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Autore: Scandal    22/08/2012    3 recensioni
Irish.
"Ma lui la paura del buio non ce l'aveva mai avuta, considerò, mentre fuori dal finestrino si susseguivano miriadi di chiazze luminose e vivide. I lampioni nella notte.
Neanche da bambino si era intimidito di fronte ad un interrutore spento. Ricordava bene quando scendeva nello scantinato, immerso nel nero. Perché alla fine il buio non era che questo: nero.
Ed è sciocco aver paura di un colore, pensò, oltrepassando una Porsche d'epoca affiancata ad un marciapiede.
"
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Altro Personaggio, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza
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 La storia è ambientata durante il primo periodo di spionaggio di Hidemi: Pisco è quindi ancora vivo. Irish è identificato come SEAN. [pronuncia “scion”]
 

I
So Lonely.

•~•~•~•

Speciale dedica ai Police, i miei musi (?),
e ad Aya_Brea,
l’unica persona innamorata di Irish
tanto quanto me.

 

 
 

No surprise no mystery 
In this theatre that I call my soul 
I always play the starring role”

 
Ormai non sopportava più quell’odore di anfetamina che velleggiava per la stanza. Tuttavia non si mosse dalla poltrona in pelle dov’era seduto. Tutto poteva aspettare, in quel momento: se ci fosse stato qualcosa d’importante, esso sarebbe mutato in un bisogno impellente e lui l’avrebbe notato. Ma dato che nulla s’era manifestato, non c’era nessuna vaga motivazione che lo potesse lontanamente distrarre dal suo lavoro. Sfogliò le ultime cartelle cliniche, per verificare che tutto fosse in ordine, e poi quel senso di stanchezza che ormai lo attanagliava da tempo lo invase nuovamente.
Accecato dal desiderio, si sfilò dalla tasca un piccolo portapillole. Dentro c’era quella tanto famosa sostanza dopante: l’anfetamina. Mando giù una capsula di quella leggera droga. Dopo qualche minuto si sentì meglio e proseguì a smistare le sue scartoffie.
Sean era un uomo di appena trent’anni, con i capelli castano mogano che gli fluivano in fronte morbidi e due occhi vispi e attenti. Di fatto aveva tutto ciò che un singolo individuo potesse desiderare: bell’aspetto, un acume non indifferente e un buon lavoro da cardiochirurgo che assorbiva le sue giornate. C’era un’unica pecca nella sua vita: lui era solo, e questa solitudine lo rendeva estremamente debole. Era arrivato perfino a doparsi, giusto per non cadere in quel grosso baratro che era la depressione.
Erano passati anni da quando aveva salutato Hidemi, primo e ultimo “amore”. Lei si era mostrata tutto ad un tratto bisognosa di compiere un lungo viaggio verso l’America, e da lì non l’aveva più vista, né sentita tramite cellulare. Come se fosse scomparsa nell’ombra. Come se si fosse annullata per poi ricomparire sotto altre spoglie.
Lui aveva inteso quell’avvenimento come un chiaro messaggio d’addio e, adirato, aveva perfino cancellato il numero della ragazza dalla sua rubrica.
Un grande sbaglio: quella donna forse, in quei giorni difficili, era l’unica degna di darle il conforto necessario ad andare avanti. La sua carriera proseguiva, certo, ma niente era più come prima. Il sentimento e le passioni sembravano come scomparse dalla sua vita, con l’ ”arrivederci” di Hidemi.
E la sua famiglia? Se ne stava nella periferia di Tokyo, e ogni tanto passava a trovare la madre. Il convoglio Tottori-Tokyo però era scomodo e lercio, e viaggiare fino alla metropoli si rivelava un’irrimediabile seccatura. Così le visite si erano ridotte fino a risultare quasi nulle.
La sua unica occupazione era stare seduto su quella poltrona di pelle, o al massimo in sala operatoria, e sanare tutti quei cuori malati che si presentavano allo stetoscopio in sala visite.
Al suo però, di cuore, non ci pensava nessuno.

 

***

 

Quella mattina aveva portato una ventata giovane e fresca nell’animo di Sean. Chiuse con uno scatto la sua ventiquattrore di pelle nera e uscì a passo spedito dalla sua villa di Tottori. S’infilò nella sua berlina blu pastello e raggiunse un bar nella periferia della città.

Qualche minuto dopo, era seduto su una sedia in pagliericcio di un locale molto di nicchia e dal sentore vagamente vintage. Controllava con cipiglio contrito le lancette dell’orologio. Quel ticchettare così perfettamente scandito e regolare lo infastidiva non poco. Di fronte a lui stava un posto vuoto, e protetto con cura quasi fosse il classico baule pieno di monete tintinnanti.
“Vuole ordinare, signore?” Una giovane donnicciola lo squadrò da capo a piedi con interesse. Si mordicchiò un labbro carnoso e puntò la sfera della biro sulla carta ancora tersa del suo blocchetto.
Quell’atmosfera carica di malizia e doppi fini innervosì Sean. Non gli erano mai piaciute le ragazze così sfrontate; le femme fatali per lui erano solo spazzatura: donne che non riuscivano ad addescare nessuno col proprio e naturale aspetto ed atteggiamento, e che perciò si tuffavano in quel mare denso di rossetti scarlatti, minigonne inguinali e calze a rete, convinte che tutto quel sex appeal avrebbe concretamente cambiato qualcosa. La verità era che quando le conoscevi a fondo si rivelavano come tutte le altre: scialbe, sciatte, morte e prive d’interessi.

“No, grazie.” Esordì, secco. “Sto aspettando un amico.”
La ragazza lo guardò quasi come allibita, sorpresa: nessuno prima d’ora aveva mai resistito al suo fascino. Tutti la catalogavano come donna dalla bruciante lussuria, ma a lui sembrava soltanto una prostituta viziata.
“Per me un irish.” Intervenne brusca un’altra presenza. Un uomo sulla cinquantina, dai capelli candidi quanto canuti, s’accomodo sul quella preziosa sedia che Sean aveva gelosamente custodito. Presentava alcune piccole escoriazioni sulla pelle, bruciature mal curate, che non sfuggirono all’occhio allenato di Sean. Ne seguì la traccia: erano mediamente piccole e circolari. Andavano scemando sull’attaccatura dei baffi, dove non era possibile indagare a causa della loro foltezza.

“La mia vecchia pelle …” Sospirò l’uomo, intercettando lo sguardo critico dell’amico. Questi ridacchiò: l’altro stava mentendo, lo si vedeva palesemente.
“Come ti sei procurato tutte quelle ferite, Pisco?” Lo redarguì, inarcando verso l’alto le labbra. Non sorrideva: si era dipinto d’una smorfia di sfida.
Pisco lo ignorò. Era mutato tanto il loro rapporto, negli ultimi anni: da intimi confidenti erano diventati custodi di segreti. L’uno per le sue losche faccende, l’altro per la sua odierna sofferenza.
“Ho capito.” Disse a questo punto Sean, stizzito. “Cambiamo discorso. Che mi racconti?”

Pisco si prese un attimo per rispondere, d’un tratto solerte.
“La cameriera ti ha puntato.” Confessò.
Il tono con cui aveva parlato non piacque a Sean, che prese a sfogliare velocemente il menù dei liquori. Sherry, gin, vodka, vermouth. Quale avrebbe scelto?
“Oh, andiamo. Da quando Hidemi” –la sua voce tremò nel pronunciare quel nome- “ti ha lasciato, hai cominciato a chiuderti sempre di più verso le donne. Lasciati andare, per l’amor di Dio!”

“E pensi che una scopata aiuterebbe a sbloccarmi? Mi conosci davvero poco” Osservò il giovane con ferocia.
A quel punto Pisco affinò il suo sguardo, irritato, e gli rivolse un’occhiata perentoria. I suoi occhi brillavano alla luce del mattino. Il bianco attorno all’iride scura si fece rosato, in preda ad un sentimento travolgente.
“Hidemi” –ancora quel fremito- “te la devi scordare. Lei non tornerà! E se lo farà non sarà più quella di una volta.” Concluse, criptico. “Ti saluto.”
Bevve l’ultimo sorso di irish dal bicchiere di cristallo, lasciando sul fondo  piccole verità e grandi segreti.

***

 

Poggiò le mani ai bordi del lavello del bagno e rivolse gli occhi allo specchio. I suoi lineamenti, di solito dolci e sottili, erano carichi d’ansia e tensione. Quella che l’aspettava non era una missione di piccolo calibro, bensì qualcosa che comprometteva ogni suo principio, ogni principio che suo padre le aveva trasmesso con pazienza. Suo padre che era morto per salvarla.

“Non fare la sciocca, Hidemi” Si ripromise mentalmente, impugnando con presa salda l’astuccio dove riponeva i cosmetici. Ne tirò fuori un piccolo stick: burro cacao al cocco. Lo lasciò scivolare piano sulle sue labbra sottili, che poi strinse. Aspettò che la patina lucente aderisse. Si sentì immediatamente più rilassata: da quando era nel giro, aveva imparato ad apprezzare anche le più piccole azioni quotidiane. Solo quelle, ormai, riuscivano a darle un senso di profonda sicurezza.

Ripose il balsamo per la bocca ed estrasse successivamente un ombretto ceruleo: se c’era una cosa che odiava di quell’Organizzazione, era come la costringessero ad essere bella e provocante solo nel momento in cui avesse dovuto affrontare uno spargimento di sangue. Feste e festini erano aboliti, ma a quelle non ci pensava più. Le bastava sapere di essere arrivata sana e salva la notte nel suo letto.

L’auricolare che aveva nell’orecchio vibrò. Hidemi la premette d’istinto, d’un tratto di nuovo angosciata.
“Buongiorno, mia cara Kir” Proferì la solita voce glaciale, fredda, mascherata da uno spesso strato di zucchero.
“Gin. Che vuoi?” Ringhiò di tutta risposta. In quell’ istituzione gerarchica era in atto la selezione naturale: se ti dimostravi dolce e fragile, potevi ben scordarti di sopravvivere.
“La missione di oggi è all’Ospedale di Tottori. Un medico ci sta dando delle rogne. Tutto quello che devi fare è far finta di consegnarli la somma promessa… e poi…zac!” Hidemi rabbrividì. “Gli pianti una pallottola in testa. Tutto chiaro? Vedi di non fare errori, sai come potrebbe andare a finire.”
“Non sono stupida, Gin.”
Tottori era la città dov’era vissuta da ragazza: sarebbe stato relativamente facile orientarsi ed eseguire gli ordini.
Tottori era la città dov’era vissuta da ragazza…
….da ragazza…
…. da ragazza…

“Come si chiama la vittima?” Chiese, aspra per recita. L’unica cosa che avrebbe voluto fare non era lontana dal piangere.
“Haru Tutseda. Ti segni tutti quelli che uccidi, per caso?”
“No. Curiosità. Ora chiudo, Gin. Ho di meglio da fare”
“Immagino.” Ghignò l’altro.
Chiuse la comunicazione e si lasciò andare ad un sospiro liberatorio. La verità non era tragica come si aspettava: la vittima non era Sean.


***

Orario di visite.

Indossò il solito camice bianco, lungo fino a metà ginocchia. Ripose una penna nel taschino destro e aprì il suo registro da medico curante.

La sua mente si annebbiò per un secondo, ripensando a fatti del passato come se si stessero succedendo in quell’istante. Gli capitava spesso, troppo spesso. Batté la punta della stilografica sul foglio, che per errore schizzò un lungo e corposo getto di inchiostro nero.

Con stizza, ripulì quel piccolo libro con un fazzolettino di carta e attese pazientemente che il campanello suonasse, annunciandogli un nuovo caso da studiare.

E, finalmente, udì quello scampanellio famigliare e il sollievo lo avvolse: non era più solo.

Quando il paziente entrò, Sean ebbe un piccolo tumulto: quell’uomo indossava una divisa da poliziotto. Che fosse lì per accertamenti giudiziari?

Ricompose la sua solita fredezza che si era sgretolata in un millisecondo e si alzò in piedi, stringendogli una mano. L’uomo portava una cinta attorno alla vita, equipaggiata di pistola e manette. Che strano. Perché non se le era tolte prima di entrare in ambulatorio?

“Sta sudando” Lo avvisò. Era vero: quel signore, più o meno intorno alla mezza età, presentava una fronte piuttosto lucida sulla quale sembrava essersi formata della condensa, che alla fine non era che uno spesso strato di sudore.

“Dottore! Mi deve aiutare!” Esclamò il poliziotto, visibilmente sotto shock.

“Sono qua per questo. Si sieda, innanzitutto”

Egli si accomodò sulla poltroncina un po’ rigida e iniziò tartagliando il suo racconto.

“Come avrà intuito,faccio parte delle forze dell’ordine. Oggi ho fatto la solita visita periodica di idoneità e il giovane specializzando, dopo avermi auscultato, mi ha diagnosticato un grave disturbo al cuore. Mi ha consigliato di farmi vedere da un chirurgo perché con tutta probabilità dovevo essere operato.”

Oh. Sean cominciava a comprendere il motivo di tutta quell’ agitazione, ma non si scompose. Estrasse lo stetoscopio dalla sua fidata ventiquattrore e si mise le due estremità apposite appena poggiate sul condotto auricolare.

“Per prima cosa verifichiamo se tutto ciò che le è stato diagnosticato sia effettivamente vero. Dopodiché, procederemo con un elettrocardiogramma per ulteriori accertamenti.”

Il dottore seguì le sue solite procedure, e dopo aver auscultato diverse volte l’organo del signore, sorrise sardonico.

“Gli specializzandi il più delle volte non sono affidabili. Ha un normalissimo soffio al cuore, non si preoccupi.”

Ringraziato Dio e tutti i Santi, il paziente finalmente si decise a seguire il dottore, che a passo spedito lo conduceva verso la stanza dell’elettrocardiogramma.

Passarono numerosi corridoi, stanze buie e depositi d’oggetti di uso pubblico: la camera adibita a quel tipo di visite si trovava piuttosto isolata dal resto dell’ospedale, per evitare interferenze d’ogni tipo con i vari macchinari.

E in uno di questi piccoli corridoi, la vide. Prima sotto shock, placò i suoi passi di colpo, nonostante le proteste del poliziotto. Poi, iniziò a chiedersi perché avesse una valigetta sottobraccio e una Calibro 40 puntata verso il primario di geriatria, Haru Tutseda.

Hidemi era lì. Ma Pisco aveva avuto ragione: Hidemi era tornata, ma non era più quella di una volta. Era un’assassina, non la giovane e spensierata ragazza d’un tempo.

IL suo cervello iniziò a valutare le possibilità su come cercare di fermare quel crimine. Al suo fianco aveva un poliziotto, ma era un paziente, e come tale non doveva essere messo in pericolo.

Con una mossa rapida del braccio destro sfilò la pistola dalla cinta che quell’uomo portava in vita, correndo con rapidi movimenti dei polpacci verso Haru.

Puntò la canna della pistola dinnanzi Hidemi, che lo fissava ad occhi spalancati, quasi immobilizzata. La manina gracile di lei tremava sotto il peso della sorpresa: non avrebbe mai potuto sparare. Quello doveva essere un lavoro silenzioso e di precisione, non una mera sparatoria.

“Metti giù quella pistola, chiunque tu sia” Sputò con rabbia Sean. Come aveva potuto ridursi così? Quella non era più la ragazza che amava.

Hidemi lasciò cadere l'arma terra, e con un balzo corse via, diretta all'uscita.

Lei era salva, sì. Ma il crimine non era stato portato a termine: Haru era vivo.

Chissà cosa le avrebbe fatto Gin.

Sean si accertò delle condizioni del collega, bruciando dentro.

Per quanto non fosse stata più lei, e lui ne fosse consapevole,

non aveva avuto il coraggio di fermarla.

  
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