Alexander Kapranos appartiene a sé stesso, non fa quel che ho scritto e se mi scoprisse mi dedicherebbe qualche caustica canzone che conterrebbe insulti accuratamente celati dietro citazioni omeriche and other weird shit. Lui è figo così. ♥
Credo sia un esercizio di stile, più che altro – così, per riprendere contatto con la mia parte saccente e tutti i paroloni che usavo da piccina. In più, è anche una specie di inside joke ed è anche un esperimento "aperto", nel senso che potrei o non potrei scrivere qualche altro capitolo in stile raccolta... Non lo so, boh. E comunque "pioveva e mi annoiavo" è la giustificazione vera di quel che è scritto qui, in pratica. XD
Ci sono accenni al Matthew Bellamy/Dominic Howard (BellDom, olé) e un sacco di più o meno esplicito Kapranos/Howard (… Kaproward? Ugh). Non è importantissimo ai fini della comprensione della storia, ma se non avete visto Casablanca vi perdete a) i riferimenti e b) un gran bel film. Fangirls avvisate...
Trovarlo
non è facile.
Occorre far parte del giro, per distinguerlo fra le mille porte
malmesse tutte uguali di quel distretto malfamato, o arrivarci per
caso, guidati dalla mano improvvida e un po' bastarda del Destino.
Di sicuro, in qualche
modo, chiunque ci arrivi si è perso. Dietro un'indicazione
farfugliata in fretta e furia dal titolare del chiosco di falafel
giù
all'angolo o dietro un fantasma o meglio ancora, dietro un'illusione.
Nel caso di Tom, a
metterci lo zampino erano stati una giornata di pioggia, un autobus
troppo lento ed un colloquio di lavoro andato a puttane per via del
ritardo.
La porta era aperta, e da
dentro venivano musica swing ed una fioca luce rossastra –
quel
tanto che bastava a qualificare il luogo come un bar, ossia
ciò di
cui Tom aveva decisamente bisogno al momento.
Non ricordava granché di
quella sera. Aveva posto molte domande al barman – un
anacronismo
su due piedi che pareva aver votato la propria vita allo scopo di
diventare il sosia ufficiale di Humphrey Bogart, dai vestiti ai
capelli alla sigaretta che gli pendeva ad un angolo della bocca, e
che si era spinto al punto di chiamare il luogo “Rock's
Café”
cambiando la “i” in “o” forse
per evitare di affondare
ulteriormente nel ridicolo – e, a fine serata, si era
candidato
come suo aiutante. Dato che il locale era pressoché vuoto e
probabilmente non navigava in acque eccellenti, la sua poteva essere
stata una mossa stupida – ma tant'erano la disperazione, e la
vodka.
Il proprietario non
sembrava pensarla così: gli aveva dato appuntamento il
giorno dopo,
scribacchiando il proprio nome – ironicamente, Humphrey si
chiama
davvero Humphrey - data, ora e luogo su un
foglietto, e gli
aveva chiesto di procurarsi uno smoking o, in alternativa, una
camicia bianca ed un papillon nero.
Quindi, eccolo qui che si
riaggiusta il farfallino un po' tarmato sulla camicia troppo lunga
del frac appartenuto a quel marcantonio di suo nonno, attendendo
istruzioni dal suo nuovo datore di lavoro sul da farsi.
In barba al cartello
Vietato Fumare, avvolto dal cono d'ombra dell'angolo più
oscuro di
tutto il bar, l'uomo emerge dalla porticina del retrobottega e tira
fuori da un portasigarette in pelle di pitone la sigaretta
più lunga
che Tom abbia mai visto in vita sua: senza salutare il ragazzo,
Humphrey la accende ed aspira una lunga boccata di fumo. Fissa Tom da
sotto in su e mormora con voce impostata ed apparentemente un filo
annoiata: - Sei dalla parte sbagliata del bancone, ragazzo.
Tom si guarda attorno,
ridendo nervosamente.
- Sì, be', volevo sapere
cosa devo fare...
- Vieni qui dietro,
allora.
Il ragazzo quasi
incespica, nel raggiungere Humphrey dietro il bancone: attende
istruzioni, ma queste tardano ad arrivare. Sta per cercarle
attivamente, quando finalmente l'uomo accanto a lui apre bocca non
solo per farsi un tiro di sigaretta.
- Guarda di fronte a te.
Tom annuisce
vigorosamente, obbedendo.
Di fronte a loro, una
platea di tavolini vuoti in metallo cromato e sotto i loro nasi,
accanto al ripiano lucido e scuro del bancone, tre sgabelli neri con
la seduta di paglia intrecciata.
- Quello che vedi non è
ciò che sembra... Un locale in procinto di fallire, uno
spreco di
tempo e risorse.
Vuole ribattere, Tom,
colto dall'istintivo bisogno di precisare che non la pensa affatto
così e che, anzi, quel posto sembra così distinto
e retrò ma non
nella maniera artificiale e vuota di certi bar
“giusti”, dove il
passato viene esaltato solo perché la sindrome
dell'Età dell'Oro è
uno dei pochi valori universali esistenti e quindi meritevole di
essere sfruttato per far soldi. No, quel posto è...
Veramente
vecchio, quasi antico, in un modo inspiegabile...
- … questo locale è
frequentato da una clientela altamente selezionata, che si ritrova
qui per circostanze particolari e richiede un servizio altrettanto
particolare.
Tom si volta verso
Humphrey, che senza guardarlo specifica con voce piatta: - Non
è un
bordello. Ho detto “servizio particolare”, e
ciò che offre un
bordello è quanto di più ordinario e trito esista
al mondo.
- Devi solo sapere che in
alcune serate arriverà della gente, e che dovrai trattarla
in un
certo modo.
- E come...?
- Lo saprai quando
arriverà. Ogni cliente è fatto a modo suo, e non
posso
illustrartelo senza che tu l'abbia di fronte. Le persone si studiano
dal vivo, ragazzo, non per sentito dire.
Di nuovo Tom annuisce,
stavolta più lentamente.
La porta si apre, è
arrivato un cliente.
Un uomo alto, biondo,
vestito con un completo bianco dalla camicia fino alle scarpe
passando per la cravatta dal nodo largo, attraversa la soglia con
passo lungo ed aggraziato e si siede su uno sgabello.
Senza proferire parola
alza lo sguardo su Humphrey, il quale mormora: - Nottataccia, questa.
- E quando non lo è. -
ribatte amaro l'avventore.
Quando Tom lo vede in
faccia per bene, trasale.
Cercando di nascondere il
proprio stato d'animo al cliente, si avvicina ad Humphrey che sta
stappando una bottiglia di quello che sembra champagne piuttosto
costoso.
- Ma quello è Alex Kap-
- Quello è il Greco, una
vecchia conoscenza del nostro bar. Ogni venerdì sera, per
prima
cosa, si siede e ordina un flûte
di Veuve Clicquot del duemiladue.
Tom si volta a
controllare il nuovo arrivato, il quale non
sembra aver colto la conversazione fra lui ed il proprietario del
bar.
In
compenso, sta facendo cenno al ragazzo di venirgli più
vicino.
- Sei nuovo, tu. -
- Sì, mhm... Salve. -
- Come ti chiami?
- Tom, signore.
- Tom... Un nome sano, e
dimesso seppur dignitoso. Un nome da brav'uomo.
- Uh... Grazie.
- Non era un complimento.
Nessun brav'uomo ha mai scritto la storia, caro Tom... E neanche una
storia, né tantomeno una storia d'amore.
Il Greco porta di nuovo
il bicchiere alle labbra, reclinando il capo appena per sorbire le
ultime gocce di champagne rimaste sul fondo. Nel frattempo, Humphrey
li ha raggiunti.
- Adesso comincerà a
narrarti del Biondo e della Pantegana. - annuncia, a voce bassa.
- … di chi?
- Ascolta.
Come anticipato dal
barman, il cliente inizia a raccontare.
- Biondo era, e bello e
di gentile aspetto, direbbe un poeta italiano di cui probabilmente
non conosci neanche il nome, mio piccolo Tom che ad occhio e croce
hai appena terminato la scuola dell'obbligo e, mi permetto di
azzardare, non hai alcuna fretta di proseguire il tuo percorso di
studi. Ad ogni modo, aggiungerei che trattasi di una creatura
maliziosa ed astuta, silenziosa ed impertinente al tempo stesso. Lo
vedi sorridere, e sei perduto. Lo baci, e sei dannato. Ci fai
l'amore, e di essere perduto e dannato senza speranza sei pure
felice. È
bravo, lui.
Humphrey prende il flûte,
lo posa delicatamente nel lavandino sotto il ripiano del bancone.
Si
rivolge a Tom: - Fagli una domanda.
Il ragazzo getta
un'occhiata al Greco, poi guarda Humphrey.
Alla fine, si schiarisce
la gola e chiede con tono casuale: - E... Come vi siete conosciuti,
se posso chiedere?
Come se avesse toccato
chissà quale tasto segreto il Greco solleva il capo di
scatto,
battendo le palpebre pesanti sugli occhi grigi.
- Certo, è sempre un
piacere rievocare quella sera di cui, in realtà, ricordo
poco... La
sfumatura ciclamino dei suoi skinnies, ad esempio, è
impressa a
fuoco nella mia coscienza. Un dettaglio stupido. Anche tra i fumi del
dancefloor, e della tequila boom-boom, quella particolare nuance
spiccava su tutto come una macchia di marmellata alle fragole su una
tovaglia immacolata. È
stato creato per essere notato, d'altronde.
- Noi artisti, Tom, siamo
una razza particolare: moderni Ulisse senza Itaca e senza Penelope,
per sempre rari nantes in gurgite vasto. Nel momento in cui troviamo
un appiglio, un qualsiasi dettaglio che ci salvi dalla
notorietà,
dalla grandezza e ci ricordi che il nostro piccolo mondo dorato
è
per l'appunto piccolo e fuori c'è altro, grazie al cielo, ci
attacchiamo con tutta la forza possibile, fino a ferirci e farci
ferire e non ci importa. Succede sempre così. Sanguiniamo,
scriviamo, cantiamo. Per voi, per noi, per chi ci ha distrutti.
- Lui mi ha distrutto. Il
che è buffo, perché all'inizio doveva solo essere
l'incontro di una
notte, una di quelle storie che non meritano di essere chiamate tali.
- L'ho incontrato a
Parigi... Una città troppo romantica per lui che
è in cerca solo di
avventure, ed infatti era così fuori posto mentre
passeggiavamo per
i boulevard, con quella sua aria pragmatica e l'eloquio un po' rozzo
e la sua ricorrente risatina sciocca che da allora non sono riuscito
più a togliermi dalla testa. Camminavamo ridendo e parlando
del più
e del meno, come se non fossimo usciti da un locale per andare a
scopare in un hotel poco lontano.
- Questo mi ha fatto
perdere la testa. Non è seduttivo, non si atteggia, ride,
beve
mojitos, ti sfila le mutande con i denti senza mai cambiare
atteggiamento. Niente è serio, per lui, niente vale la pena
di
pensarci due volte o di alterarti o di incupirti. “La vita
è un
ristorante, è come un gran buffet”, mi diceva
sempre. “Smetti
di farti il sangue amaro per ogni cosa... E se proprio non ci riesci,
chiamami e ti aiuterò.”
- Dopo quella prima notte
parigina, infatti, l'ho chiamato molte volte. E quando non lo
chiamavo, avevo voglia di farlo. Non farsi il sangue amaro era un po'
difficile, quando il pensiero di lui non mi faceva dormire la notte.
Non è stato un bel periodo, quello della nostra
non-relazione...
Perché nonostante lo cercassi e ogni tanto trascorressimo
lunghissime e piacevoli ore sotto le lenzuola, non stavamo di certo
insieme. Arrivare al suo corpo è fin troppo facile, il
problema sta
nel fatto che al suo cuore tutt'al più puoi girare attorno,
in
attesa di un segnale di resa che non è mai arrivato, nel mio
caso...
Un po' per la sua cronica refrattarietà ai legami fissi, ed
un po'
per lui.
- Ho detto che non ama i
legami fissi, giusto? Be', lui è l'eccezione. È
brutto, davvero brutto, con la r
che rulla e la
faccia che si corruga tutta quando lo dici. È
palesemente instabile dal punto di vista mentale, ha un figlio, una
fidanzata. Non ha niente per piacere, niente. Eppure dovresti vederlo
quando parla di lui – gli occhi gli brillano e la voce gli si
addolcisce. Una scolaretta in calore.
- Potrai dirmi che adesso
sembra tutto migliore, è ovvio,
perché i colori dei ricordi
sono sempre più vividi dei colori nella realtà
– lui non è così
biondo, i suoi occhi non sono così grandi e non mi parlava
davvero
d'amore, no. Non parlava neanche di me, magari,
vero? Parlava
sempre di e alla sua pantegana glabra, la sua schizofrenica zoccola
di fogna che un momento lo venera ed il momento più tardi lo
tratta
come un turnista qualsiasi.
- Ci sono molte cose che
possono venirmi rinfacciate, ma non che io non sappia amare. Lo avrei
trattato – al diavolo, lo tratterei – meglio di
quanto potrebbe
mai fare quello sconsiderato, sciatto roditore antropomorfizzato da
cartone animato. Bevo per questo: brindo alla nobile
stupidità del
mio animo, levo il calice verso l'assolata e frigida terra di
Hollywood e mi chiedo cos'ha fatto quell'altro per meritarsi
ciò che
desidero con tutte le mie forze.
-
Presto o tardi tutto questo finirà, ma solo per poco
tempo... Non so
stare distante dai disastri, purtroppo. È il mio modo
distorto e
romantico di vivere ogni legame che me lo impedisce: sono tutti
l'ultimo, unico vero amore della mia vita. Anche lui lo era.
Il
Greco tace, il suo racconto è finito.
Tom
è confuso da quel flusso di parole che sembra pura coscienza
più
che una storia organica e completa. Troppi giri di parole, ricordi ed
immagini suggeriti da un dolore che si nutre di champagne e buone
letture, languido, autoreferenziale, romanzato.
Inizia
lo stesso a rassicurare l'avventore: - Senta, sono sicuro che...
-
Ragazzo.
Tom
si gira verso Humphrey, che scuote il capo silenziosamente.
Il
Greco, intanto, chiede ancora da bere – stavolta si tratta di
un
rude shottino di rum.
Dopo
averlo servito, Tom si giustifica con il suo datore di lavoro: -
Stavo solo cercando di consolarlo.
-
Non vuole essere consolato. -
Humphrey
gli indica il cliente con un cenno del mento.
-
Guardalo... Bello, ricco, colto. Eppure, è uno degli uomini
più
soli che tu abbia mai incontrato... E non puoi fare nulla per
aiutarlo.
-
Allora qual è il nostro compito...?
-
Ascoltare, versargli da bere, farlo sentire come se il suo fosse
l'unico cuore infranto nella storia dell'umanità.
-
Tutto qui?
-
Di questi tempi, raccogliere i cocci con calma è un lusso...
E
comunque, c'è chi su una delusione amorosa si è
costruito un'altra
vita.
Tom
non capisce, non fino in fondo, forse per mancanza di esperienza. Da
una parte, spera di non arrivare mai a capire il senso di
ciò che è
appena accaduto. Dall'altra, sa che prima o poi dovrà
succedere.
-
Te la sei cavata, comunque. I miei complimenti.
Riscuotendolo
dai suoi pensieri, Humphrey gli ha porto la mano.
Stupito,
Tom la fissa senza sapere bene cosa fare. Poi ridacchia in anticipo
della penosa battuta che sta per pronunciare.
-
Quindi... Questo è l'inizio di una bella amicizia?
Sul
viso di Humphrey si disegna un insperato accenno di sorriso, forse di
superiorità o forse addirittura di genuino divertimento.
La porta si apre, è arrivato un altro cliente.