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Autore: Lisey26    23/08/2012    0 recensioni
Il primo rintocco quasi non lo sento, perché sto sputando addosso a mia sorella tutto quello che passa per la mia testa.
Al secondo comincio a rendermi conto che sta parlando anche lei.
Al terzo rifletto che, di conseguenza, lei non sta ascoltando me, e smetto di parlare.
Al quarto mi dico che dovrei cercare di capire quello che vuole dirmi, perché le sue parole sono sempre sagge.
Al quinto mi chiedo se non sia lei ad essere un’abile venditrice di fumo, piena di parole che suonano bene.
Al sesto so che lei ha dettato legge in questo modo in tutta la mia vita.
Il settimo rintocco è una vibrazione nel mio stomaco, dal fegato fino alla gola, voglio vomitare bile. L’ottavo rintocco è verde acido, è la rabbia che sale.
Il nono è sapere che voglio che stia zitta. Voglio che stia zitta per sempre, voglio che non parli mai più.
Il decimo rintocco è l’aggiunta da parte di una voce pacata, nella mia testa, che dice che farà bene a tutti e due. Farà bene a me, e per una volta non mi importerà se farà bene anche a lei. Lei non si è preoccupata di farmi male, dicendomi che mi lascia solo.
Mentre rimbomba l’undicesima ora di questa giornata, la mia mano sinistra si solleva. Ho ancora l’eco della campana nei timpani, quando abbasso il gomito e il palmo slitta sul suo viso bagnato.
Genere: Angst | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando Evelyne rientrò, mi trovò seduto sul divano, pulito e pensoso, ancora avvolto nel suo accappatoio rosa. La tv accesa mandava cartoni animati giapponesi, dagli occhi enormi e triangolari, che io non stavo minimamente seguendo.
-Non preoccuparti, quello che è mio è tuo- fu il suo sarcastico esordio, i suoi occhi glaciali scivolarono sulla morbida spugna dell’accappatoio da donna. Prese posto sul divano, si impossessò del telecomando e cambiò canale, sintonizzandosi su un canale che trasmetteva musica pop. Era piuttosto tardi, attorno alle due di un sabato mattina, e l’oscurità sembrava battere sulle finestre per entrare e mettere in subbuglio il salotto ordinato. Non avevo toccato quasi nulla in casa, eccetto l’accappatoio e un sandwich confezionato al pollo, che avevo scovato in frigo. La mia ospite rimase in silenzio alcuni minuti, poi, senza preavviso, scattò in piedi e marciò verso la cucina. Fu di ritorno poco dopo, con un vassoio sul quale traballavano in mirabile equilibrio una ciotola di nachos, salsa al chili e birra.
Trascorse un’ora senza che ce ne accorgessimo, surriscaldati dal chili. Terminammo la birra e io, con la bocca impastata di patatine messicane, feci presente che la tequila era obbligatoria.
Evelyne non ne aveva in casa, e dovette uscire per andare a comprarla al 0-24 all’angolo. Quando tornò con la bottiglia, sale e limoni, notai che portava ancora l’uniforme, ma che le mancava il cappello. Il cappello troneggiava sulla mia testa. I capelli sottili erano stati gonfiati dalla pioggia rada, le sue mani nude erano rosse per il freddo.
Sparirono diversi bicchierini fra le nostre fauci, allo stesso ritmo e brindando ogni volta a qualcosa di nuovo. Alla luna, alla neve, al passato, all’attimo fuggente, il sale ruvido sulla lingua, sciacquato da 35 gradi di tequila e subito inasprito dal limone. Quando la bottiglia giunse oltre la metà, in un tacito accordo dato da un’occhiata in tralice, abbandonammo la tequila e ci adagiammo contro lo schienale, spalla su spalla, almeno finché lei non scivolò fino a posarmi la testa contro il petto.
Non mi ribellai: c’era qualcosa di naturale nel peso della sua testa. Come se il suo posto fosse sempre stato il mio corpo. Parve accorgersene anche lei, perché ebbe un fremito e levò gli occhi su di me. I suoi capelli erano ancora umidi, ma curiosamente caldi, ora l’alone di pioggia aveva superato la t-shirt unisex che lei aveva pescato per me dal suo armadio.
Sarebbe dovuta finire allo stesso modo con Mary. Accoccolati l’uno sull’altra sul divano di casa, come una coppia di gatti, come dopo ogni litigio. Avevo ancora gli occhi fissi in quelli della mia ospite, la cui sfumatura mi ricordava in modo preoccupante quella degli occhi di mia sorella. Raddrizzò la schiena e mi guardò con il principio di un sorriso sulle labbra sottili, ma con una sorta di paura nel modo in cui strinse gli occhi. Era l’effetto della tequila, o Mary si sarebbe mossa nello stesso modo? Mary avrebbe mosso nervosamente il labbro inferiore, come lo mosse Evelyne? Si sarebbe portata verso di me? Lei mi avrebbe indirizzato un’occhiata perentoria. Avrebbe chiuso gli occhi, nel momento in cui le sue labbra avessero toccato le mie. Li chiusi anch’io.
Di chi erano le mani sotto alla mia t-shirt? Dovetti aprire gli occhi per controllare. Era Mary. Era Evelyne. Erano entrambe e nessuna delle due. Ora ammiccava l’ombra delle lentiggini, ora prevaleva il capello biondo, mentre crollavo sotto al peso di lei. La mia Mary si era nascosta in Evelyne, o Evelyne era sempre stata Mary. Mia sorella mi aveva imbrogliato, mi aveva imbrogliato Evelyne. Chi era quella sul divano con me, e chi quella che avevo ucciso? Strinsi gli occhi con forza.
  
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