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Autore: yuki013    26/08/2012    4 recensioni
Re bianco contro re nero, Vega contro Altair, Amata contro Kagura – il tutto sotto la luce, primordiale e creatrice, del nulla assoluto. […]
Amata si svegliò di soprassalto, osservando la piccola con un sorriso stanco. Le diede un buffetto sulla guancia e la abbracciò, passandole le dita tra i capelli chiari.
«Un altro dei tuoi sogni, Alicia?».
«No, ti dico che c’è un ragazzo-sole nel giardino!».
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Altri, Amata Sora, Kagura Demuri
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Due nuovi fandom in un giorno mi mettono un pò in crisi, dunque domando scusa se questo mio intrufolarmi da queste parti sarà molto silenzioso e discreto, ma credo di aver dimenticato come ci si presenta su nuovi lidi, abituata come sono sempre agli stessi fandom.
Se c'è una cosa che posso dire è che mi piace slashare chiunque, ma Aquarion EVOL è una di quelle serie in cui vedo benissimo sia coppie het che yaoi (lo dimostra il fatto che questa fanfiction non termina in un lago di sangue), dunque il mio iniziare a postare qui con una yaoi è solo questione di idea del momento, e non di un odio radicato per i personaggi femminili. Specialmente non per Zessica. #adorazione
E dunque...buona lettura. Darò anch'io il mio (seppur misero) contributo per una sezione a sé stante O9
-Yu

-NdA: Prima classificata al "The Vocal Contest" indetto da Liena90 sul forum di EFP



Like a neutron star collision

 

C’era stato il tempo per la lotta – sin dall’inizio, sin da quando erano bambini, la battaglia era stata sempre al centro dei loro destini. Era naturale, come la nascita dell’universo, come il battito d’ali di un gabbiano che caccia sul pelo dell’acqua. Era istinto e dominazione, era affermazione di sé e della propria volontà.
Negli anni, pur crescendo in mondi separati e diversi come il giorno e la notte, entrambi avevano cercato quel qualcosa che avrebbe potuto completarli e renderli padroni di un mondo che in realtà non era poi tanto loro, ma che era bello credere pieno di infinite possibilità. E così, Amata da un lato, Kagura dall’altro, due facce di una medaglia lasciata ad arrugginire al sole e alle intemperie tanto che alla fine si era spaccata a metà, avevano per un breve tempo sperimentato il piacere di essere considerati superiori al resto degli uomini.
Ad Amata bastavano la stima dei compagni e l’affetto di Mikono, nulla di più per essere felice; d’altronde Kagura era il combattente più forte di Altair, specie con la sua donna maledetta accanto, chi mai avrebbe potuto eguagliarlo se non lo stesso Izumo che pure lo temeva? Ma la luce che entrambi avevano sperimentato nascondeva un’immensa, oscura ombra che attendeva quieta di fare la sua comparsa nello spettacolo di luce di Ali del Sole.
Quando improvvisamente le due metà della medaglia furono riunite su Vega tutto prese ad incrinarsi, ad assottigliarsi, a vorticare incontro a un immenso buco nero d’ombra e buio, lì dove il sole non era che un mero ricordo lontano – lì dove il predominare sull’oscurità diveniva l’unica mossa sensata, e due re di fuoco avrebbero non solo illuminato, ma incendiato quell’astratto universo fatto di nebbia e ricordi confusi nello scorrere del tempo.
Re bianco contro re nero, Vega contro Altair, Amata contro Kagura – il tutto sotto la luce, primordiale e creatrice, del nulla assoluto.


Era stata la rabbia a farli iniziare, la prima volta. Una parola di troppo di Amata, o forse un’offesa più pesante di Kagura – ma che importava, quando i litigi erano all’ordine del giorno? Chiunque avesse aperto le danze non aveva importanza, poiché l’uno o l’altro avevano già steso il tappeto rosso per gli ospiti del galà. Amata aveva semplicemente tappato la bocca a Kagura con la propria mano, spostandolo sul pavimento e gravandogli sopra con il proprio corpo. Il braccio destro si era preparato in maniera così naturale e ironica a dargli l’ennesimo pugno che quando avvertì la lingua di Kagura infilarsi nello spazio tra l’indice e il medio della mano sinistra non riuscì comunque a non colpire il pavimento, sbucciandosi le nocche. E dopo averlo osservato attentamente negli occhi d’ambra mentre leccava piano le sue dita, mordendole per fargli male e dargli ancora più fastidio, Amata dovette pure ringraziarlo mentalmente perché sarebbe volato via, se le sue mani non lo avessero trattenuto per i fianchi a dovere.



Da dove avevano iniziato? Ah sì, dalla lotta. Persino togliersi i vestiti e dimenticarsi di Mikono era stata una battaglia: tra un paio di boxer gettati chissà dove c’era stato il tempo per un “Ferm- Mikono-san…” troppo biascicato perché Kagura potesse intenderlo davvero come un rifiuto. Ma d’altronde accettare quell’atto del quale Amata era sicuro si sarebbe pentito molto presto non equivaleva a lasciar campo libero a Kagura, ma anzi la sua presa si fece più forte quando lo sentì attraversare punti di sé totalmente sbagliati con le dita umide di Dio sa cosa, e le sue unghia per quanto corte gli solcarono la schiena lasciandosi dietro piccole strisce di pelle martoriata. Fare insieme quel genere di cose era rude, un movimento quasi animale, un cozzare di due corpi identici separati da una seconda nascita in un altro organismo diverso dal proprio. E per quanto entrambi cercassero di vincere era impossibile che due metà riunite prevalessero l’una sull’altra – perché non è quello il destino di due mezzi. Lottare, resistere e andare avanti andava bene fin quando erano separati, a dar luce a due diverse realtà.
Ma adesso che erano finalmente riuniti, un corpo solo che spingeva, tirava e si inarcava contro le lenzuola sfatte di un letto anonimo del dormitorio maschile, non c’era più nessuna luce. C’era solo l’ombra, il buio, l’ignoto.
E nonostante questo, era caldo.


Avevano continuato a giocare al gatto e al topo, a far finta di odiarsi. E magari si odiavano davvero a volte ma mai nella completezza dell’estasi: in quei rari momenti né Amata né Kagura pensavano all’odio o al rimorso, al sentimento che li costringeva a spogliarsi improvvisamente dentro le docce e far combaciare la labbra finché la pelle delle mani si raggrinziva e gli occhi si riempivano di piacere languido che l’acqua gelida non poteva in alcun modo lavar via. Come in un contatto tra due stelle bianche, si bruciavano a vicenda con bocche e mani, e sguardi carichi di un sentimento che nessun altro avrebbe mai potuto comprendere.

E dietro di loro, l’ombra della paura rimaneva lì ad osservarli: in ogni scusa che Amata rifilava a Mikono per non darle modo di vedere i segni che gli ricoprivano il corpo anche in zone troppo difficili da raggiungere da sé, negli sguardi che Zessica rivolgeva loro a lezione e che erano un segnale chiaro, un “io so cosa fate” detto in silenzio e mai apertamente professato. Quel buio che gravava su di loro spariva solo in quei momenti in cui riuscivano a tornare un essere unico, indiviso e completo nella sua unione: soltanto allora i poli sembravano invertirsi, e mentre Kagura perdeva la sua indole aggressiva doveva invece contrastare quella agitata e passionale di Amata. Gli dava corda e se la riprendeva, lo accontentava e lasciava insoddisfatto così come anche Amata faceva con lui, ed era stranamente bello rincorrersi e non prendersi mai, e ridere dopo aver fatto l’amore rotolando a terra dopo qualche cazzotto dato senza cattive intenzioni, baciandosi come bambini che giocano sulla sabbia. Perché in fondo entrambi erano cresciuti troppo in fretta, troppo rapidamente per poter assaporare appieno la bontà ingenua dell’infanzia, e stare insieme era un modo come un altro per scacciare la noia sì, ma anche quell’ombra che si presentava ancora sotto le spoglie letali della solitudine.

Era successo in un giorno d’estate, mentre il sole tramontava sul mare e tutto era tinto di rosso cremisi. Uno scenario splendido, l’ultima scena di una farsa durata tre anni fra interruzioni e colpi di scena, in atti di durata variabile che infine avevano condotto Kagura sulla propria moto. Lontano dalla NeoDEAVA, lontano da quella che era diventata la sua città, lontano dai suoi amici.
Lontano, infinitamente lontano da Amata.
Fu per questo che non si fermò, quando sentì che gli stava correndo dietro e poi volando, premendo più forte il piede sull’acceleratore. Fu perché erano uniti dalla nascita dell’universo stesso, che se ne andò lasciandolo con brandelli di sé da rimettere pazientemente a posto, coccio per coccio, ancora una volta. E fu soltanto così che si convinse che quelle sul suo viso non erano lacrime, ma il pianto degli angeli che commossi assistevano alla creazione di un nuovo mondo.
Un mondo separato, ancora una volta.


Il sole era tornato a splendere in città. Dopo l’ennesimo temporale estivo, la vita proseguiva calma e tranquilla per tutti. Una bambina con i capelli biondi e gli occhi viola giocava con la propria palla nel giardino sul retro, con un cagnolino che la rincorreva e le mordicchiava l’orlo del vestito. E anche se la sua mamma viveva lontano per lavoro, a lei bastavano il sole e il mare per essere felice e ridere spensierata. Non doveva lottare contro nessuno, le bastava vivere alla giornata senza preoccuparsi troppo di quel che sarebbe arrivato.
«Alicia?».
I suoi occhi vispi si posarono su uno sconosciuto al di là dello steccato – e la prima impressione che ebbe fu quella di avere davanti il sole stesso. Era rosso e dorato, proprio come l’omonima stella.
«Ti chiami Alicia, vero? Vorrei parlare con il tuo papà».
E la bambina, senza ulteriori indugi, scappò dentro casa lasciando pure la porta d’ingresso aperta. Con la coda dell’occhio vide l’estraneo scavalcare i pali di legno e attendere sul prato. Suo padre invece riposava su una poltrona del soggiorno, l’aria beata di chi si gode un raro giorno libero.
«Papà, c’è il sole nel giardino!».
Amata si svegliò di soprassalto, osservando la piccola con un sorriso stanco. Le diede un buffetto sulla guancia e la abbracciò, passandole le dita tra i capelli chiari.
«Un altro dei tuoi sogni, Alicia?».
«No, ti dico che c’è un ragazzo-sole nel giardino!». Alicia lo prese per mano cercando di trascinarlo fuori, cosa alla quale Amata acconsentì, più che altro per farla contenta.
«E dimmi, questo ragazzo-sole vuole portarsi via la mia principessa?».
«È troppo vecchio per me. E poi sta cercando te».
«E sentiamo, come sarebbe questo strano tipo?».
Arrivarono alla porta tra le urla eccitate della bambina. «Com’è? Beh, rosso come il fuoco, dorato come il sole, e brilla di taaaaanta luce. Però ha gli occhi tristi, tanto».
Poi Amata non domandò più nulla. La mano di Alicia lo lasciò e la bimba rimase al suo posto, osservando lo scontro fra due soli un attimo prima dell’esplosione. Stelle di neutroni, le aveva chiamate una volta sua madre: belle e autodistruttive, che muoiono implodendo in un immenso buco nero.
Ma proprio come la nascita della vita, ad Alicia sembrava che quel buio tra le loro braccia unite fosse quanto di più caldo e paradossalmente luminoso potesse esistere al mondo.

Come un’eterna, bellissima, improvvisa collisione tra stelle gemelle.





   
 
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