando poi la borsa prima che
lei avesse il tempo di ridire o lamentarsi o al contrario ringraziarlo. Cosa
più che improbabile conoscendola. L’indole femminista tacque stavolta,
acquietata, e lui accolse la cosa con una strana sensazione di mancanza che
però mise subito a tacere. Presero a camminare l’uno di fianco all’altra, in
silenzio. Entrambi fingendo di non accorgersi dalla silenziosa scorta in
pelliccia e artigli che li seguiva e che miagolava ogni qualvolta uno dei due
si voltava ad osservarlo. La strada era deserta ed era piacevole passeggiare
così, di notte, senza un pensiero che non fosse il piacere della reciproca
compagnia, senza l’obbligo di dover riempire l’assenza di rumori o suoni parlando
di cose vuote. Gli era mancato tutto quello. Gli era mancata lei. La presenza
stabilizzante che pareva emanare un’aura quieta e mite. Warren si accigliò. Troppo mite. – E comunque è per via di
Sally. Ha la febbre e io devo coprire anche i suoi turni. –
Layla assentì. –
La ragazza madre, giusto? –
- Quando
smetterai di chiamarla a quel modo? – la riprese. – Ormai è sposata ed è più
grande di te. –
- A lei non sembra
dispiacere, - obiettò lei, ma appariva già meno assente mentre faceva vagare lo
sguardo attorno e lo puntava sulle aiuole ai margini del marciapiede. Forse non
se ne accorgeva neppure, ma al suo passaggio ogni corolla si spalancava, come per
darle i suoi omaggi e poi si richiudeva nel bozzolo caldo del riposo. C’era
profumo dolciastro di fiori nell’aria.
- Tutte
così voi donne. Basta un po’ di fumo negli occhi per domarvi. –
- “Non puoi domare
chi non vuole essere domato”, – recitò Layla in falsetto.
Warren si girò a
guardarla con un mezzo sogghigno. - Questa l’hai fregata ad un biscotto della
fortuna. –
- Non è vero! –
si difese lei e nella penombra Warren non poté controllare se fosse arrossita. -
Non dire bugie, hippie. Non sai mentire e quando ci provi ti riveli una pessima
bugiarda. –
- D’accordo, -
cedette Layla, - ma era azzeccata, no? –.
Lui roteò gli
occhi. - Fin troppo. –
D’un tratto non
la sentì più al suo fianco e si girò a cercarla d’istinto. Layla si era fermata
sotto un lampione, ad appena un metro di distanza. Era immersa in una parabola
di luce e il pulviscolo le ronzava attorno come polline o polvere di fata. Lei nella luce e lui nell’ombra, pensò
Warren con un sorriso storto. Non
c’era immagine più giusta o veritiera, parossismo della realtà. Eppure anche il
buio poteva assorbire un po’ di quel calore o accendersi di qualche barbaglio.
Con uno schiocco delle dita fece apparire dapprima poche scintille e poi un
fuocherello grande quanto il palmo della mano. Se lo posizionò sotto al volto,
all’altezza del mento.
Poteva
immaginare cosa lei vedesse in quel momento: un viso disegnato col carboncino
ed occhi troppo cupi, di quelli che ti aspetteresti di incontrare solo nei
vicoli o negli angoli più pericolosi, col terrore che intanto ti mangia il
cuore e lo risputa a manciate.
- Warren… -
incominciò, tormentandosi le dita in preda all’agitazione, - mi dispiace. –
- Per cosa? –
- Lo sai… - Layla
evitava di guardarlo, - per quello.
–
Warren s’irrigidì
di riflesso e la voce gli si ridusse in un ringhio arrabbiato: - Se con quello ti riferisci al fatto che tu mi
sia quasi morta tra le braccia, allora no, non lo so. –
- Non riesco a
immaginarlo. –
- Cosa? – domandò
lui, cauto. Riaprì le mani che senza accorgersene aveva serrato a pugno e
sgranchì le dita.
- Il contrario,
- rispose Layla. Sollevò gli occhi e lui vide che erano febbrili. - Non riesco
quasi a credere che sia stato vero e che sia successo a me… Se fossi stato tu…
- proseguì, ma la voce le si ruppe e non fu in grado di continuare.
- Ora smettila,
– l’interruppe Warren duramente. La raggiunse in un balzo e la afferrò per le
braccia come se avesse intenzione di scrollarla. - Avere paura di qualcosa che
non è successo è ridicolo perfino per te. –
- Ma potrebbe, –
insistette Layla a voce bassa, sembrando già meno scossa.
- No. –
- Sì, invece! –
- No. È di me
che stiamo parlando, non di uno stupido decerebrato tutto muscoli e niente
cervello. –
Suonò talmente
sicuro che riuscì a strapparle un sorriso incerto e sollevato insieme. –
Grazie, – la sentì bisbigliare.
- Di niente,
hippie. –
- Sono felice di
essere viva. –
Lui arcuò appena
le sopracciglia, simulando sorpresa. - Ah, sì? –
- Sì, - replicò
Layla tranquilla, scrutandolo da sotto in su tra le ciglia abbassate. - Non mi chiedi perché? –
- Perché potrai
salvare balene e panda, immagino. –
Warren fece un
cenno di sufficienza e Layla lo rimproverò con un’occhiataccia. – Chiedimelo, –
lo pregò sommessamente.
Lui sospirò. -
Perché? -
Layla tirò
indietro le spalle e raddrizzò la testa, puntando lo sguardo nel suo. Serrava
le labbra e cercava di nascondere poco e male un principio di sorriso, ma senza
successo. - Ovviamente anche per fare quello, ma soprattutto perché così sono
ancora in tempo per fare questo. –
Si alzò sulle
punte e poi con grande delicatezza, quasi temesse un rifiuto o piuttosto di
cadere in pezzi come un vaso di cristallo messo sotto pressione se avesse
azzardato movimenti più improvvisi, posò le labbra sulle sue. Non chiuse gli
occhi, non subito almeno. Aveva ancora la polvere di fata attorno al viso
pallido e riflessi d’ambra nei capelli, simili a strascichi di sogno, ma gli
occhi verdi erano nitidi e di una tonalità precisa: quella della speranza prima
che la realtà la frantumi invece di rafforzarla. Quando si staccò, senza che
lui avesse corrisposto a quel bacio timido, appena sfiorato, li chiuse con una
smorfia addolorata. Li riaprì e fissandoli, ancora così vicini e già così diversi,
amareggiati dalla delusione del vedersi respinta e pieni di paure, Warren pensò
di aver perso qualcosa che non sarebbe tornato mai più. Solo perché non era
stato abbastanza rapido nel capire cosa volesse. No, non nel capirlo, ma nel prenderselo. Layla si mosse per
allontanarsi, ma lui la fermò prima che potesse. La baciò con forza, irruente,
e non gli importò che i loro nasi cozzassero né che lei inghiottisse un mugolio
per la sorpresa. Layla gli si abbandonò contro e gli passò le braccia dietro al
collo. La baciò di più, dimenticandosi perfino di respirare eppure sentendo comunque
con violenza il profumo della sua pelle – sapeva di fiori ed erba appena
tagliata e agrumi –, come un incendio dentro di lui. Il suo respiro pungeva
sulla lingua e nel palato come menta piperita.
Nel separarsi le
tenne ferma la nuca e intanto le scrutava il viso con decisione. - Sai di
buono. –
Layla annuì
senza imbarazzo, come se avesse appena detto qualcosa di profondamente
intelligente e non una cosa di cui pentirsi o provare vergogna. - È lavanda, - gli
spiegò con naturalezza. – Da quando sono
tornata a casa, mia madre insiste per farmi degli impacchi ogni giorno. Dice
che serve ad accelerare il processo di guarigione, l’aromaterapia… - s’interruppe perché Warren aveva appoggiato
la fronte contro la sua. – Dille che approvo, – disse prima di baciarla ancora.
***
Non avrebbe mai
potuto immaginare che sarebbe stato così. Il
suo primo bacio.
Beh,
tecnicamente il primo era stato quello scambiato con Will a qualche miglia di
distanza dal suolo terrestre, ma ora poteva riconoscere in tutta onestà che
quello col suo migliore amico nonché ex ragazzo fosse stato solo uno sfiorarsi,
timido e molto tenero certo, ma non un vero bacio, per nulla comparabile a quel
loro. Se qualcuno glielo avesse riferito solo un paio di anni prima non avrebbe
mai neppure creduto che il suo primo vero bacio l’avrebbe scambiato con Warren,
ma questi, oh, erano solo miseri,
ininfluenti, sorvolabili dettagli.
Il respiro di
Warren contro il viso, quello era come aveva pensato che sarebbe stato. Era
bollente sulla sua pelle e le sembrava di sentire ad ogni sfregamento delle
loro mani o dei suoi palmi lungo le braccia e la vita il crepitare elettrico di
energia statica. Le falangi e le dita di lui scorrevano tra i capelli,
trapassandoli da parte a parte. Aveva provveduto a scioglierle i codini con una
rudezza per nulla delicata, ma la sua bocca a quel punto era già sulla sua e Layla
pur se a malincuore aveva ingoiato il rimbrotto e preferito tacere, ascoltando
il risuonare forsennato del cuore contro lo sterno con un senso di trionfo. E
la accarezzava Warren – la testa e il collo, le spalle e i fianchi -, come se
anche lui avesse sempre desiderato farlo, come se avesse aspettato una vita e
ora non potesse più farne a meno. Non volesse
farne a meno.
Quando si
scostarono l’uno dall’altra, ansanti, arrossati, Warren nascondendo un sorriso
che lei al contrario non si negò – felice, felice, felice -, la soddisfazione
faceva risplendere i loro occhi cupamente nella penombra della stradina.
Ora dì che è
stato tutto un sogno, pareva dire il suo sguardo e Layla poggiò la testa contro
la sua spalla, scoppiando in risatine liberatorie per la tensione accumulata in
precedenza.
– Fa’ divertire
anche me, hippie. – Warren le sollevò il mento, chinandosi fino ad avere il
naso ad un soffio dal suo.
Lei non rispose
e Warren la baciò di nuovo. – Warren, - lo chiamò dopo poco, rimanendo però
inascoltata. - Wa - tentò allora più forte, premendogli le mani sul petto e
voltando il viso di lato per scansare l’ennesimo bacio infuocato.
- Zitta, – disse
lui. Le sfiorò la fronte con le labbra. Sapeva d’olio, di carta bruciata e di
biscotti della fortuna. - Se vuoi riprendere fiato ti consiglio di stare zitta.
Detto da te il mio nome suona pericoloso. –
Layla aveva il respiro
corto, come pure migliaia di domande incastrate in un groppo di emozioni senza
suono in gola. Provò a schiarirsela, ma senza ottenere i risultati sperati. -
Perché? – chiese rauca.
- Mettiamola in
termini pratici come piace a te. –
Warren le passò il pollice sulla mandibola con un sorriso che esplose
minaccioso, simile a una miccia da sempre pronta a deflagrare. - Tu dillo e
potresti non tornare a casa stasera. A tuo rischio e pericolo, fa’ la tua
scelta. –
Layla mantenne
il mento ben alto, gli occhi ardenti e le guance accese. Un tramonto di fuoco
ed ombre, pensò Warren, così bello da rendere ancora più feroce il bisogno di
sottrarlo alla vista altrui, di metterlo al sicuro lì dove nessuno avrebbe
potuto rovinarlo o rubarglielo. – Warren, – scandì con semplice determinazione.
Quella notte non
ci furono stelle o luci, nessun artificio. Ci furono solo loro: due ragazzi e
troppe cose da dire non espresse, voci che non trovavano via di fuga,
intrappolate di propria volontà nel loro stesso abbraccio soffocante.
Sani e salvi. Forse non lo erano mai stati. Sempre
con un piede sul baratro o nella fossa, come piaceva dire a Warren, salvi ad
ogni modo non lo sarebbero stati più.
E sani, sempre secondo Warren, conveniva
esserlo o non ci sarebbe stato di ché divertirsi nel tempo libero. Che era sempre troppo poco.
Un paio di settimane dopo…
- Layla e
Warren. Warren e Layla. –
Seduta su una
panchina del parco, Layla spezzettava del pane e poi lo lanciava alle anatre
nel laghetto di fronte. Era autunno, gli alberi attorno apparivano incastonati
in un contesto di sfumature calde nonostante il vento pungente, a tratti
gelido, che li privava delle foglie: un turbine color terra e muschio, carminio
e bronzo-rame.
- Cosa stai
facendo? – le chiese Warren. Aveva un braccio poggiato dietro di lei sulla
panchina, indolente, la testa reclinata all’indietro ad osservare il cielo azzurro
polvere e un’espressione che fino ad un istante prima doveva essere stata
distante anni luce e ora appariva solo incuriosita.
- Suonano bene
insieme, non trovi? “Layla e Warren”, – spiegò con un sorriso soddisfatto e
riprese a canticchiarli a mezza voce come il motivetto di una melodia inventata
di sana pianta.
Warren mosse una
mano per zittirla, seccato. - Ho capito il concetto, puoi smettere ora. Mi fai
venire mal di testa così, – si lamentò, coprendosi la faccia col braccio.
Layla non se la
prese per il tono scorbutico, da moccioso
che fa i capricci, né perse tempo a pensare a possibili ripicche; d’altronde
l’emicrania costituiva di per sé già una punizione sufficiente a suo avviso.
Warren non aveva un carattere irascibile o lunatico. Solo che dopo il lavoro,
specie il turno del pranzo, era facile che si irritasse e in quel caso tendeva
alla scontrosità più tetra. Fece spallucce e riprese a dar da mangiare alle
anatre, dopo essersi aggiustata la sciarpa annodandosela meglio attorno al
collo. La lana le pizzicava la pelle della gola, ma era una sensazione quasi gradevole
tutto sommato e a cui era abituata.
- Hai intenzione
di dirglielo? –
Intuendo a cosa
si riferisse, Layla si voltò ad osservarlo distrattamente. Ancora una volta
pensò con un brivido che davvero avrebbe preferito vederlo un po’ più coperto.
Solo con una maglietta risvoltata e la giacca di pelle buttata accanto e presto
scordata, sebbene emanasse calore anche così conciato, le veniva voglia di
infagottarlo in strati di pullover e abbracciarlo stretto. E non necessariamente
in questo dovuto ordine di priorità. Scosse la testa, sapendo di avere assunto
un’aria accigliata e si riscosse. - A Will? – domandò.
Warren fece una
smorfia. - A chi altri? –
- Certo che sì,
- disse stupita. Per un istante smise perfino di sbriciolare il pane. Incrociò le
mani sul sacchetto di plastica riciclata che lo conteneva e lo fissò con
meraviglia. - Non vuoi che lo sappia? –
Fu Warren a
sorprendersi stavolta, anche se cercò di non darlo a vedere; le lanciò
un’occhiata in tralice. - Perché non dovrei volerlo? –
- È tuo amico, –
rispose Layla in tono d’ovvietà.
- Anche tuo. –
- Nel mio caso è
diverso. –
- Spero proprio
di sì, - Warren scostò di poco il braccio dal viso, rivolgendole un mezzo
sogghigno canzonatore. - Io non l’ho
mai baciato. –
Layla gli diede
una spinta leggera. – Stupido, - lo rimproverò. - Mi riferivo al fatto che
praticamente lo conosco da sempre. La sua prima parola è stato il mio nome,
sai? – Sorrise intenerita al pensiero e per i ricordi della loro infanzia che quello
aveva saputo rievocare.
Warren si adombrò
impercettibilmente. - Una cosa deliziosa, davvero, – scandì a denti stretti. Layla
nascose un sorriso impertinente che lui avrebbe di sicuro trovato offensivo,
oltre che fuori luogo. - Sei geloso? – lo provocò. Non ottenne altra risposta
se non un brontolio di avvertimento.
Allora scoppiò a
ridere e batté le mani come una bambina. - Sei geloso! – esclamò.
Warren riemerse
dalla cupezza, freddandola con gli occhi. - Smettila di fare la ragazzina. –
- Si dà il caso
che io sia una ragazzina, – gli
rinfacciò lei e rise più forte. Smise quando Warren l’asserragliò a sorpresa in
un abbraccio improvviso. Era stato tanto inaspettato e veloce che dapprima si
ritrovò quasi senza fiato. La guancia premuta contro la scapola di Warren, si
ritrovò a soffocare un’imprecazione. Warren rise come se le avesse letto nel
pensiero e la risata gli rimbombò in petto, gorgogliante sotto le orecchie di
Layla.
- Non lo sei invece
o non potrei fare questo. – Le prese la mano e baciò l’interno del polso con
lentezza, poi piegò la testa in avanti e le sfiorò la gola, sciogliendo il nodo
della sciarpa. Aprì il cappotto e dopo averlo sbottonato le sue mani corsero
sull’addome, sotto al maglione. Layla rabbrividì, ma non per il freddo. Le dita
di Warren erano piccoli mulinelli d’aria calda, rilassanti e carezzevoli, i
suoi baci vortici in cui sprofondare ed
essere avviluppati. Le baciò la porzione di pelle sotto la clavicola, tirando la
scollatura più in basso di quanto fosse possibile in teoria. E intanto le
sussurrava all’orecchio con tono accattivante: - E questo… E anche questo. - La
trattenne contro di sé come se volesse rimpicciolirla per farla entrare tutta
nell’arco sicuro e circoscritto dalle sue braccia. Il suo sguardo da volpe
scintillò scaltro, biasimevole, ad uno sbuffo dal suo. - Allora… Sei una
ragazzina? – domandò.
Il sorriso sfrontato con cui avrebbe voluto rispondergli per le rime era troppo arricciato e tremulo agli angoli per risultare autentico. Il fatto era che accanto a lui, specie quando era così vicino, provava tante di quelle emozioni contrastanti da avere l’impressione di essere un pallone aerostatico sul punto di scoppiare. Acquisiva una percezione completamente differente di sé e del proprio corpo. Ogni centimetro di pelle era un sensore pronto a reagire con un’esplosione, diventava recettivo e ardente. Quando Warren la toccava in quel modo, molto semplicemente ogni altra cosa scompariva. Anche adesso. A pochi metri da loro il lago rifulgeva di riverberi amaranto e arancioni, come se fosse coperto di fogli scartavetrati, le anatre starnazzavano reclamando la sua attenzione, ma il cartoccio le giaceva dimentico in grembo, schiacciato dalla presa irruenta delle braccia di Warren chiuse attorno alla sua vita. In casi come quelli Layla si addentrava in uno stato di sospensione assoluta in cui tutto ciò a cui riusciva a pensare era assai poco lucidamente Warren. Warren e il suo calore, la sua energia, la sua fame insaziabile di baci e strette, di lei. Anche se sciocca, ostinata e irrazionale, al tempo stesso poteva dire di non essersi mai sentita così matura e grande e potente. Bloccata nell’abbraccio di Warren, con le sue labbra sulla gola e il respiro rovente sotto la mandibola, le scorreva dentro un fiume di lava incandescente. Un acido corrosivo che erodeva vecchie strutture per crearne di nuove sotto la sua supervisione, di più grandi e resistenti. Indistruttibili. La bambina e la ragazzina morivano per cedere il posto alla donna che era tempo che diventasse. Stava fiorendo, le avrebbe detto sua madre. Sospirò, stringendo le dita attorno alle pieghe della maglietta di Warren, sull’ampia schiena. Sotto i palmi percepiva i muscoli scattanti, guizzi di tendini e di quell’incendio che gli dava l’aspetto da cattivo impenitente. Braci negli occhi di pece e la promessa dell’inferno nel sorriso smaliziato e tagliente riservato ai nemici.
- Diciamo
una donna in erba, – si arrese.
Non poteva
vederlo, ma lo sentì arcuare la bocca in un sorriso che poi le posò sulla tempia
con sentimento. Si sentiva i nervi scoperti e al contempo rilassata come non
mai. - Donna in erba… - ripeté Warren, stringendola di meno e scostandosi un
po’, lo spazio necessario per scrutarla in volto con interesse. Nel sole di
metà pomeriggio, i suoi occhi avevano una luce divertita cadenzata dal languore
che glielo scuriva. - Mi piace, – disse e le tolse una foglia secca che era rimasta
impigliata tra i suoi capelli. Le diede fuoco in punta di polpastrelli e la
foglia arse fino a ridursi in cenere e riempire lo spazio tra loro dell’odore
strano di terra bagnata e zucchero bruciato. Warren ne approfittò anche per
scioglierle la crocchia improvvisata, tirandole l’elastico. Le pizzicò una
guancia e Layla si sporse per baciarlo piano. Gli picchiettò l’indice sul naso
e fece un ampio sorriso luminoso. - Buon per te, Mangiafuoco. –
Sono mesi, no anni,
che desidero ultimare quello che per me è una sorta di filone, una serie di storie
indipendenti tra loro, ma con un tema centrale contrassegnante a unirle: l’evoluzione
di un rapporto.
Senza voler
usare paroloni, un rapporto è qualcosa di complesso la cui evoluzione, appunto,
si basa su molteplici fattori. Primo tra tutti e su tutti, la crescita
personale degli individui.
I Warren e Layla
che ho presentato qui sono molto diversi da quelli del film. Hanno una
percezione differente di sé e del mondo, più matura e consapevole forse,
raggiungono la totale presa di coscienza delle responsabilità con cui sono costretti
a fare i conti ogni giorno e del ruolo che rivestono all’interno della
cittadina in qualità di eroi. Non sono più i ragazzini che giocano a fare i
salvatori della Sky High o che sognano di diventarlo. Sono uomini e donne agli
albori delle loro carriere, che si barcamenano tra la fine dell’adolescenza e l’inizio
dell’età adulta, con tutte le complicazioni e i problemi che il passaggio
comporta. Temo di non aver reso al meglio Warren, la sua lotta interiore tra ciò
che è giusto e ciò che non lo è, tra dovere e lealtà nei confronti di Will e i
suoi sentimenti per Layla. Sentimenti che esplodono al momento dell’attacco e
lo portano finalmente a sfogare tutta la rabbia e la preoccupazione represse,
ad arrendersi a ciò che prova senza farsene una colpa eccessiva.
Non mi soffermo
su Layla, troppo emotiva e insicura e poi di colpo sfacciata. Insomma, credo
di aver fatto un bel pasticcio!
Spero però anche
di aver cavato qualcosa di buono e nel concludere finalmente, metto la parola
fine su Warren e Layla o Layla e Warren, che dir si voglia, xD
Non credo di
riuscire più a star dietro a questi due con la stessa facilità del passato. Sono
diventati troppo complicati da riportare su carta, sono cresciuti insieme a me
e perciò mi è impossibile renderli in modo obiettivo. Nonostante tutte le
sciocchezze appena dette, - sono le due di notte e spero me la farete passare
liscia almeno stavolta, - mi auguro che la lettura sia stata di vostro
gradimento.
Un abbraccio a
tutti e buon fine vacanze a chi può ancora concedersi qualche giorno di tregua.
Tra qualche ora io parto per una capatina a Genova dai miei zii e non sono in
me dalla gioia. Ho i nervi a fior di pelle per la frenesia dei preparativi! Ho sempre
il terrore di dimenticare qualcosa, del tipo carta d’identità o biglietti per
il treno… speriamo bene (: